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I nuvoli che alle quattro
pendevano sulle spettabili tegole dell'onesta casa Záupa, diedero alle sei un
violento acquazzone. Tuoni, lampi, furioso vento apersero nitide da levante a
ponente le vie della luna. Il principio dell'eclissi era annunciato per le
undici e mezzo, e verso le undici Maironi doveva recarsi a villa Diedo per
salire poi con i Dessalle sul vicino colle, dove un nastro di magnifica via
serpeggia per le alture signoreggiando a vicenda, e talora insieme, l'oriente
infinito e il disordinato campo d'occidente che le radici tortuose dell'Alpe
ingombrano sino alla fuga obliqua dell'alte sue fronti. Poco dopo le dieci e
mezzo egli si metteva per la stradicciuola ripida e deserta che sale alla villa
dalla scuderia. La luna radeva le vette degli alberi pendenti dalla costa sulla
strada. Piero, camminando rapidamente nell'ombra, udì un chiacchierìo di voci
femminili e maschili che gli scendevano incontro. Rallentò egli pure il passo.
Riconobbe le voci delle signore
che Carlino Dessalle chiamava contessa Importanza e contessine Importanzète, di
altre signore, di ufficiali e borghesi suoi conoscenti, che ridevano, si
facevano congratulazioni smaccate, magnificavano lo spettacolo dell'eclissi
dalla terrazza della villa. Gli uomini schiamazzavano, la contessa Importanza
li sgridava: «Zitto! zitto!», un'altra, che pareva furiosa, esclamava: «Che
zitto! Parlate forte! Per me giuro che non ci ritorno mai più!». Precedeva un
gruppo di signorine, ridendo a proposito di certa eclissi che non era quella
della luna, della eclissi di un giovine signore, la quale, a sentir le altre,
aveva molto afflitto la maggiore delle Importanzète. Questa protestava,
ritorceva gli strali, parlava di eclissi del thè, del babà, delle sigarette
cubane, dolcezze sperate invano dalle amiche, di eclissi di un tenente e di un
segretario di prefettura, sperati anch'essi e non visti comparire al ritrovo.
Qualcuno gridò dalla
retroguardia: «Dica eclissi della buona creanza!». La dama furiosa confermò:
«Bravo! E cosa credete? Che vadano a veder l'eclissi, lei e l'amico? Si
eclisseranno loro, invece, in qualche boschetto!». Si capiva che la compagnia
era salita a villa Diedo con l'elegante idea di fare una sorpresa gradita,
pigliando l'eclissi a pretesto; e che Jeanne l'aveva poco amabilmente
congedata. Le signorine incontrarono Maironi che saliva rasente il muro di
sostegno della costa, nell'ombra. Una di esse lo riconobbe, finse di
sdrucciolare e appiccicatasi di peso al braccio della povera Importanzèta
minore, la fece sdrucciolar davvero, strillò con la sua vittima. Subito
strillarono anche le madri, i cavalieri si slanciarono al soccorso, tutta la
retroguardia venne giù sull'avanguardia come una valanga e Maironi passò.
Trovò socchiusa la porta del
giardino, entrò sotto la folta carpinata di sinistra cui luceva in fondo un
chiaror di ghiaia illuminata dalla luna. Da un lato della carpinata un'ombra
nera scattò sul chiaror bianco, Piero si sentì stretto nelle braccia di Jeanne,
n'ebbe la fronte impetuosa sul petto. Stettero così lungamente abbracciati
senza una parola, egli con la bocca sui tepidi, soffici capelli di lei,
respirandone l'odore; ella stringendolo forte, premendo e scotendo la fronte
come per rompergli il petto ed entrarvi tutta.
Finalmente Jeanne disse piano,
senz'alzare il capo, che suo fratello era fuori di città, che aveva tanto
gioito di questa inattesa fortuna e poi tanto trepidato, tanto temuto; temuto
di non poter star sola con lui, prima; poi quando le era riuscito di mandar via
dei noiosi, temuto che egli non venisse. E gli rise sul petto un piccolo riso
di gioia. Piero non disse niente, le prese il capo a due mani, glielo alzò a
forza, la baciò ingordo, sugli occhi, sulle guance, sulle labbra, sempre in
silenzio, Jeanne concedendosi, rendendo i baci ma senza foga. Ella gli levò
alfine dolcemente le mani dal collo, gli prese il capo alla sua volta, lo baciò
sulla fronte come per quietargli il sangue e sussurrò: «Adesso dimmi una
parola». Ma perché il giovine, ingordo ancora, inasprito nel suo desiderio,
rispondeva solamente, fra un bacio e l'altro: «Ho sete, ho sete», ella si
staccò da lui, disse risoluta «basta», gli ordinò di uscire, di star fuori
alcuni minuti, di suonare il campanello per riguardo ai domestici. Ell'andava
ad aspettarlo sulla terrazza. Maironi obbedì, malcontento.
