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La carrozzella seguì l'unghia, in
principio, di umili collinette, passò un villaggio, un fiume, altri villaggi,
corse una tortuosa stradicciuola vagabonda nel piano sino agli avamposti degli
Euganei, piegò per il viale maestoso di platani che ne rade a settentrione il
fianco deserto.
Dove questo svolta a guardar il
levante e si allontana verso mezzodì, si parte dalla via maestra e lo segue uno
stradone che mette capo dopo cinque minuti alla fosca cintura del grande
monastero abbandonato, alla torre merlata, al bel tempio possente del Quattrocento,
assiso sur un enorme dado di pietre nere, onde irrompe qua e là, congiurata con
le ribellioni del pensiero, la ribellione dell'erba viva. Maironi fece l'intero
viaggio senza guardar mai né a destra né a sinistra, assorto nel suo dramma
interno, nelle visioni di villa Diedo, nel fantasma della Valsolda. Anche lo
molestavano di tempo in tempo i richiami di tanti affari pubblici gravi,
urgenti, che aveva per le mani, benché non volesse dar loro ascolto. In fondo
il colloquio con don Giuseppe gli aveva lasciato nell'anima gratitudine,
riverenza nuova, tenerezza intensa per il santo vecchio e con questo una
mistura di delusione, non avvertita in principio, manifestatasi poi a misura
che ne veniva meditando le parole disgiunte dal suono dolce e grave della voce,
dall'aspetto del viso pio, dall'aura dello spirito immacolato. Sospettava, in
fondo, di non essere stato compreso né conosciuto bene, sospettava che il
consiglio di fuggire in una solitudine e di viverci partisse da un concetto
inesatto della sua natura e fosse stato suggerito dal desiderio di sostituire
al monastero, impossibile, uno stato simile allo stato monastico. Ora egli
aveva sognato i sacrifici, le aspre penitenze; si sgomentava della vita inerte
in una casa piacevole. Ah però, se Iddio lo aiutasse! Se la coincidenza strana
del consiglio di don Giuseppe con la lettera di Valsolda significasse un
disegno della Provvidenza! Quando si vide a fronte la fosca cintura e la torre
merlata di Praglia pensò che forse, chi sa, nel silenzio dell'antico monastero
la voce divina gli si farebbe udire. Lo urtò improvvisamente fuori de' suoi
pensieri un fracasso di cavalli al gran trotto e di ruote sulla ghiaia. Una victoria che veniva dal monastero gli passò accanto,
una voce nota gridò: «Maironi, Maironi! Ferma, ferma!». La carrozzella si
fermò, un giovanotto elegante, saltato dalla victoria, corse allo
sportello. «Finalmente» diss'egli con uno spiccato accento toscano. «Vede,
signor sindaco, che improvvisata! Si è saputo che il nostro signore e padrone
veniva a Praglia e noi che siamo i fedeli tra i fedeli, dietro! Ma si credeva
di trovarlo qui ed eravamo un poco puzzled. Jeanne è al monastero. Io
vado a occuparmi dell'igiene delle mie bestie, e ritorno subito. Mi dica un
po': Lei non ha ombrello e tiene anche abbassato il mantice della carrozza. Si
piglierà un malanno con questa pioggerella fredda che in aprile dev'essere poi
anche infetta di fermenti, credo!»
Maironi non s'era accorto affatto
della pioggia. Al vedere Carlino Dessalle, sentì, prima di udirlo, che sua
sorella era a Praglia, ch'era venuta per lui, che tornar indietro era
impossibile.
Una fiamma gli divampò in cuore.
Così, così Dio lo aiutava? Non era un irridere lui che si era proposto
d'interrogare la volontà nella pace del monastero e anche un irridere al suo
ministro, povero santo vecchio, che lo aveva consigliato di venirci? Impose
silenzio alla ribellione interna, con impeto, salutò Dessalle non senza
imbarazzo. Partito Dessalle, ordinò al vetturino di andare al passo. Dio, come
comportarsi nel primo incontro! Lasciar comprendere lo stato dell'animo suo, la
risoluzione di allontanarsi, o coprirla, dissimulare? Sì, sì, dissimulare. Ma
troppo no, sarebbe un tradimento! Restar poco? Un pretesto, un pretesto di
restar poco! Dio, quale? Gli zoccoli del cavallo suonarono sulle pietre della
soglia, Maironi si compose, palpitante, un viso freddo, la carrozzella entrò
nel portico del cortile rustico.
Lì non c'era nessuno. Piero
stette un pezzo a guardar il tremolare della pioggia fitta e minuta fuori del
portico, sull'erba folta, sul pozzo elegante del Cinquecento, sull'alto fianco
del monastero imminente a sinistra con le sue piccole finestre archiacute, con
i finestroni dello scalone interno del Settecento, con gli archettini trilobati
delle cornici di terracotta. Stette a guardare, a origliare. Nessun passo,
nessuna voce. Richiamò al cuore tutti i suoi propositi buoni e si avviò a
sinistra verso una porta socchiusa. L'aperse, ebbe una visione di svelte
arcate, il senso di un pio, ammonitore pensiero antico, di una severa bellezza
casta. Entrò e nulla più vide, nulla più sentì di quel gentile Quattrocento. A
dieci passi da lui, la signora Dessalle, stretta in un lungo mantello verde
scuro, foderato di pelliccia, in un collare di skunk, col bavero rialzato
intorno al viso pallido, lo guardava immobile.
