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I consiglieri invitati vennero
alla spicciolata e in ritardo. Alle quattro e un quarto erano sette. L'uomo
acido e l'uomo amaro, membri essi pure del Consiglio e della maggioranza,
cominciarono a borbottare insopportabilmente. L'acido masticava, con la sua
mutria sepolcrale, giaculatorie corrosive, senza guardare in faccia a nessuno.
«Brava zente! Un gusto mato, magnaremo i risi longhi un mia!» L'amaro lo
accompagnava con un pizzicato di contrabbasso: «Porcarie, porcarie». Il
consigliere Quaiotto, venuto il primo, pareva pure impaziente, guardava spesso
nella via. Gli altri, scambiate abbondanti cerimonie con il dottor Záupa e fra
loro, fatti tranquilli circa la preziosa salute della mamma Záupa, della sposa
Záupa e dei marmocchi Záupa, lodato sommessamente, timidamente, il meraviglioso
aspetto giovanile del canapè, delle seggiole e delle poltrone, evocate con
rispetto le ombre congiuntevi degli Záupa preistorici, cantata in coro la gran
bontà delle stoffe antiche, non sapevano più che dire. Matìo chiese con qualche
trepidazione all'uomo acido se intendesse di assistere all'eclissi totale di
luna ch'era atteso nella notte prossima e n'ebbe un rabbuffo. «Benedeto! No La
vede che nuvole?» Per fortuna capitarono in breve altri otto consiglieri. Matìo
sedette, tossì, aperse la seduta, cominciò a spiegare, con una faccia compunta,
il perché di quella riunione straordinaria in casa sua. Tutte le altre facce
diventarono pure compunte, tutti gli occhi si abbassarono a guardar i piedi di
loro particolare conoscenza, meno quelli dell'uomo acido che fissavano
l'oratore con una espressione pregiudiziale, nelle grigie loro nebbie, di
mediocre stima.
L'oratore fece con garbo un
discorsetto diplomatico. Tutti sapevano che la riunione si teneva per
intendersi sul quid agendum
rispetto al sindaco e quasi tutti erano venuti a malincuore, col
presentimento di non saper trovare una buona uscita dall'impiccio doloroso. Il
solo consigliere Quaiotto, piccolo proprietario del suburbio, uno fra i più
ardenti, turbolenti ed eloquenti del partito, era venuto con la testa piena di
accuse d'ogni maniera e di propositi feroci, con la risoluzione di far votare
un formidabile ultimatum. Il mite Záupa, propenso in cuor suo alle
opinioni del Soldini, cominciò a dire che certi dissensi fra la maggioranza e
il suo capo naturale, il sindaco, circa certe questioni amministrative gravi,
avevano consigliato una riunione quasi plenaria della maggioranza stessa senza
l'intervento del sindaco stesso, per trattare dei dissensi...
«... stessi» mormorò l'uomo
acido. Ma Záupa, dopo averci pensato un poco, disse invece: «Medesimi».
L'uditorio parve sorpreso. Coloro
che avevano preparato la riunione insieme a Záupa s'interrogarono con gli
occhi. Matìo si guardò in giro e ripeté più forte, con intenzione: «... sui
dissensi medesimi». Il consigliere Quaiotto, che si era venuto agitando sulla
sedia e aveva pure scambiato a destra e a sinistra occhiate di malcontento,
disse, non tanto sottovoce: «Ma cosa?». Gli altri, incominciando a capire
l'idea di Matìo, contenti di non avere a toccare il tasto scottante, zittirono
Quaiotto. Matìo proseguì.
Nella sua qualità di membro della
Giunta espose con dispiacere i "medesimi'. Appena migliorati gli stipendi
degli spazzini eran venute istanze delle guardie di città, degli uscieri
municipali, degli insegnanti delle scuole suburbane. Circa i desideri di questi
ultimi il sindaco aveva fatto in Consiglio dichiarazioni compromettenti e,
Záupa lo diceva con rincrescimento, non autorizzate. Ora conveniva troncare
subito, fosse pure con rammarico, un movimento che dagli spazzini minacciava di
propagarsi fino al segretario capo e che metteva a repentaglio la salute del
bilancio. Conveniva salvare il bilancio a ogni costo e passare all'ordine del
giorno su tutte le istanze presentate. Záupa riteneva che gli assessori suoi
colleghi non avrebbero avuto difficoltà di far conoscere all'onorevole sindaco
Maironi, con dolore, ma nettamente assai, la loro volontà incrollabile,
arrivando sino all'offerta delle dimissioni. Capiva bene che questo era quasi
un costringere il sindaco a offrire le proprie, ma era pure, lo dichiarava con
cordoglio, una imprescindibile necessità. Aveva creduto di esporre così
l'opinione propria, modestamente, pronto, del resto, ad accettare...