Cinque minuti dopo, un domestico
usciva, precedendolo dalla carpinata tenebrosa nel chiaro di luna, e, alzata la
impenetrabile faccia liscia di romano antico alla balaustrata della terrazza,
annunciava:
«Il signor Maironi.»
Jeanne, ritta dietro la
balaustrata, chiusa in un mantelletto bianco, rispose al saluto rispettoso di
Piero: «Che bravo!» e sorrise. Piero salì sulla terrazza con il cappello in
mano, con un sorriso troppo simile al sorriso di lei che gli veniva incontro.
Era magnifica, nel chiaro di luna, la terrazza di marmo bianco, protesa dal
piano signorile della villa, porgente lo scalone al giardino, sommersa la
balaustrata nel furioso assalto del roseto, in una scarmigliata pompa di
fogliame denso, di grandi occhi carnei, di lunghe frondi mobili ai fiati
vagabondi della notte. Era magnifica con il suo arco di bellezza in giro alle
tre fronti, via via dagli umili oscuri piani del settentrione al radiante
chiarore del cielo sopra la città illuminata, al dorso dell'altura stretto fra
le due carpinate lunghe, ai campi arati dormenti nella valletta del
mezzogiorno, sotto la luna.
«Perché non si resta qui?» disse
Piero con voce sommessa, come se le parole innocenti potessero tradire a
qualche orecchio curioso il suo desiderio di un'ora beata in quel solingo
incanto di marmi e di luna, fra le rose inquiete, accennanti un voluttuoso
invito.
«Adesso si resta qui» rispose
Jeanne; e ordinato al domestico il caffè, la bevanda favorita di lei e
dell'amico, si avviò verso alcuni sedili di bambù aggruppati in un angolo della
terrazza.
«E poi si va» diss'ella piano,
abbandonandosi riversa, con un sospiro, sulla poltrona bassa lambita dalle
rose. Vide negli occhi di Piero un lampo che la fece rizzarsi di botto. «Com'è
cattivo, Lei!» diss'ella. «Io non ci penso mai.»
Egli protestò, acceso, che non
era cattiveria di amarla con tutto il suo spirito e tutto il suo sangue, di...
Jeanne lo interruppe con un
gesto, gli additò una finestra della villa, illuminata e aperta.
«Le cameriere» diss'ella.
Piero si morse le labbra, la
guardò a lungo, parlando con gli occhi fissi, ardenti. Poi le disse che non era
più sindaco, che aveva rotto con quella gente, per sempre, che gli pareva di
nascere a un'altra vita, ch'era ubbriaco di libertà. Appena proferita la parola
gli sovvenne della catena intatta. Jeanne parve colpita dalla stessa idea, non
trovò niente a dire. Dopo un momento di silenzio penoso, parlò dei seccatori
venuti dalla città col pretesto dell'eclissi per fare una bizzarria elegante e
divertirsi. Aveva dovuto licenziarli con desolazione, povera Jeanne! Un
impegno, un ritrovo sulla via dei colli, con amici. In verità suo fratello
l'aveva lasciata in forse di ritornare da Venezia con un amico pittore, in
tempo di assistere insieme all'eclissi, ed ella si era impegnata di salire ai
colli in carrozza e di fermarsi ad attenderli sul tratto di via che signoreggia
i due versanti. I seccatori parevano disposti ad aspettare ch'ella partisse.
«Temo di non essere stata molto gentile», diss'ella. «Del resto» soggiunse,
alludendo a due dame della città che l'adoravano malgrado un assai tepido
ricambio da parte sua, «né l'una né l'altra delle mie gelose c'era, le mamme e
le signorine della compagnia erano venute immensamente più per mio fratello che
per me; e forse qualcuna era venuta per eclissarsi in buona compagnia nel
boschetto o sotto le carpinate.»
Maironi pensò involontariamente
che aveva udito dai "seccatori' una simile parola detta per Jeanne, e non
n'ebbe piacere. Intanto entrò il romano antico recando il caffè.