Ella lo guardava con lo stesso
sguardo serio che gli aveva fermato in viso nel treno, dopo molti altri sguardi
fugaci, dopo un batter incerto delle palpebre, un'apparente lotta con se
stessa. I grandi occhi di lei, dama in ogni movimento dell'alta e fine persona,
in ogni linea della toeletta ricca e severa, lo avevano allora fatto palpitare
con la loro fissa profondità, dove oscura passione e oscura ironia componevano
un indistinto colore di maturità voluttuosa. Ella li aveva ritolti per la prima
da quelli del giovane. Apertasi quindi il lungo mantello verde scuro foderato
di pelliccia con un atto lento, negligente delle mani, guardando il finestrino,
aveva lasciato intravvedere lo squisito disegno del busto. La figura e le
movenze erano così nobilmente signorili, il viso così serio, che il solo dubbio
d'una pensata cagione di quell'atto aveva dato a Maironi il più mordente
piacere. I begli occhi, ripresi da inquietudine, dopo guardato a caso qua e là,
si eran fermati ancora nei suoi, gli avean fatto doler di dolcezza tutta la
persona. E adesso, dopo alquanti mesi di familiarità, ella lo guardava con lo
stesso sguardo, muta, immobile, stretta nello stesso mantello, nel collare di skunk,
col bavero rialzato intorno al viso pallido e serio. I begli occhi bruni
dicevano: "Eccomi, son venuta per Lei, ho fatto male? Aspetto una parola'.
Il giovane salutò sorridendo con
un sorriso forzato e le stese la mano ch'ella non prese.
«Lei desiderava di star solo,
qui? Debbo andar via?» diss'ella con la sua bella voce rapida, col suo
purissimo accento. E lentamente, quasi timidamente, una mano inguantata di
bianco uscì dal mantello dischiuso, mentre lo sguardo fisso cercava la risposta
in fondo agli occhi di lui.
Maironi strinse la mano che si
offriva, disse un «grazie» inteso a evitar una risposta diretta senza
scortesia: caldo, perciò. E subito, al sorriso felice di lei, n'ebbe una
stretta di rimorso.
«Le piace la mia toilette?»
diss'ella. «La ricorda?» E sorridendo ancora dischiuse un poco il mantello,
mostrò lo squisito disegno del busto.
Egli impallidì e rispose freddo
che la ricordava.
«Lo so, che la ricorda. Sono
anche freddolosa, ma l'ho messa per questo. Dica, forse non Le sono mai tanto
piaciuta, dopo, come quel giorno, nel treno.»
«Sa» diss'egli scherzando,
«quando viaggio ho il cuore molto sensibile.»
La giovane signora aggrottò le
sopracciglia, mormorò: «Brutto!» e soggiunse subito: «Però mi trova bella?
Molto bella, non è vero? Anche adesso?».
Il giovine fece «oh, moltissimo!»
con un inchino profondo. Ella si sdegnò di quel tono. «Se non fossi tanto vile
con Lei» disse, «dovrei voltarle le spalle! Mi fa una rabbia! Lei è tanto
padrone di sé, e io, appena ho cominciato a sentire, mi sono tradita subito. Io
non so nascondere e non me ne importa niente, del resto. Senta! Lei mi ha
giudicato leggera quel giorno, in viaggio? Mi ha giudicato civetta?»
«No, avrei giudicato leggera e
civetta un'altra; Lei, con quella sincerità negli occhi, no.»
«Me l'ha detto, però, dopo!»
«Sì, ma per giuoco.»
«E adesso mi giudica male perché
sono venuta?»
Maironi esitò un attimo prima di
rispondere: «No».
«Perché ci ha pensato? Ecco che
mi giudica male. Cosa voleva dire? Ha risposto "no' per compassione. Mi
giudica anche Lei come certi suoi cari concittadini!»
Egli sapeva le calunnie infami
sparse da qualche sciocco, da qualche spensierato sul conto di Jeanne Dessalle,
e protestò con tanto sdegno, con tanto ardore che gli occhi di lei ebbero un
sorriso dolcissimo.
«Non sono cattiva, sa, sono molto
buona» diss'ella facendosi un viso contrito, una boccuccia di bambina
imbronciata, una voce dolente. «Solamente non so nascondere quello che sento.
Non ho potuto nascondere la mia simpatia neppure quel primo giorno. E faccio
male, ho sempre fatto male a tradirmi così, perché Lei è un superbo che
vorrebbe conquistare per forza l'amore di una donna superba. Io invece sono
umile e non Le piaccio.»
Non era la prima volta che la
signora Dessalle si mostrava tanto audace con Piero Maironi. La prima volta ella
gli si era mostrata così a villa Diedo, nel boschetto appartato che pende dal
colle ai silenzi di una valletta deserta. Gli aveva detto che lo trovava tanto
diverso da tutti, tanto migliore, ch'era felice di vederlo, ma che
l'aspettazione delle sue visite la turbava sempre, che poi la sua presenza le
metteva una soggezione grande e che osava dirgli tutto questo perché lo sapeva
un santo.