«... con disperazione» suggerì
piano l'uomo acido.
«... con ossequio» disse Záupa
«la volontà dei colleghi.»
La piccola assemblea, sulle
prime, rimase muta. Poi cominciarono alcuni bisbigli intorno a Quaiotto e si
udì costui dire: «O siamo in famiglia o non siamo in famiglia!». Evidentemente
i vicini gli bisbigliavano dei calmanti. Záupa lo guardò, allargò le braccia in
un silenzioso dominus vobiscum
scattando indietro con il collo, per significare che al fine voluto da
Quaiotto si arrivava lo stesso. Ma Quaiotto bolliva sempre più forte, ribatteva
a destra e a sinistra i bisbigli degli amici, scotendo loro le mani sul viso
perché gli amici pure si accaloravano. Come in un fascio di sarmenti imposto a
coperte brage il calore si propaga con lento lavoro fino a che vi brillan sotto
due, tre, quattro punti roventi e il fascio si slaccia, vi spesseggiano le
faville, le fumarole, tutto vi bisbiglia, cigola, crepita, e se qualche
spettatore impaziente vi accosta un fiammifero acceso, subito ne saetta
ruggente la vampa acuta, così rumoreggiando quel gruppo inquieto, e avendovi
l'uomo acido, pensoso della minestra, gittato il suo fiammifero acceso «O
dentro o fora!», Quaiotto scattò: «Domando la parola!».
Parlò con l'onda di grossa
facondia che la Provvidenza versa nelle teste più vuote di ciascun partito politico
estremo per cavarne salutare frutto di spropositi. Disse che nel Consiglio
Comunale si poteva rappresentare una commedia ma che in una riunione privata
ciò gli pareva fuor di luogo. Soggiunse, chiedendone scusa all'egregio dottor
Záupa, che neppure la scena della commedia gli pareva scelta bene. Dimostrò che
respingere con un voto di massima tutte le istanze per aumento di stipendi era
impolitico e che sarebbe minor errore, in fin dei conti, aumentar lo stipendio
anche al segretario capo.
«Pulito!» brontolò l'uomo acido,
mentre altri esclamava: «E il bilancio? E il bilancio?».
Quaiotto raccolse, per disgrazia,
l'interruzione. Cos'erano cinque, sei, ottomila lire per un bilancio di
milioni? Fino a che il pallone della sua rettorica aveva navigato le nubi i
colleghi erano stati a guardarlo col naso all'aria, ma quando toccò terra, e
s'impigliò fra le cifre, gli corsero, come avviene agli aeronauti, tutti
addosso.
In fondo la maggioranza della
maggioranza, gente pacifica, più penetrata di un malinteso dovere religioso che
di passione politica, fedele anche nell'azione pubblica alle vecchie tradizioni
delle buone creanze private, subiva il demagogo Quaiotto ma non lo amava. Fu un
subisso di proteste. Che cinque! Che sei! Che otto! Quaiotto si voltò inferocito
sfidando l'assemblea. Due o tre colleghi, i finanzieri del partito, gli tennero
testa. Gli altri si sfogarono fra loro contro le violenze di colui che
minacciava di guastar le uova tanto bene accomodate nel paniere del dottor
Záupa. E poiché Quaiotto e i suoi contraddittori disputavano in piedi con un
baccano del diavolo, si fecero essi pure addosso allo smarrito presidente, gli
predicarono di tener duro, duro, duro, di non permettere che si parlasse di
scandali privati. L'uomo acido porse un orecchio nel gruppo. «Benon!»
diss'egli, ritraendosi. «Il sindaco rompe e i pori cani dei impiegati paga.»
Intanto Quaiotto e i suoi avversari si gittavano manciate di cifre negli occhi.
«Carta e penna!» gridò uno dei contendenti. «Dottor Záupa, carta e penna, La prego!»
Záupa, attorniato, intontito dagli altri, non udiva. Il demagogo esclamò: «Qua
mi! Qua mi!». E diede senz'altro una strappata di campanello. «Un foglio di
carta, un calamaio e una penna!», diss'egli al donnone appena comparve. Ma il
donnone si fece avanti rosso rosso, recando sulle mani sporte come un vassoio
le brache piegate in quattro, cercando il padrone cogli occhi attoniti.
