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Alquanti consiglieri della
maggioranza clericale dovevano riunirsi alle quattro in casa Záupa. La vecchia signora
Záupa non voleva persuadersi che questo fosse un onore per lei, per il
consigliere suo figlio, per sua nuora, per i nipoti, per tutte le frondi del
prolifero ceppo Záupa. Perché non si riunivano in casa del sindaco? «La porta
pazienza, mama, per sta volta; ghe xe la so rason» ripeteva l'onesto,
piccoletto consigliere Záupa dirigendo con voce più sommessa ma più imperiosa,
fra una presa di tabacco e l'altra, il lavoro docile e muto di una donnina
esangue, sua moglie, e di un donnone polputo, la serva, che levavano il pepe e
la canfora dalle poltrone, dai canapè del salotto, spolveravano i fiori di
carta, le bomboniere. Alla vecchia signora Záupa, spettatrice accigliata,
pareva che non fosse necessario ricevere i consiglieri in quell'augusta e sacra
stanza, dove grazie al pepe, alla canfora, alle prolisse camicie di tela
turchina e alle tenebre perpetue, seggiole, poltrone, canapè, tavolini,
specchi, vasi, candelabri, pendola e fiori di carta, entrativi per le nozze dei
suoi defunti suoceri Záupa, serbavano ancora la freschezza del 1815.
«La porta pazienza, mama, la sia
bona» ripeteva l'omino, mellifluo; e brontolò invece alla sposa: «Carèghe!
Andèmo». La mansueta creatura e il donnone cominciarono a portar dentro sedie.
Alla quinta sedia la vecchia signora sbuffò: «Ma quanti mai xeli, po, sti
b...?».
«Sedese, mama, se i vien tuti»
rispose il figliuolo mansueto, ingoiando con una smorfia l'appellativo
ingiurioso e la propria complicità in esso.
«Mi digo, sior, che faressi megio
a tender al vostro mezà, con tuti quei tosi; che za gnanca in Paradiso per el
scalon del Municipio no ghe andè.»
La vecchia diede le spalle a
quelle fastidiose novità della sua casa brontolando «no ghe andè, no ghe andè»,
si allontanò. Subito la esangue signora Záupa juniore osò metter fuori la sua
voce flebile per osservare a Matìo ch'era presto, ch'erano appena le due e
mezzo; il donnone alzò una tendina della finestra, sorrise alla fruttivendola
di faccia; e Matìo Záupa, senza rispondere alla sposa, si mise a trottare per
la camera, ripetendo: «Ga d'essere, ga d'essere, ga d'essere», fino a che gli
capitò sotto gli occhi miopi una piccola, poco vestita donnetta di porcellana,
già difesa contro le sue verecondie iconoclaste dalla vecchia signora Záupa che
le chiamava "stomeghezzi'. Matìo si cacciò la donnetta in una delle tasche
posteriori dell'abito, dove poi la dimenticò e il donnone ebbe a pescarla
l'indomani mattina col più complicato stupore.
Alle tre meno cinque minuti un
discretissimo tocco di campanello fece trasalire l'onesto consigliere. Presto
qua, presto là, caccia la serva ad aprire, mette in fuga la moglie dalla parte
opposta, «via, via, via!», s'incammina piano piano in punta di piedi verso
l'anticamera, si ferma, torce e china il capo, mette una mano all'orecchio, riconosce
i passi e le voci di chi sale la scala, si soffia il naso a precipizio.
Entrano due persone dall'aria
piuttosto misteriosa, un laico e un prete.
Il laico cava l'orologio e dice a
Záupa: «Le pare?». Záupa risponde tutto sorridente, facendo frettolosi inchini
e fregandosi le mani: «Puntualissimi, puntualissimi!» e introduce i visitatori
nel salotto sacro. Il prete, figurina smilza dal viso fine, dagli occhi
beffardi, era un capoccia occulto del partito, uno dei tre o quattro che,
stando nell'ombra, movevano sullo scacchiere con occulte fila i vittoriosi
pezzi neri. L'altro, bell'uomo sulla quarantina, dai modi signorili, dall'aria
intelligente e benevola, era il cavalier Soldini, lombardo, direttore del
giornale clericale.