Maironi, non conoscendola ancora,
aveva giudicato che si trattasse di un capriccio, di una provocazione meditata
e non dubitò di venire disprezzato per il suo riserbo. Vide poi che la signora
non lo disprezzava punto, la conobbe fieramente sincera, fieramente sdegnosa di
capricci sensuali, vergognò di sé, del proprio sospetto indegno, come di una
inferiorità morale.
«Dica» insistette la signora
perché il giovine non rispondeva.
A un tratto gli occhi di lei
diedero un lampo.
«Cos'ha?» diss'ella. «Lei ha
qualche cosa!»
«Niente, non ho niente. Cosa
vuole che abbia?»
Piero rispose sorridendo così poco
spontaneamente, che un'angoscia, una tenerezza senza nome sfolgorarono nel viso
pallido di Jeanne. «È successo qualche cosa? Cosa è successo? Parli!» E gli
afferrò un braccio.
«Badi, c'è il custode» mormorò
Piero, sgomentato.
«No, no, non c'è, è andato a
prender le chiavi del refettorio. Parli! Parli!»
«Ma, Dio, adesso verrà Suo
fratello!»
«Non me ne importa!» esclamò la
signora. «Dica! Cosa è successo?»
Tanta violenza ferì Maironi.
«Niente» diss'egli, fermo. «Non è successo niente. Ho preso una risoluzione,
ecco tutto.»
«Quale risoluzione?»
Il custode con le chiavi.
«Un momento» rispose Piero. Ma
che importava a lei la presenza di quell'uomo! Un fugace moto di commiserazione
orgogliosa le passò per gli occhi torbidi e le sopracciglia inarcate. Come poteva
il grande amore usar tante piccole prudenze? «Vada avanti!» disse al custode.
«Apra! Noi verremo poi.» E non curando più costui che brontolava e non
obbediva, si volse a Piero. «Quale risoluzione?» diss'ella.
«Una risoluzione che Le farò
conoscere, ma non ora.»
«Perché? È una risoluzione che mi
deve far male?»
«Non ne parliamo adesso, La
prego!»
«Com'è possibile, a me, di non
parlarne? Lei non capisce niente!»
Alle acerbe parole seguì uno
slancio represso della bella persona che si porse un istante fremendo amore,
raggiando dal viso e dallo sguardo umile, accorato amore.
«Oh, ma questo è un incanto, è un
paradiso!»
Era Carlino Dessalle che si
estasiava così sull'entrata del cortile, alle spalle di Piero. «Caro Maironi»
diss'egli «senta quest'idea. Praglia è il sogno d'un vecchione vergine e santo
che ha cenato di olive e di melagrani e si è addormentato al suono di un
preludio di Bach, non però come vi addormentereste voi. Oserei anche dire che
ha bevuto acqua sterilizzata.»
«Lei non ha veduto ancora niente»
fece Maironi.
«Dio, questi sindaci come sono
amministrativi! Niente, dice! Non ho veduto niente quando sono arrivato in
carrozza perché avevo paura di pigliarmi un malanno grazie ai capricci di mia
sorella che vuole la pelliccia, ma vuole anche la pioggia e il vento; e
soprattutto perché mia sorella è stata insopportabile, mi ha torturato tutto il
tempo accusandomi di un ritardo che poteva far crollare, a quanto sembra, il
cielo e la terra; ma ritornando a piedi, adesso, ho avuto le coup de foudre.
Capite, basta uno sguardo. La torre merlata e quella divina loggetta che vi si
porge incontro lassù - già voi nemmanco l'avete vista! - come un saluto del
genio dell'abbazia, il quale non ha potuto partire coi frati; e quella bruna
chiesa quattrocentesca, così larga e solida nella sua eleganza, assisa in alto
sopra quella compagine quadrata di grandi pietre coricate e morte come volumi
di teologi, di dottori e di Padri, mi han fatto battere il cuore; o almeno
qualche cosa in quel posto, perché mia sorella non è sicura che io ce l'abbia,
il cuore; quanto a me non ci tengo.
E, capite, la massiccità -
lasciate, vocabolo mio! - la massiccità toscana di questo zoccolo e di questa
chiesa così legata con la toscanità di questo colle che di barbaro ci ha
solamente la calotta di selva selvaggia sopra gli oliveti, ma è tanto composto
nel suo movimento, tanto schivo di ogni attitudine maleducata, tanto serio,
vero?, e fatto per la meditazione, con quelle piccole processioni
fraticellesche di cipressetti, molto bornés ma semplici e pii, tale insomma, questo
colle, che si vede nel suo corpo alto e grosso una devota umiltà verso la
chiesa che gli sta sotto e che pure grandeggia e lo signoreggia, tutto ciò mi
ha preso, diremo eh, sorella mia, i polmoni, perché quelli spero di averli, e
ho buttato fuori tutto il mio fiato in una fila di oh! oh!, tanto che ne son
rimasto senza per cinque minuti.»
«Pare che ti sia ritornato» disse
Jeanne.