«Sapevo quello che Lei mi ha
raccontato» disse Jeanne. «Me lo ha detto questa sera, mezzo costernato, mezzo
fremente, il signorino fiero della biblioteca. E ho capito che lo sapevano anche gli altri. Je
les ai entendus dire en partant que j'avais les nerfs et que c'ètait l'effet de
la crise.»
«Andiamo a piedi, eh?» diss'ella
poi. «Faccio scendere la carrozza alla stazione e ordino che ci raggiunga poi a
ogni modo, arrivino o non arrivino.»
Diede le istruzioni al domestico
e si alzò mentre dall'alto santuario del colle, bianco sul cielo sereno,
suonava la gran voce solenne della mezzanotte. Poiché andavano a piedi era
tempo di mettere il cappello e i guanti.
Maironi la seguì in sala, nella
bella sala rettangolare onde il Tiepolo ha dipinto le due pareti maggiori,
mostrandoci qua Ifigenia fra i carnefici e i principi dolenti, là gli equipaggi
achei volti alle navi per l'imbarco. Era semiscura, odorata di héliotrope e di sigarette cubane.
«Restiamo qui, restiamo qui»
disse il giovine con una voce tanto strana, con un accento di supplica tanto
ardente che Jeanne, avviata a salire nelle sue camere, affrettò il passo. Egli
balzò dietro a lei nel corridoio oscuro che conduce alla scala, le gittò le
mani alla vita, ma ella se ne strappò di slancio, saltò nella luce della scala.
Ridiscese presto, triste, con la cameriera.
Appena il domestico ebbe chiuso
alle loro spalle il cancello del giardino, Maironi chiese perdono. Jeanne non
rispose. Egli si sentì gelare il sangue, si fermò sui due piedi.
Jeanne gli prese il braccio, gli
disse che non era in collera, ch'era soltanto triste, molto triste, di
sovreccitargli tanto i sensi, di non essere intesa nei suoi slanci di amore
immenso e tuttavia non sensuale. Era dolente e sorpresa di esercitare
un'influenza simile sopra di lui, suo primo vero amore, mentre altri che
l'avevano amata e forse l'amavano ancora, senza ricambio, si sentivano come
purificati da lei, le avevan chiesto amore nel nome della loro salvezza morale.
Perciò temeva di essere amata da lui solamente come una dolce liberazione dal
suo passato, la quale non gli paresse completa senza un atto di offesa mortale,
irrimediabile, a questo passato, senza un atto che lo legasse quasi
materialmente alla sua liberatrice. Qui egli volle interromperla, ma Jeanne non
lo permise. Se nella sua passione violenta ella si faceva talvolta umile
davanti a lui come una schiava, lo giudicava ora con un'alta indipendenza, con
un acume, con una tranquilla franchezza che lo sgomentarono.
«Non mi ami più?» diss'egli. Ella
fece: «Oh!» e gli strinse il braccio, gli si serrò con impeto al fianco. Una
ricreante dolcezza lo invase. «Anch'io» diss'egli «sono stato purificato da te
perché adesso il piacere senz'amore mi farebbe schifo. In questo momento poi mi
sento puro come vuoi tu. Pensa che ti bacio sulla fronte.» Jeanne sorrise. «Sì,
caro» e continuò:
«Vedi, devi credermi; io sono
proprio singolare, in questo. Non so se sia freddezza di natura, se sia
orgoglio, se sia conseguenza dell'impressione orribile ch'ebbi dalla brutalità
di mio marito, se sia, non so, un senso estetico, se sia tutto questo insieme.
So che l'idea sola della sensualità estrema m'ispira un'immensa ripugnanza.
Forse potrei, con uno sforzo, sacrificarmi per compiacere la persona che amo,
ma sarei certissima di amarla molto meno, dopo. Anche te sento di amar meno in
certi momenti che sai, come poco fa. Sarò strana, unica, ma è così! E poi vi è
mio fratello. Io mi sento madre per mio fratello e mio fratello ha la più
grande fiducia nella mia elevatezza, mi adora come un essere superiore a ogni
fragilità umana. Sarebbe terribile per lui di scoprire che mi abbasso come le
altre. Perché poi io lo credo freddo anche lui, di temperamento; certo è schivo
morbosamente, per un uomo, non soltanto d'ogni atto poco fine ma d'ogni parola
che tocchi certi argomenti. Non ha più religione di me, eppure io direi che
vive proprio non come gli altri. Forse ha un po' la religione della sua
salute...»