«Signori! Signori!» gridò
Quaiotto trionfalmente. «Zitti tutti! La provvidenza! Adesso c'intendiamo
subito! Domando la parola!» E intanto pigliò le brache. Tutti si voltarono a
lui, porsero il naso verso l'oggetto misterioso. «Cossa? Braghe? un par de
braghe?» I più non sapevano, non intendevano, guardavano le brache, sbalorditi.
Qualcuno che sapeva, sorrise, crollando il capo. L'uomo acido domandò sottovoce
al suo vicino: «Xele le braghe de la vecia Záupa?». Quaiotto, spiegata e scossa
la sua preda con manifesta compiacenza insisteva: «Domando la parola! Domando
la parola! Domando la parola!» mentre Záupa faceva dei gesti severi al donnone,
il quale rispondeva con gesti apologetici, mostrando il campanello. Finalmente
la serva se n'andò e Quaiotto ebbe la parola.
«Signori» diss'egli, «se la
comparsa di queste... di questi... di questo, dirò così, indumento vi pare
strana e ridicola, sappiate che il colpevole sono io. L'ho mandato io al nostro
egregio presidente e me ne felicito, signori. Quando si tratta del bene
pubblico e del trionfo dei nostri principii, delle nostre opinioni, non vi sono
argomenti ridicoli. Questo oggetto di vestiario ha una storia incredibile ma
vera. Ha una storia dico: e questa storia...»
«E dài!» sussurrò l'uomo acido.
«... questa storia io la
racconterò adesso per vostra edificazione e perché, siccome capisco che voi, egregi
colleghi, per un sentimento di squisita delicatezza...»
L'uomo acido borbottò più forte:
«A proposito de comedie!».
L'oratore, seccato, lo apostrofò.
«Cossa gala, Ela? La faccia la grazia de tasere, La faccia.»
L'uomo acido storse la bocca, gli
occhi, le sopracciglia, le rughe gialle delle guance e della fronte nelle più
contraddittorie e assurde direzioni, ma non ribatté sillaba.
«Siccome capisco» riprese
Quaiotto «che voi, egregi colleghi, siete alieni, per un sentimento di squisita
delicatezza, dall'occuparvi di spinose faccende private, il mio racconto vi
suggerirà un modo di uscire dalle presenti difficoltà senza toccare quelle
faccende, e anche senza sacrificar gl'interessi di tanti fedeli e miseri
servitori del nostro Comune.»
Qui molti esclamarono: «A pian! A
pian! A pian!». L'oratore non se ne diede per inteso e continuò:
«Voi sapete che recentemente fu
nominato inserviente della Biblioteca il figlio di quel Pomato detto Çeóla,
socialista, forse anarchico, ch'è giardiniere di una certa casa dove
l'illustrissimo signor sindaco pratica molto.»
Il dottor Záupa diventò rosso e
tossì.
«Non abbia paura, signor
presidente! Mi fermo a tempo. La Giunta avrà nominato il signor Ricciotti Çeóla
per far piacere all'illustrissimo signor sindaco, ma ha fatto male, diciamola.
Bastava il nome Ricciotti per capirlo. Dunque il signor Ricciotti, appena
nominato, si presenta al bibliotecario, e il bibliotecario lo manda
dall'economo municipale per il vestito. Il signor Ricciotti va dall'economo e
si fa mostrare il vestito. Appena veduti i calzoni filettati di rosso, protesta
che non vuole uniformi. L'economo, invece di fare il proprio dovere e mandarlo
al diavolo...»
Alcuni consiglieri pii
grugnirono.
«Bene, dirò così: invece di
mandarlo da suo padre, l'economo gli dice che parlerà coll'assessore.
L'assessore, ch'è il nostro egregio presidente qui, persona gentile, persona
benigna quanto mai, propone alla Giunta di cambiare la filettatura rossa in una
filettatura blù. I calzoni sono neri. La Giunta approva.»
Matìo assentì del capo,
sorridendo modestamente.
«Adesso vi prego, signori, di
guardare la filettatura e di giudicare.»
Quaiotto posò i calzoni sul
tavolo, davanti a sé.
«Vi prego di dirmi se il filo
potrebbe essere più invisibile, se il blù scuro non si confonde col nero!»