«Oh sì, è ritornato. E qui e qui,
questo cortiletto divino, questo casto pensamento trasmutato in sogno! Guardate
la grazia infinita dei fregi minuti, vedete le cornici di terracotta, gli
archettini trilobati, il melarancio simbolico, e quelle conchigliette, un
antico rosario allineato. Giusto, forse non erano melagrani, erano melaranci
che il vecchione santo ha preso a cena. È la grazia del colossale! Guardatemi
questa torre che regna e non opprime. Lasciamo che si tiri su la nostra
gratitudine verso un'eccelsa fonte di tutte le forme belle.»
«Carlino» interruppe sua sorella,
«non far troppo il Carucci!»
«Che Carucci! Il Carucci è un
monolito e io sono una costruzione infinitamente composta. Il Carucci non ha
che una nota e io ne ho cento. Il Carucci è un ipocrita intellettuale. Ha finto
per tanto tempo di sdilinquirsi per la bellezza che ora si crede sincero. In
fondo non gusta che vino bleu, formaggio pecorino e cuoche. Lasciatemi
dire. Il Carucci non è uno specchio delle cose multicolore, mobile, ora piano,
ora cavo, ora convesso, come lo sono io che poi non scrivo. Per il Carucci lo
specchio è nelle cose; egli non ci vede che sé, dappertutto sé. Lasciami dire.
Oh, badate! Codesto ha ad essere lo stemma del monastero. Una stella. Bene!»
Mentre Carlino Dessalle, col
monocolo incastrato nell'occhio destro, alzava il suo lunghissimo naso fine, la
sua smunta bruna faccia originale verso lo stemma del monastero, scolpito sopra
una porta, sua sorella prese il braccio di Maironi.
«Andiamo» diss'ella, e
raggiunsero il custode ancora piantato lì ad aspettare sull'altra porta che
mette allo scalone.
Dessalle, pur guardando la
stella, se ne avvide e si rannuvolò. Egli teneva sua sorella, maggiore di lui,
per la donna più bella, più affascinante e insieme di più alto animo e di più
sicuro giudizio che fosse al mondo. Gli pareva strano che ciascuno dei suoi conoscenti
non s'innamorasse di lei, gli pareva naturale che l'amore dell'uno o dell'altro
giungesse a toccarla un po', ma ch'ella potesse con un atto, con una parola,
venir meno per un solo momento alla propria dignità, non l'aveva sospettato
mai. Incominciava a sospettarne adesso per la prima volta e n'era,
segretamente, turbato.
Che sua sorella provasse una viva
simpatia per Maironi, ch'egli pure stimava molto malgrado la gran divergenza
delle idee, lo intendeva. Intendeva meno ch'ella curasse poco di nascondere il
proprio sentimento, mentre Maironi, se pure era innamorato, sapeva dissimulare.
Aveva consentito non senza qualche difesa alla gita di Praglia per timore che
Jeanne ci venisse sola; e ora gli seccava che, presente lui, ella, non paga di
esser corsa dietro Maironi, anche gli si attaccasse a quel modo. La richiamò a
veder lo stemma del monastero e il tono del richiamo fu alquanto vibrato.
Jeanne si staccò da Maironi, che non la seguì, e venne sola, a malincuore.
«Vergisst mein nicht!» le
diss'egli sottovoce, quando gli fu vicina, pigiando sul t del plurale.
Ella alzò il viso imbronciato a
guardar la stella e sussurrò:
«Credi che so condurmi.»
Carlino, contento in cuor suo di
essere stato inteso, protestò di non aver voluto dir questo. Che! Mai!
Intanto Maironi contemplava non
il doppio giro delle svelte arcate sotto le sopracciglia graziose delle cornici
di terracotta, non la torre ascendente in atto di mediatrice fra il chiostro e
il cielo, ma il disordine vivo e la foga, nel cortile, dell'erbe ubbriache di
primavera. Contemplava l'erbe, pieno il cuor torbido e dolente di quella
offerta d'amore immenso, dell'idea che forse Dio non esisteva o almeno ch'era
un Dio diverso da quello della fede cristiana, poiché di tante preghiere,
penitenze e lotte lo rimunerava permettendo che in un momento simile fosse
tentato così.
«Lei ama i fiori? Quelli bianchi
son gigli, vero? E quelli gialli son dente di leone? E quelli azzurri
che sono? Dica, senta un'idea carina. Non han l'aria tutti questi fiori di aver
saputo che non ci sono più i frati severi né i loro asini ghiottoni, che non ci
son più né comandamenti né precetti, e d'essere allora sgusciati fuori da
quella corbeille, da quella vecchia vasca là in mezzo, di essersi
dispersi per fare all'amore allegramente un po' dappertutto? Dica.»
Volendo pure almeno una paroletta
dolce per l'idea carina, Dessalle posò un dito sulla spalla di Maironi che
trasalì e rispose a caso:
«Certamente!»
Sullo scalone del Settecento che
sale ai grandi androni fiancheggiati di celle, mentre il custode indicava le
lapidi commemoranti visite imperiali austriache, Francesco I, Ferdinando I, e
Dessalle gemeva come se lapidi e scalone gli premessero sullo stomaco, sua
sorella, preso da capo il braccio di Piero, gli sussurrò affannosamente:
«Non mi abbandoni.»