Jeanne guardò la luna. «Non so»
diss'ella «come faccio a parlare con Lei di simili cose, prima dell'eclissi
totale.»
«Con Lei?»
«Sì, con Lei! Non vede che c'è
gente?»
Uscivano allora dalla viuzza stretta
fra due muri sullo scoperto dorso ascendente alle maggiori alture, dove, a
pochi passi da loro, lungo il parapetto che corona il ciglio del piazzale verso
la città, camminava una frotta di giovani conversando e ridendo.
«Adesso che ha piantato quei santocchi»
diceva uno di loro soverchiando con la voce il chiasso degli altri, «per il
piacere...»,
e qui una sconcezza, «adesso lo
stimo e gli do il voto!»
«Ma che!» gridò un altro. «È
stato per i calzoni di Ricciotti!» Una risata e passarono.
Lì presso, la strada che viene da
villa Diedo e dalle altre ville del poggetto si allaccia con quella che sale al
Santuario dalla città. Maironi, livido, si avviò con la sua compagna verso le
ombre dei grandi ippocastani allineati come una guardia d'onore sulla sinistra
dell'ampia salita. Avanti e dietro a loro salivano alcuni altri curiosi
dell'eclissi. Udirono un signore che li precedeva con due signore, dire alle
sue compagne: «Sarebbe bella che lei guarisse!». Forse non parlava della
persona cui Maironi e Jeanne pensarono, ma le parole oscure percossero questi
due come un soffio di ghiaccio. A ciascuno fu amaro anzitutto il pensare che
l'altro pure aveva udito; poi, che non era possibile dir niente; poi, che il
loro stesso imbarazzo pareva non scevro di ridicolo. Senz'accordo, senza
parlare, passarono insieme dall'altro lato della via. Jeanne ruppe il silenzio,
disse che a suo fratello era venuto il capriccio di dare a villa Diedo o un garden party in giugno o una festa in
costume nel prossimo inverno, per la quale sarebbe stato necessario di coprire
le terrazze con ferro e vetro e perciò d'incominciar presto almeno gli studi,
ch'ella vi era contraria ma che gli amici e le amiche di Carlino, con
quest'idea del Tiepolo, del Settecento e dei costumi tiepoleschi e settecenteschi,
gli montavano la testa persino da Firenze. Posto l'ambiente pettegolo, c'era da
sperare che la festa andasse a monte come il pick nick. Piero non parve prendere interesse al discorso. Allora
Jeanne gli domandò, parlando piano perché davanti a loro saliva una brigata di
giovani e signore, se non fosse probabile che il Consiglio comunale lo
rieleggesse. No, non era affatto probabile. Perché non si credesse a un
puntiglio, a un dispetto, Piero intendeva inviare al più presto le sue
dimissioni anche da consigliere.
«A quante cose pensa Lei!» disse
Jeanne. «Io penso a una sola.» «Io posso pensare quella che Lei dice» rispose
Piero «intensamente quanto Lei, e posso insieme pensarne altre!»
Nel gruppo dei giovani e delle
signore si discorreva di blasone. Alcune signorine, ferocemente democratiche,
parlavano della nobiltà e anche della borghesia mescolata ai nobili, come di
gente inferiore intellettualmente e moralmente, destinata a finire di logorarsi
nell'ozio e nei piaceri, a scomparire nella rovina economica che li minacciava
quasi tutti e di cui si vedevano in giro molti segni mal coperti di stemmi, di
corone, di livree. E qui, a voce più bassa, si dicevano i nomi. Ciascuno del
gruppo aveva a raccontare grettezze segrete di gente fastosa, debiti vergognosi,
segrete strettezze di gente che non sapeva rinunciare a costose apparenze,
miserie intellettuali della classe alta, ignoranze crasse, apatìe cretine,
bigottismo, ateismo pratico senza base razionale; miserie morali, accidie,
burbanze con gl'inferiori, durezze avare, amori senz'amore.
«Almeno questo no» mormorò Piero
all'amica. Egli nobile, lei borghese mescolata ai nobili, si divertivano di
quei panegirici.