Záupa sorrise ancora e crollò il
capo come scotendo da sé un alloro ideale che il collega gli avesse offerto per
la sua fine trovata.
«Invece» proseguì Quaiotto, «il
signor Çeóla, richiamato dall'economo, gli dichiarò che i suoi principii gli
vietavano di accettare il blù come il rosso e fece poi la stessa dichiarazione
anche al bibliotecario...»
«Il quale» interruppe un
consigliere informato, pescando con due dita nella tabacchiera e sorridendo al
tabacco, «ga risposto: "E Lu el se dimeta'. "Mi no' dise el toso.
"Ben' dise el bibliotecario "e Lu el vegna senza braghe.'»
«Benissimo!» rispose Quaiotto.
«Il signor bibliotecario, persona intelligente, persona dotta, persona pratica
del mondo, avrà risposto come avrà creduto meglio. Adesso state attenti. Il
signor Çeóla va da un consigliere liberale, liberalissimo, che lo protegge. Non
faccio nomi ma la cosa è certa. Il nostro collega liberale, appena udito il suo
racconto, lo abbraccia, gli fa gran complimenti sulla sua nobiltà e fierezza,
lo incoraggia a tener duro, va dal bibliotecario, lo investe, gli tira fuori il
Medio Evo, gl'ideali moderni, il filo blù che poi diventerà rosso per la
vergogna e persino l'uguaglianza cristiana.
Lo dico perché stavo leggendo
nella stanza vicina» («Cossa!» mormorò l'uomo acido. «La vita de Bertoldo?»)
«... e ho udito colle mie orecchie.»
Qualcuno domandò che avesse
risposto il bibliotecario al collega liberale.
«Il bibliotecario? Prima ha
risposto: a me la conta? Vada al Municipio. E poi ha detto: li ha visti, Lei,
questi calzoni? E il nostro signor collega talentone ha dovuto confessare di
no. Non si è però dato per vinto. Al Municipio, s'intende bene, non ebbe il
muso di presentarsi. Doveva andare dal signor commendatore Prefetto per affari
della provincia, insieme a un senatore e a due deputati. Non faccio nomi.
Sbrigati gli affari della provincia si fa un po' di conversazione e il nostro
collega... scherzando... mettendo quasi la cosa in ridicolo... vien fuori con
l'affare dei calzoni».
Qui l'uomo acido, desideroso di
una rivincita, esclamò: «Come fala a saverlo?».
«Come faccio a saperlo?» rispose
Quaiotto sdegnosamente. «Lo so perché lo so. E La prego di credere che quel che
so lo so.»
«Bravo!» fece l'uomo acido. Il
suo vicino gli disse sottovoce che l'usciere di prefettura Martinato era
fratello del gastaldo di Quaiotto. Questi continuò:
«Tanto il senatore quanto i
deputati ci mettono pure le loro risatine. L'illustrissimo signor Prefetto la
piglia sullo stesso tono. Scherzano, ridono tutti e cinque. Non credo che il
signor Ricciotti Çeóla sarebbe stato contento dei loro discorsi, se avesse
origliato all'uscio; ma intanto l'illustrissimo signor Prefetto si assume di
parlarne all'illustrissimo signor sindaco. Infatti il giorno dopo, ier l'altro,
Prefetto e sindaco si trovano insieme in quella tale casa, si parlano,
scherzano, ridono. Voi non lo crederete: ieri Çeóla si presenta in Biblioteca
con una lettera del signor sindaco che lo dispensa dall'uniforme. Il nostro
dottor Záupa non ne sa niente, nessuno della Giunta ne sa niente, Çeóla trionfa
di tutto e di tutti, e i calzoni che dovrebbero prestar servizio in Biblioteca,
eccoli qua!»
L'oratore, temendo che si
sorridesse, temendo che lo sdegno dell'uditorio non riuscisse adeguato al suo
desiderio e al misfatto del sindaco, balzò in piedi, e gesticolando, declamando
come un barbiere in tragedia, esclamò:
«Signori! Questo atto del signor
sindaco, non esito a dirlo, è inqualificabile. Questo atto è un insulto alla
Giunta, un insulto al bibliotecario, un insulto alle tradizioni
dell'amministrazione comunale, un insulto ai nostri principî, alle nostre
opinioni. Pare un piccolo fatto, signori, ma invece è un fatto grande, come
sarebbe un fatto grande la prima piccola goccia che in questo istante filtrasse
dal fiume sotto le fondamenta dell'onesta casa dove siamo raccolti».