«Dunque?» fece Záupa.
I due si guardarono esitando,
sorridendo, interrogandosi tacitamente. «Parli Lei» disse il prete. E spiegò
allo Záupa, poiché l'altro non si arrendeva, che non c'era tra loro un
perfettissimo accordo e ch'egli preferiva parlare dopo. Allora il Soldini disse
che stava bene e incominciò il suo discorso.
«Ecco qua. Dunque,
disgraziatamente, nelle voci che corrono sul nostro sindaco e quella signora vi
ha molto, per lo meno, del vero. C'è la passione dalle due parti e non
silenziosa.»
«Eh!» interruppe il prete. «Altro
che silenziosa! Baci, abbracciamenti, in giardino, coram populo!»
«Diciamo coram nemore et luna,
se è vero. Ma poi, fino a qual punto le cose siano arrivate, nessuno...»
«Fa lo stesso» brontolò il prete.
«Del resto coram nemore, luna et hortulano.»
«Sia! A me non pare che faccia lo
stesso, ma tiriamo avanti. Premetto. Mia moglie e io siamo in buona relazione
col sindaco e mia moglie visita poi anche la signora Dessalle che ha conosciuto
a Roma.»
Záupa assentì ossequiosamente:
«Sissignor». E il prete che ascoltava a capo chino fece una smorfia
significativa.
«Io, però» continuò il cavalier
Soldini «parlando di questo doloroso argomento sarò imparzialissimo e
schiettissimo. Nessuno, dicevo, può sapere fino a qual punto le cose siano
arrivate; ma mia moglie che in queste faccende è molto penetrante, non crede al
peggio e non ci voglio credere neppur io.»
«Ben, ben» fece Záupa, contento.
Il prete brontolò: «buone persone». E soggiunse forte: «E il resto?».
«Il resto, sì: ora ci vengo,
siccome però il peggio si dice, avrei rimorso di tacere che la sorgente delle
voci più velenose, raccolte subito, si sa, e diffuse rapidamente con bisbigli
pieni di prudenza ipocrita, da tanta gente che assapora con una voluttà
particolare i peccati delle persone credute impeccabili e sopra tutto i peccati
dei clericali, è l'ortolano di casa Dessalle, il quale ha particolari rancori,
più o meno coperti, con il giardiniere, quel mezzo anarchico tutto propenso al
sindaco che gli ha fatto nominare il figliuolo alla biblioteca e lo ha protetto
nel ridicolo affare dei calzoni filettati di bleu.»
«Ridicolo?» mormorò il prete.
«Sentirà oggi, Quaiotto!»
«Ma sì, ridicolo, via! e spero
che lo capiranno tutti! Spero che si seppellirà! Nell'interesse del partito,
dico!»
«Eh, per me!» disse il prete.
«Bisogna persuadere Quaiotto!»
«Ebbene, bisognerà far intendere
ragione anche al signor consigliere Quaiotto!»
Il buon Záupa che teneva in
sospeso una presa di tabacco, si pose a menar in giro la mano con la presa, a
menar in giro la testa come un baco maturo, tirandosi faticosamente in bocca un
gruppo di parole che gli si udivano strisciar su per la gola.
«Me par anca a mi, me par anca a
mi, pare anche a me. Ma bisogna che ghe la diga, bisogna che ce la dica: questi
calzoni... il collega Quaiotto... me li ha mandati... precisamente per la
seduta d'oggi... e io, come facevo?... li ho dovuti accettare, li ho dovuti, li
ho. E son qui.»
«Bruciamoli» fece Soldini. E il
prete: «Oh sì, bruciamoli! Non capisce che la parte ridicola la fanno i
liberali?»
«A me pare che la facciamo un po'
tutti quanti; ma tiriamo via. E veniamo, come si diceva, al resto. Il resto è
che venerdì scorso i Dessalle hanno dato a degli amici forestieri, in giardino,
un déjeuné di grasso e Maironi
c'era».
«Hm, grossetta» fece Záupa,
contrito e mite nel tempo stesso. «Ma è poi sicuro che abbia mangiato?»
