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Partirono al tramonto, nella
stessa carrozza. Prima di uscire dal recinto, passando lungo il nero bastione
che porta la chiesa, Dessalle esclamò: «E la chiesa? Non abbiamo veduta la
chiesa!». Uscendo dal refettorio, il custode aveva chiesto due volte a Jeanne e
a Maironi se desiderassero visitare la chiesa e poiché non era venuta la
risposta, aveva lasciato andare. Anche adesso né Maironi né Jeanne parlarono, la
carrozza correva già forte, il momento passò. Dessalle aveva la fantasia piena
del monastero taciturno, della solitudine ove posa, di cipressi, di ulivi, di
archetti trilobati, di stemmi, di motti, di monaci antichi, del custode dalle
chiavi tintinnanti nel deserto lo stridulo inno trionfale dello spirito
moderno. E rievocava ogni cosa nel suo linguaggio colorito e fine, cercando
similitudini bizzarre che gli atteggiassero a modo suo dentro la mente le cose
vedute sì che s'incarnassero nella sua persona e gli appartenessero meglio. Poi
si mise ad abbozzare il piano d'un romanzo dove Praglia, venduta dal Governo,
era comperata da un mistico polacco che vi raccoglieva delle dame isteriche per
fondarvi, nella meditazione e nella preghiera, una religione nuova.
«Quale?» chiese Maironi.
«Non importa. Una religione
nuova! Poniamo, se vuole, la religione mia, ch'è la religione del dubbio, una
religione che invece di obbligarci a credere quello che non si può sapere, ci
proibisce di negarlo e c'impone il dubbio, il quale è infinitamente più
sapiente e utile della fede, perché ci dispone a tutte le possibilità! Ed è
anche più poetico!»
Maironi scattò con una violenza
strana.
«No, no, sia tutto per o sia tutto
contro! Neghi piuttosto! Dica che l'uomo creò Iddio perché gli fece comodo!
Oppure dica che il Dio della religione è una maschera del Dio vero e che Lei
non vuole adorare le maschere! Oppure si ribelli, dica che Lei non si è
obbligato a niente per avere il Suo corpo e il Suo intelletto, che i Suoi
desideri di vita e di libertà non se li è dati Lei, che Lei vuole l'una e
l'altra! Dica questo se Le piace, ma non quello che ha detto!»
«Ecco, i cattolici, come sono»
ribatté Dessalle, sorridendo. «Ci vogliono addirittura empî. Più ci avviciniamo
a voi, meno ci sopportate. Si potrebbe sostenere benissimo che la vostra
religione insegna l'odio del prossimo. Guardate come trattate i protestanti e
quei poveri liberali che vorrebbero dirsi cattolici anche loro! Odio del
prossimo!»
«Però...» fece Jeanne
rivolgendosi a Maironi come per rispondere a lui al di fuori e al di sopra
delle parole di suo fratello. E s'interruppe subito.
«Però?» ripeté Maironi,
aspettando.
«Niente» diss'ella.
Il giovane raccolse la bianca pelliccia
di lupo di Russia che scivolava dalle ginocchia di Jeanne e dalle sue,
l'accomodò, v'incontrò sotto una mano che prima si offerse inerte e poi
attanagliò la sua come un morso, mentre una bella bocca lasciava
neghittosamente cadere queste due paroline di pace: «Fa fresco».
Nessuno parlò più per un pezzo.
Jeanne accomodò alla sua volta la pelliccia, meglio assai. Parve a Maironi che
il greve mantello bianco di fiera piegasse ai lievi tocchi delle mani abili con
intelletto del comando.
Egli guardava la mano desiderata,
non osando, in faccia a Dessalle, guardare Jeanne negli occhi senza parole, e
non trovandone alcuna; guardava la mano che indugiandosi sulla pelliccia gli
rispondeva, come pure un mal celato sorriso della bocca: strette segrete, basta.
L'odore del mantello di Jeanne, chiuso sulla squisita persona, della pelliccia,
dei guanti lievemente profumati, forse dei capelli, saliva in un tepido
indistinto al cervello del giovine, alternandosi, secondo il vento e il passo
dei cavalli, con l'odor fresco dei campi e della strada umida. Gli pareva che
una scura, dolce aura di lei lo avvolgesse, donandosi; che fosse già questo un
principio di segreto delizioso possesso. Passarono davanti alla villa di don
Giuseppe, bianca nell'ultimo chiarore del ponente, sopra il giardino pieno
d'ombra. Dessalle credette discernere un prete seduto sulla gradinata della
fronte, lo suppose il padrone, disse che aveva udito farne gran lodi e chiese a
Maironi se lo conoscesse. Nello stesso punto Jeanne, che non aveva fatto attenzione
al discorso del fratello, mostrò a Maironi la falce della luna nel cielo di
occidente. «Completur?» diss'ella, non ricordando l'altra parola.