Il dottor Záupa alzò di scatto le
sopracciglia fino ai capelli. L'altro riprese:
«È necessario che questo atto del
sindaco venga revocato! È per noi questione di dignità, questione di onore. È necessario
che una deliberazione della Giunta stessa e, se occorre, del Consiglio
medesimo, tolga la concessione inconsulta. È necessario!»
Quaiotto, avendo concepito il
disegno di assistere la propria eloquenza con un pugno di gran suono sul
tavolo, spinse con la sinistra i calzoni da banda e con la destra menò il
pugno, mentre i suoi vicini gli gridavano «Ocio! Ocio!» e un cestellino di
porcellana dorata spinto da una bomboniera, spinta da un album, spinto dalle
brache del Municipio, capitombolava nell'abisso.
"Oh Dio, la mamma!' pensò
Matìo nel cuore mentre la bocca diceva: «Gnente, gnente, gnente!». E si
precipitò col desolato Quaiotto, con i colleghi più agili, a raccogliere gli
sparsi cocci dorati. Quattro schiene tumultuavano sotto il tavolo: quella del
buon Matìo che ripeteva «gnente, gnente, gnente», quella di Quaiotto che gemeva
«per carità, per carità, per carità!» e altre due schiene ricche di buone
speranze nella risurrezione artificiale del cestellino. Gli undici personaggi
seduti, intenti, con le mani sulle ginocchia, alle quattro schiene e ai cocci
brillanti, dirigevano il lavoro. «Quaiotto, a dritta!» «Dotòr, a sinistra!»
«Più in qua!» «Più in là» L'uomo acido, dato di gomito all'uomo amaro e poi a
un altro vicino, mostrava loro con un sorriso giallo la testa e il seno della
donnetta di porcellana che uscivano dalla tasca posteriore sinistra dell'abito
di Matìo. Inutilmente il donnone ricomparso sulla soglia con una lettera in
mano chiamò tre volte, guardando stupefatta quella baraonda: «Siòr paron! Siòr
paron! Siòr paron!». Matìo non udì che la quarta chiamata. Cosa c'era adesso!
Una lettera di gran premura, mandata dal signor sindaco.
Il presidente dell'adunanza uscì
rosso rosso di sotto il tavolo, prese la lettera, l'aperse, mise una esclamazione,
dedicò un nuovo omaggio mentale alla finezza dello smilzo abate, chiamò a due
mani i colleghi a sé e lesse ad alta voce:
Egregio signore, Apprendo che
i consiglieri della maggioranza si riuniscono quest'oggi in casa Sua per
trattare di affari del Comune. Non invitato alla riunione, giudico, senza
sorpresa e senza il menomo rammarico, che la maggioranza desideri troncare i
suoi legami con il capo dell'Amministrazione comunale. Risolvo perciò di
rassegnare immediatamente le mie dimissioni al R. Prefetto e ne do
comunicazione a Lei, assessore anziano, avvertendola che non rimetterò piede in
ufficio. Gradisca, egregio signore, i sentimenti della mia personale
osservanza.
Devotissimo
P. Maironi
«Evviva!» gridò Quaiotto.
«Eclissi del sindaco!» E tutte le facce s'illuminarono, meno quella dell'uomo
acido. «S'el mandava la so ciacierata un'ora prima» diss'egli scendendo le
scale, «no me tocaria de magnar i risi longhi e no gavaria le scarsèle piene de
braghe». «E io Le dico» gridò su Quaiotto dal fondo della scala, «che ho le
tasche piene dei Suoi brontolamenti!» L'uomo acido storse la bocca, gli occhi,
le sopracciglia, le rughe gialle delle guance e della fronte, forse anche gli
orecchi, ma non ribatté sillaba. Gli altri non facevano che parlare a lingua sciolta
degli amori del sindaco e la scala era piena di tutto che nel salotto si era
faticosamente taciuto. «E cossa dise la marchesa?» «Povareta, la xe un spetro.»
«E el marchese?» «El se adata.» «Ma sémoi proprio a sto punto?» «Mi digo de
sì.» «Mi digo de no.» «Disela de no? I dise de sì.» Le stesse cose si erano
bisbigliate sulle scale, più sommessamente, prima della seduta, fra i
consiglieri che s'incontrarono a salirle insieme. Così entrano bisbigliando in
un cavo montano rivoletti che lo empiono di acque silenziose e queste poi
traboccando insieme a valle ripigliano le chiacchiere con maggior voce.
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