«Purtroppo e ci fu scandalo»
rispose Soldini «perché il solito ortolano ne ha parlato a una turba di gente.»
«Capisce!» esclamò il prete
guardando Záupa.»
«Non mi meraviglio» disse Záupa.
«Non conoscevo questo particolare, ma che l'uomo... da qualche tempo... sia
cambiato e non in bene, ecco, non in bene... bisogna ammetterlo, bisogna. Anche
il suo contegno nell'affare dei calzoni, andiamo!... Non va, ecco, non va! E
tante altre piccole cose ci sono, tanti altri piccoli fatti spiacevoli, per
cui, già, specialmente dato il carattere di certi colleghi, non si va avanti,
non si va, ecco!»
Allora il cavaliere, premesso che
deplorava privatamente gli scandali Dessalle ma che a suo avviso era
pericolosissimo, inopportunissimo di servirsene contro il sindaco, ammise che
la sua permanenza in ufficio era diventata un vero impaccio per tutti e spiegò
che il dissenso fra lui e l'ottimo abate riguardava soltanto la via di uscita.
Secondo lui il contegno del sindaco nel famoso affare dei calzoni significava
desiderio di provocare una crisi. Maironi voleva romperla con la Giunta, con la
maggioranza e col partito, ma, probabilmente, romperla come e dove faceva
comodo a lui. Voleva intanto, probabilmente, mettre les rieurs de son côté.
Qui Záupa e l'abate si guardarono, si dissero con gli occhi: "Avete
capito, voi? Io no'. Voleva poi, proseguì Soldini, venir licenziato in modo che
facesse torto ai cattolici, che giustificasse, o almeno scusasse, una successiva
rottura maggiore ancora, un passaggio ad altre idee e ad altri uomini. Ora non
conveniva ai cattolici di fare il suo giuoco; per niente! Conveniva romperla
sopra una questione amministrativa.
«A questo modo» conchiuse il
sagace oratore «eviterete di offendere i suoi sentimenti personali, non lo
spingerete a reazioni estreme che sarebbero una rovina spirituale per lui,
naturalmente, ma poi anche un colpo doloroso per il partito. Se quando voi,
prudentemente, rispettosamente, lo avviate all'uscita dall'amministrazione,
egli vorrà invece pigliar l'uscita dalla Fede, suo danno. Voi non ne avrete
colpa ed egli non ci farà una bella figura. No davvero! Nessuno approverà mai
che si cambi fede politica e religiosa per una questione di cinta daziaria o di
gas, o di stipendi alle levatrici comunali e nemmeno per una questione di amor
proprio.
Ma se non lo irritate, non credo
che diserterà. Sta sotto il fascino di una donna, queste son cose umane e noi
cattolici abbiamo forse il torto di non riconoscere abbastanza la fragilità
sessuale, sto per dire, anche dei galantuomini e dei cristiani più convinti.
Lasciate che la parabola del fascino si compia. Come certi tumori, questi sono
mali che guai a operarli se non sono giunti a maturità. Io adesso dirò una cosa
cruda che scandolezzerà qui il nostro buon dottor Záupa.»
«E me no?» fece il prete.
«Lei meno, credo. Io, come non
sono un mistico, né un asceta, così non sono un teologo e non so se dico
un'eresia. S'è un'eresia, da buon cattolico la ritiro. Ragionando da uomo di
mondo dico che se il desiderio della colpa estrema, non soddisfatto per
difficoltà esterne, equivale, nel giudizio di Dio, al fatto, se per caso
quest'uomo e questa signora si trovano in condizioni tali, sarebbe utile che il
fatto si avverasse perché la parabola della passione sarebbe più breve.»
Si vide l'esofago dell'ottimo
dottor Záupa contrarsi nello sforzo d'inghiottire un boccone tanto smisurato,
per esso.