Egli non rispose parola, strinse
inconsciamente col proprio il braccio di Jeanne, rallentò subito la stretta,
come atterrito. Gli occhi di lei, che si erano illuminati di dolcezza, lo
interrogarono con sgomento.
Egli disse allora, non volendole
dire, per uno sdoppiamento della sua volontà, per un maligno impulso interiore,
parole che sentiva esser il principio della sua disfatta:
«Le parlerò subito.»
Si erano avviati per un androne
alla loggetta sporgente che guarda i neri approcci del monastero, il fianco
della chiesa, il gran piano di settentrione fino a nevose Alpi lontane.
Non udirono il custode che li
richiamava:
«Signori, da questa parte!»
Dessalle gridò: «Jeanne!». Allora si voltarono e Carlino disse a sua sorella
che aveva un'idea: questa. Poiché il Governo con la sua Giunta superiore di
Belle Arti, con i suoi elenchi di monumenti nazionali, con le sue Commissioni
conservatrici di niente e rompitrici all'infinito, con le sue cateratte di
retorica ministeriale, lasciava marcire e perire un gioiello simile, comperarlo
per una frateria nuova di artisti e di poeti che avessero un comune concetto
dell'arte e fossero già entrati negli anni della sapienza cosicché non
importasse loro più affatto né di onori né di amori.
«Vediamo le celle» disse la
signora. Ma Dessalle protestò che mai non avrebbe posto piede in una di quelle
celle senza farsi precedere da una eccellentissima soluzione di sublimato
corrosivo al quattro per mille. «Temo particolarmente i microbi frateschi»
diss'egli. «Entrateci voi ma stateci poco.»
Entrarono in una cella. Appena il
custode ne tornò fuori pensando esser seguito da loro, Jeanne si fermò.
«Dunque?» diss'ella.
Adesso Maironi non voleva più dir
niente. La signora, corrucciata, si accostò al finestrino, parlò guardando i
campi, a voce bassa:
«Lei non ha cuore. È egoista. Si
diverte a essere amato e ha paura di compromettersi, vorrebbe dire e non dire,
farsi avanti e tirarsi indietro, non tanto avanti da metter sé in pericolo e
non tanto indietro da offendere me. È antipatico, disgustoso!»
Si voltò a guardarlo. Il cruccio
degli occhi dolenti, delle labbra serrate e sporte finì in un ritorno di
dolcezza e di preghiera.
«Sì» diss'egli, senza
avvicinarlesi. «Disgustoso a me stesso, sopra tutto. La mia prima risoluzione
era, guardi, cacciarmi in una cella di frate, per sempre!»
«Dove? Qui?» fece la Dessalle,
ironica. «Questa era la prima; e la seconda?»
Il custode rientrò facendo suonar
le chiavi e disse che lo sposo della signora la desiderava. Sia Maironi che
Jeanne sentirono cosa quell'uomo aveva pensato di loro. Alla signora ciò era
indifferente. A Maironi parve aver dato un passo avanti nella via scura
dell'abbandono di sé alla passione.
«Credevo che recitaste compieta»
disse Dessalle, un po' brusco. Sua sorella gli rispose che infatti aveva
provato lì dentro certa inclinazione a monacarsi e che Maironi aveva sentito
una divina chiamata per il ministero di sacrestano del convento. Conoscendola
incapace di coprir con affettate impertinenze le tracce di una emozione diversa,
Carlino rise e ritornò agli amoreggiamenti fantasiosi col monastero, al piacere
di crearvi con la sua immaginazione bellezze nuove per goderne primo e solo, di
esprimere i suoi capricci intellettuali in una forma curiosa, pregna dell'aura
cerebrale sua. Aveva rassomigliato il monumento a un sogno e come
quell'incognito Carucci dal quale gli pareva esser tanto disforme, vi andava
specchiando i sogni suoi propri, le sue proprie fantasie estetiche. Ne
assaporava certe squisitezze particolari d'arte che gli parlavano del suo
favorito Quattrocento e intanto l'anima unica dell'abbazia venerabile,
vivificante ogni pietra di pensiero santo, orante nella solitudine con la
maestà di un grande che si sente dissolvere in Dio, non era interrogata da lui
e non gli parlava.
Essa taceva pure interamente con
la signora Dessalle. Jeanne Dessalle, intelligentissima d'arte, non aveva dato
alle magnifiche architetture un solo sguardo attento e camminava a caso, legata
i pensieri e i sensi alla presenza di Maironi. A Maironi la impertinente
trovata della signora sulla vocazione era parsa forse un colpo di spillo a lui,
certo una soffiatina di polvere negli occhi del fratello, soffiatina che
supponeva la complicità sua. Gliene corse nel sangue prima una brivido di
dolcezza, poi una reazione di malcontento. Quando i suoi compagni, che lo
precedevano, oltrepassata una porta senza uscio, svoltarono dal corridoio nel
cortile pensile, ed egli, rimasto un poco indietro, si trovò a fronte quel
chiaror largo, quel quadrato severo di contrapposte arcate, il puteale nel
mezzo, il tabernacoletto sull'angolo del refettorio, pieno di cielo sotto il
pinnacolo, fra le quattro colonnine, lo Spirito del monastero lo fermò. Preso
dal suo dramma, il giovane si era scordato di essere a Praglia. Riconobbe a un
tratto il chiaror largo, il quadrato di arcate, il puteale nel mezzo, il
tabernacoletto sull'angolo del refettorio. Trasalì, si arrestò. Era il posto
della commozione inesplicabile, della presenza misteriosa, che due volte, a
intervalli di anni, aveva sentito. Sul piano del cortile, sulle fronti delle
arcate, un crescente lume di sole veniva più e più colorando le pietre austere
come un'ascensione interna di vita, di senso, di parola. La prima volta lo
Spirito del monastero aveva inebriato il giovinetto di desiderio, aveva la
seconda volta percosso l'uomo di rimprovero; adesso lo respingeva da sé, muto.