Maironi non parve intendere ed ella ripeté: «completur... dica!». «Ah, cursu,
cursu!» esclamò Dessalle e non rinnovò la domanda. Intanto la mano di
Jeanne cercò sotto la pelliccia la mano cara, la strinse, disse: lo so,
distratto, a cosa pensavi! e la mano stretta rispose mentendo: sì, sì, lo sai.
Avrebbero poi voluto tacere, l'una e l'altro, ma Carlino aveva una parlantina!
Raccontò a Maironi quanto sua sorella si fosse scandolezzata, tempo addietro,
ch'egli avesse raccomandato quel giardiniere, bellissimo esemplare di
socialista latino, rivoluzionario. Sua sorella, saputo di certi suoi discorsi,
gli aveva proposto di licenziarlo, ma egli era felice di tenersi in gabbia nel
giardino una bestia feroce tanto curiosa. Non si lasciava studiare, però, la
bestia; aveva un guscio molto pulito e inoffensivo nel quale rientrava tosto
che i padroni le si accostavano. Intanto i due si parlavano in segreto con le
mani congiunte, avendo Jeanne tentato invano, mollemente, di ritirar la sua, e
lasciaron dire Carlino, non si difesero, solamente risero, di quando in quando.
Carlino trasse in campo anche il figlio del giardiniere, Ricciotti Pomato; lo
raccomandò per il posto d'inserviente della Biblioteca. L'anno prima era stato
nominato un altro invece di lui; adesso il posto era vacante da capo. Maironi
promise senz'altro, per uscirne. Ma Carlino era inesauribile e mise il discorso
sul marchese Scremin che aveva fatto parlare ai Dessalle da suo genero perché
gli giovassero nelle sue mire senatorie, presso una potente, intrigante dama di
Roma di cui si conosceva l'amicizia - da presupporsi onesta, diceva Zaneto;
molto ambigua, diceva il mondo - con un uomo politico, zio dei Dessalle. Egli
si era poi fatto presentare a villa Diedo, suonandogli dietro il ghigno
satanico dell'uomo amaro: mondo! mondo! Vi era quindi ritornato due o tre volte
con una solenne tuba e, diceva Carlino, col suo guscio anche lui; con un polito
untuoso guscio di umiltà, nel quale spariva frettoloso a capo in giù tósto che
Jeanne e Carlino accennavano a toccar il tasto dei meriti che il Governo gli
avrebbe dovuto riconoscere.
Ora Carlino lo stese delicatamente
sopra un'ideale tavola anatomica per trovargli questi meriti. Finalmente,
poiché i suoi compagni non parevano dargli retta, smise di parlare anche lui.
Una torre alta e sottile, tozzi
campanili, schiacciati ammassi di tetti venivano alzandosi dal piano davanti
alla carrozza sotto le aeree fronti nevose delle montagne lontane. Era la
città, la triste fine del cielo aperto ai sogni, della terra distesa in pace,
odorante vita e frescura; la triste fine, per Jeanne e Piero, del molle, veloce
andare in silenzio sentendo fino al cuore ogni tocco lieve delle spalle, nelle
scosse della corsa. La carrozza si fermò alla scuderia Dessalle, sull'angolo
della ripida stradicciuola che sale a villa Diedo. Un invito a pranzo per il
giorno dopo, saluti brevi e già caldi del dolce domani. Mentre Piero scendeva
per rientrare a piedi in città, il cocchiere disse che teneva un panierino di
aranci del signore, consegnatogli dal vetturale della carrozzella: e Dessalle
gli ordinò di accompagnare il signore al palazzo Scremin.
Il panierino di aranci fu posato
sul piccolo sedile interno della victoria di fronte a Piero. Egli sentì la loro parola
tragica ma non se ne commosse. Era un rimprovero per il destino, forse; non per
lui! Fisso lo sguardo nei frutti dorati, blandito i sensi dalla persistente
aura della signora di cui adesso aveva preso il posto, rivedeva Jeanne nella
loggia di Praglia con la tazza in mano, riassaporava la tristezza dei grandi
occhi magnetici, l'ineffabile accento delle sommesse parole: "Si c'ètait
du poison, faudrait_il boire?'.
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