«E in questo caso» disse il
maligno beffardo abate «cosa si dovrebbe far noi, per aiutare?» Soldini esclamò
ridendo: «Per carità, per carità! Son cose che si dicono». E venne alla
conclusione del suo discorso. «Lasciamo queste chiacchiere. Voi scegliete oggi
il terreno della crisi. Mi è venuto in mente ora che potrebbe esser l'aumento
dello stipendio ai maestri delle scuole rurali. Voi assessori vi accordate oggi
di sollevare la questione nella prima seduta di Giunta e di deliberare allora
che l'istanza dei maestri sia portata in Consiglio con voto negativo. Il
sindaco si è compromesso, come sapete, a questo proposito, con le dichiarazioni
che ha fatte quando si discuteva l'istanza degli spazzini. Si dimetterà. Subito
voi vi dimettete pure, pro forma. Si raduna il Consiglio per le
dimissioni e allora non si fanno complimenti, e non si rielegge il sindaco. Res
finita est.»
«Eh, sissignor» fece Záupa.
«Questa xe prudente. Xe prudente.»
«Finita male» cominciò il prete,
curando poco le opinioni di Záupa. Egli aveva idee diverse da quelle del cavaliere.
Brutta, bruttissima cosa la relazione con la signora; inutile il ricercare,
quando c'è scandalo, se vi sia o non vi sia, in fatto, tutto il male che la
gente dice: ma insomma, via! concediamo per un momento che il fallo sia da
imputare alla comune fragilità umana; e la infrazione pubblica del venerdì?
Pazienza un cattolico qualunque! Ma il capo del partito? Passi per un banchetto
ufficiale cui il sindaco potrebbe essere costretto d'intervenire. Può avere la
dispensa del Vescovo, può scegliere fra i piatti grassi e i magri, per ultima
risorsa può fare a meno di mangiare. Ma in una riunione di puro piacere e anche
all'aperto! E il tavolino del sindaco si poteva vedere dal vigneto dove la
gente lavorava! Non era una semplice violazione del precetto, era una sfida!
Sarebbe un altro scandalo il non raccoglierla. Il signor sindaco era un membro
malato della Chiesa e il membro malato si tronca senza misericordia.
La misericordia giusta è di fare
come San Paolo, di consegnare l'uomo e la sua sciarpa sindacale nelle mani di
Satana, perché l'anima si salvi nel giorno del giudizio. Però, prima di
arrivare a tanto bisogna richiamare il peccatore, fargli parlare da qualche
persona molto autorevole, e poi, se resiste, andar da lui, dirgli che si
desiderano le sue dimissioni.
«Eh!» fece Záupa, immaginando di
aversi a trovare anche lui fra i futuri portatori dell'ambasciata. «Questa xe
dureta. Xe dureta. No ghe par?»
«Eh, ciò!» rispose il prete. «Lo
so anca mi».
Il cavaliere osservò ch'erano
quasi le quattro, e che a loro conveniva di andarsene senza esser veduti dai
consiglieri, i quali forse li pregherebbero di partecipare alla riunione, cosa
non opportuna. Oramai il dottor Záupa sapeva e poteva regolarsi. Per parte sua
il cavaliere aveva espresso una semplice opinione, desiderava si discutesse ma
poi non si voleva imporre.
Nell'uscire l'abate mormorò
all'orecchio di Záupa: «La tenete segreta questa riunione?». E siccome Záupa
rispose di soprassalto con tanto di cipiglio e di mani levate: «Euh, diamine!»
come se si fosse trattato di un complotto per ammazzare il Papa, l'altro crollò
le spalle, infastidito, fece un gesto, come per dire: "Parlate!' e lasciò
trasecolato l'ingenuo Záupa, gli rallentò la foga dei "servitor suo,
servitor suo', degl'interminabili inchini a scatto con i quali soleva
accompagnare alla porta i suoi visitatori. Rimasto solo, il dottor Matìo si
appuntò alla fronte l'indice della mano destra, guardando con attenzione
intensa la chiave dell'uscio. Quando gli parve aver trovato l'altra chiave ideale
che cercava, dato un omaggio tacito alla finezza dell'abate, raccolse il
pensiero nella necessità dell'ora presente e chiamò la serva.
«Quele braghe?»
«Le xe in cusina, signor.»
«Ben, quando ca sonarò, portèle.»
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