«Ebbene, caro Maironi, che fa?
Venga! Ci sono cose meravigliose, qui!»
Dessalle trascinò Piero nella
loggia, gli mostrò la cresta scura del colle imminente al tetto della loggia
opposta. «Faccia grazia, Praglia è l'abbazia del Morgante, del mio divino
Morgante! Quello è il monte dei giganti! Che stava pensando, Lei? Non ci
pianti! Pensi che oggi dovevano venire a Villa Diedo la contessa Importanza e
le contessine Importanzète e noi le abbiamo piantate per Lei!»
Avevano riso insieme, in passato,
di questi nomignoli inflitti da certa signora di loro comune conoscenza a una
nobile dama della città e alle sue figliuole che si dicevano insidiare al celibato
di Carlino.
«Non per Lei, per Praglia!»
corresse Jeanne, senza voltarsi.
«Vada vada, ammansi mia sorella!»
esclamò Dessalle e si fermò a schizzare sul taccuino una elegante porta sotto
le arcate di levante.
Maironi raggiunse la signora che non
mostrò avvedersi di lui. Andarono così a paro per qualche momento, senza
parlarsi.
«Già Lei ha paura!» disse alfine
Jeanne con voce sommessa ma vibrante. «Lei non vuol dirlo ma capisco, pensa
bassezze di me, con tutta la Sua religione. Appunto perché ha un'idea angusta,
un'idea falsa della religione, dell'amore, di me, soprattutto di me, s'immagina
che io La condurrò al male. È così: non mi conosce, non sa conoscermi, crede
che fuori della Sua religione tutto sia impuro, tutto sia falso, tutto sia da fuggire,
da odiare!»
«Lei sa che non sono libero?»
Nel proferire sottovoce queste
parole Piero si fermò.
Mai non si era parlato fra loro
della demente.
Jeanne lo guardò negli occhi e
rispose:
«Lo so.»
Un momento dopo, interpretando il
silenzio di Maironi per desiderio di risparmiarle una conclusione ovvia e
amara, riprese con fretta incauta.
«Ma io non tolgo niente a Sua
moglie.»
La parola poteva intendersi nel
senso che Jeanne aveva pensato, sapendo come Piero non amasse più la moglie da
un pezzo, e anche nel senso che alla signora Maironi, posto il suo stato,
niente si poteva più togliere. A Piero balenò questo secondo senso. Esclamò con
sdegno: «Non lo dica!» e riprese a camminare concitato. Jeanne, atterrita, lo
seguì: «Come? Che ha inteso?». E afferrato il perché di quello sdegno, protestò
con tanta violenza, mentre Maironi ripeteva «mi lasci! mi lasci! mi lasci!», di
non aver voluto alludere alla sventura di sua moglie, che quegli si arrese.
Intanto si avviavano entrambi, senza volerlo né saperlo, a una uscita del
cortile. Il custode, che badava a veder disegnare Carlino, li richiamò:
«Signori! Signori! Non vogliono vedere il refettorio?». Tornarono lentamente
indietro. «Credo!» disse Maironi, con voce soverchiata dall'emozione. «Ma io
non posso continuare così! È meglio che mi allontani non da Lei sola, da tutto;
da quanto posso, insomma. La seconda risoluzione era questa».
«Aspetti» disse Jeanne. Pregò il
custode, per liberarsene, di portarle un bicchier d'acqua, diede un'occhiata a
suo fratello che stava tuttavia disegnando, ritornò a Piero, gli disse:
«venga!», lo trasse nella loggetta che presso il refettorio si porge sugli
orti, al parapetto dell'arcata che guarda lo sconfinato piano di levante; tutto
questo con prontezza nervosa e sicura.
«Mi ascolti!» diss'ella
rapidamente, buttandosi sul parapetto. «Lei non ha ragione di fuggirmi, non ha
ragione di temermi. Lei non conosce il mio sentimento per Lei, non conosce
l'anima mia. Io non vivo che per Lei nel mio interno. Ho sempre amato mio
fratello come una madre, l'amo ancora con un senso di dovere materno,
teneramente, direi che la mia vita esterna gli appartiene ancora tutta, che gli
potrei sacrificare anche la gioia di veder Lei; ma la mia vita interna, quella
che non dipende dalla mia volontà, appartiene a Lei. Se sono tanto franca e
audace con Lei è perché il sentimento mio non ha niente da nascondere, non ha
niente che mi possa far vergogna, niente che Le possa fare paura e anche perché
ho una gran fiducia in Lei. Io non desidero che affetto, il resto mi fa
ribrezzo. Sarà la mia natura fredda, sarà orgoglio, saranno i sei mesi orribili
che ho passato con un marito immondo, perché Lei sa che neppur io sono libera,
sarà quel che Lei vuole, io non desidero che tenerezza di affetto. Se lei ha
delle cattive immaginazioni, io sento che purificherei l'anima Sua invece di
abbassarla. La purificherei meglio io che il digiuno e le preghiere nel
deserto, perché con quest'idea di combattere un nemico lo si va necessariamente
a cercare e in qualunque posto Lei andasse, penserebbe male a me; nella Sua
mente diventerei un'altra persona, quella che non sono, una corruttrice. Ma
io...»
Qui si coperse il viso con le
mani, e continuò abbassando la voce:
«Io ho un bisogno immenso,
immenso, immenso che Lei mi voglia bene. Io mi dispero se Lei mi abbandona,
precipito in un abisso. Mi dica che mi vuol bene, mi dica che non mi abbandona!
Non mi faccia morire!»
«Signora, l'acqua» disse il
custode dietro a loro.
Jeanne si alzò dal parapetto,
livida, con gli occhi rossi, prese la tazza.
«Si c'ètait du poison» diss'ella,
volta a Maironi, «faudrait_il boire?»
Nei grandi occhi magnetici
erravano tristezza e tenerezza infinite.
«Je crois que non» mormorò egli
malgrado sé, in una vertigine, pallido come se gli mancasse la vita.
Gli occhi di Jeanne
s'illuminarono di un lampo inesprimibile di sorriso. «Quest'acqua è torbida»
diss'ella al custode attonito. Porse la tazza fuori del parapetto, versò
l'acqua pian piano fino all'ultima goccia, guardandola, sorridendo, mormorando:
«Che gioia, che gioia, che gioia!».
Parve allora che gli occhi suoi
si aprissero alle cose. Lasciò Piero, prese amorosamente il braccio di suo
fratello, volle vedere lo schizzo della porta, suggerì uno schizzo del colle
imminente alla loggia ma da un punto di vista migliore, lo andò cercando per il
cortile, si fece spiegare il motto del puteale «aestus, sordes, sitim pulso»,
cadde in estasi davanti al magnifico lavabo sull'entrata del refettorio, trasse Carlino
nella loggetta sporgente sugli orti, gli mostrò il mare verdognolo della
campagna distesa fino alle torri e alle cupole di una lontana città, umili e
nere sull'orizzonte; e di là, solo di là, gittò a Maironi un'occhiata
dolcissima. Voltasi poi alla scena delle logge che l'abside alta del tempio e
il campanile signoreggiano, immaginò, dicendo la sua visione a voce bassa e col
volto rapito, una sera di luna, un andar lento e silenzioso di monaci sotto le
arcate per chiarori e ombre. Si dolse che i monaci fossero scomparsi, ma poi,
guardando Piero, espresse arditamente l'opinione che non vi fosse più armonia
fra l'odierno spirito cattolico e la poesia di quella solitudine. Sostenne che
la presente combattività cattolica poteva bene acconciarsi a conventi fra il
popolo, nelle città, ma che nessuno pensava più ai deserti, che se il
cattolicismo era antiquato nello spirito, tendeva però a tutte le forme moderne
dell'azione. «Ci sono sempre le anime offese, al mondo» disse Carlino. «Ci sono
i solitari per natura, come io, per esempio, che sono un benedettino
leggermente sbagliato. Se avessi fede piglierei l'abito e riscatterei Praglia».
«Lei?» fece Maironi. Le parole
aggressive di Jeanne sullo spirito del cattolicismo non lo avevano ferito;
l'incontro curioso delle parole spensierate di Dessalle con i sentimenti suoi
di poc'anzi non lo aveva scosso. Rideva e gli occhi gli scintillavano. Mentre
Jeanne gli aveva parlato del suo amore, tanto violento e puro, egli si era
sentito prendere insensibilmente da lei e anche dalla idea che i suoi timori
eran ombra e sogno, che i ritegni religiosi, i ritegni del suo legame erano
lacci di cose morte, che forse la stessa intera religione cattolica era un
grande spettrale cadavere in piedi come l'abbazia.
L'occulto lavoro di tante passate
tentazioni contro la fede, represse con terrore e non vinte, si manifestava
ora, nell'urto della passione, con improvvise rovine.
Appena pronunciate, quasi
automaticamente, le parole "je crois que non' come colui che nudo saggia
col piede una fresca corrente ed esita, ma se si sente sdrucciolare dal margine
tutto di slancio le si abbandona, egli si era abbandonato al sentimento che non
gli pareva più tentazione ma offerta di un Dio più vero e grande e buono del
Dio appresogli da' suoi maestri. Per un attimo, martellandogli il cuore a
furia, le mura, gli archi, le colonne del monastero gli avevano roteato
vorticosamente intorno. Si sentiva una furiosa voglia di cinger con un braccio
la vita di Jeanne e trascinarla fuori, all'aperto, di correre l'erbe dei prati,
gli oliveti, le cime dei colli, gridando al cielo la sua libertà e la sua
gioia. Rideva in pari tempo, internamente, della propria voglia folle, tremava
di tradirsi, si comprimeva nel petto la nuova intensa vita. E godette che
Jeanne non gli fosse vicina, gli fece un acuto piacere di vederla sciolta in apparenza
da lui, sapendola stretta a lui nel pensiero, ebbra di lui. E si ascoltò
intanto, con profondi respiri, dilatar l'anima. Il dolcissimo sguardo lungo di
Jeanne dalla loggetta dove l'acqua era stata idealmente convertita in veleno
gli fece ancora, per un attimo, rotear le cose intorno.
«Lei?» diss'egli ridendo. «Un
mondano come Lei?»
«Io non sono un mondano, caro
Maironi. Io prendo interesse a osservare le vanità mondane e non sono mondano
come un astronomo non è celeste.»
Jeanne, che in quel momento stava
guardando da vicino i fregi del lavabo, i pesci marini, le tarsie di
verde antico e di porfido, chiamò a sé Maironi, con un gesto.
«Non so mai come chiamarla»
diss'ella, piano. E soggiunse forte: «Cosa è scritto qui? Mi spieghi».
Piero le tradusse il motto latino
scolpito dentro l'arco, al di sopra del vaso marmoreo:
OMNES VELUT AQUA DILABIMUR
E chinandosi come per guardare lo
squisito marmo, sussurrò:
«Chiamami amore.»
Ella non rispose; egli rimase
chino celando il fuoco del viso.
«Poveri fratucci!» esclamò
Dessalle alle loro spalle. «Son passati tutti davvero, eh? Ma ditemi un po':
quel motto lì come va preso? Dev'essere epicureo, dentro quella gioia di fregi,
quel sorriso dello scettico Cinquecento! Mangiamo, beviamo e godiamo fin che ci
è tempo, eh?»
Entrarono nel refettorio. Jeanne,
assorta nella sua beatitudine, guardava distrattamente i motti immaginosi,
attorti a sculture simboliche, sopra ciascuno degli stalli di legno che il
secolo XVIII schierò alle pareti maggiori della sala rettangolare, da capo a
fondo, sotto certi quadroni male ingombri di corpi enormi. Dessalle, ammirato
delle imprese scolpite sugli stalli, dei motti arguti e profondi, si staccò da
Jeanne, prese con sé Maironi, lo trasse da uno stallo all'altro, leggendo,
commentando, ammirando a gran voce. «Aiuti me, signor Maironi!» disse Jeanne.
«Carlo sa il latino.» Mentre Maironi veniva bevendo nei begli occhi fissi un
dolcissimo richiamo, ella, che stava presso lo stallo dov'è figurata una falce
di luna, gli disse con voce oscillante: «Cosa significa completur cursu?»
e quando fu a due passi, gli gittò con un lieve, rapido porger del viso la
trepida parola: «Amore!».
E sorrise.
Maironi non poté parlare subito.
Ella rise allora due sottili, brevi getti di riso, come getti di una vena
ferita sfuggenti al pollice.
«Significa...» ricominciò il
giovine e voleva dire: "l'anima mia che si volge a te e tutta s'illumina,
si compie nella luce tua'. Ma Jeanne lo interruppe alla prima parola: «Non
importa; mi dica che mi ama! Sì? Proprio? Combini di ritornare in città con
noi. C'è posto!».
«Udite questo, come è bello per
un pozzo!» gridò Carlino dall'altro capo della sala. «Exercita purior!»
«Che vuol dire?» domandò Jeanne a
Maironi, perché il custode s'era piantato lì accosto. E udita la spiegazione
osservò: «Non avrà pensato qualche frate che esercitando fuori di qui la mente,
il cuore, tutte le attività buone, sarebbe diventato più puro, più sano?»
«E questa, e questa?» gridò
Dessalle. «Una sirena. Dulcedine perdit!»
«Se la capisco bene, non è
peregrina!» esclamò Jeanne, vivacemente. Maironi tacque. Dessalle chiamò il
custode, gli chiese di chi fosse l'affresco della Crocifissione.
«Di Bartolomeo Montagna, pittore
vicentino.»
Dessalle volle che sua sorella e
Maironi venissero ad ammirare il grande affresco. Vennero, lodarono assai
scarsamente, con sorpresa e sdegno di Carlino. Il Cristo non piaceva loro
affatto; nelle altre figure si vedeva l'epoca buona e non più.
«Ma guardate Maria, dunque! Per
me ve lo dico subito, un'altra sola Maria in tutta l'arte che conosco mi ha
commosso più di questa, la Maria di Van Dyck al museo di Anversa, che ha in
grembo il Cristo morto e spande le braccia con quel viso al cielo, ti ricordi,
Jeanne?, con quel viso lagrimoso e amaro che dice: "perché?'. Questa,
religiosamente, è superiore. È piena di coraggio, crede nella resurrezione di
suo figlio. Qui arrischio, caro Maironi, di pigliarmi una febbriciattola di
fede anch'io. Lei poi mi prende nel suo Municipio per assessore delle Belle Arti,
eh?»
Maironi sorrise a fior di labbro
e rispose solo: «Va bene».
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