«Socialismo, socialismo!» esclamò ridendo uno
dei giovani. Due o tre ragazze, uscite di fresco dalla Scuola magistrale,
appunto inclinate al socialismo, ardite, franche, raccolsero il guanto. I
giovani, usciti di fresco dall'Università, replicarono con foga ironica,
opponendo alle ragazze la dottrina liberale, concedendo questo e negando quello
dall'alto della loro superiorità maschile. Essi parevano più colti; le donne,
nella loro passione per una creduta giustizia, parevano più forti. Irritata dal
tono sarcastico dei contraddittori, una di esse rispose così pungente che
qualcuno replicò:
«Cara Ela, La dovarìa sposar
Ciotti Çeóla.» La signorina rispose scherzando che lo stimava più di loro, ma
che pur troppo l'eroe era già prigioniero di una cameriera. Allora una delle
due povere vecchie mamme fuori d'uso, prese con sé da quella briosa gioventù e
sfoderate come due stracci di passaporti, turbata dalle audacie della
conversazione, osò dire: «Andemo, andemo!». L'altra, dolce, candida, ineffabile
oca, usa snocciolar rosari e lasciar la briglia sul collo alle figlie,
soggiunse, perché toccavano allora l'alto piazzale del tempio: «Almanco no fève
sentir da la Madona!». I giovani si sparsero ridendo a guardar il panorama e la
luna.
«E tu adesso» disse Jeanne
sorridendo «ti metterai con i liberali?»
Maironi non rispose. Fatti pochi
passi, entrarono nell'ombra della chiesa. Egli prese allora il braccio di
Jeanne, che resistette. «Per me non importa se ci vedono» diss'ella, «ma temo
di far male a te.» Il giovane la trasse a sé con violenza, ella cedette subito.
«Non temere, no» diss'egli. «Io disprezzo tutto quello che tutti hanno detto,
che dicono e che diranno. Del resto non mi parlare dei partiti di qui! E non mi
parlare di questa città che mi diventa più odiosa ogni momento. Già io non sono
nato qui e ho un altro sangue nelle vene. Adesso poi che ho rotto con tante
cose, il mondo mi si allarga e mi s'illumina intorno immensamente. Mi par
d'essere un Dio, capisci, in una pozzanghera. Mettermi con i liberali? Ma con
qual partito mettermi qui, santo cielo, se hanno tutti un'impronta di angustia
e di miseria! Guarda i clericali! Se c'è un clericale col quale si possa
discutere non è di qui, è Soldini, che viene da Milano. I liberali? Lo so che
adesso li avrò tutti intorno a me e ne son seccato a quest'ora. Li conosco e li
peso! E poi, già, io non so ancora cosa diventerò. Tanto, sai, la mia parte
d'azione nel mondo la esercito! Non so, mi pare di esserci portato dal destino,
ma non credo che neanche fuori di qui diventerei mai quello che si chiama un
liberale. Gente invecchiata. La libertà è stata un ideale e adesso non può
essere che un'arma. È più facile che tu mi veda socialista.»
«No no» fece Jeanne; senza molto
calore, però.
«Eh, non socialista con i
socialisti di qui, sai! Forse neanche con i socialisti di Milano e di Torino
che valgono di più. Certo mai con gl'ignoranti, né con i disonesti, né con i
cupidi!»
«Ma neanche con gli altri!»
«Perché?»
Piero sapeva che Carlino Dessalle
era un feroce nemico del socialismo; non s'era mai accorto che Jeanne dividesse
il sentimento del fratello.
Infatti Jeanne non ne divideva
l'odio. Era scettica, profondamente scettica.
«Perché è una cosa inutile»
diss'ella. «Il mondo va come deve andare. Sono sogni. Sarai una mosca del
carro.»
Egli protestò così sdegnosamente
che Jeanne se ne atterrì. «No no, scusa scusa, zitto zitto!» Sopraggiungeva
allora la comitiva oltrepassata sul piazzale della chiesa. I giovani, già tanto
chiassosi, passavano in silenzio, rapidamente, avendo riconosciuto Maironi.
Invano le due povere mamme sgangherate arrancavano loro dietro gemendo: «Tosi!
putèle!». Maironi aspettò che passassero anche le due mamme e poi ritornò alle
proteste; ma Jeanne lo supplicò di smettere, di non guastare l'ora felice, di
parlarle di amore, soltanto di amore, e la sua voce aveva lente carezze di mani
tenere. Egli si arrese, ebbe un ritorno di passione come nella villa, voleva
lasciare la via maestra, prenderne un'altra ombrosa che se ne spicca pochi
passi oltre la chiesa. Jeanne si oppose. Piero insisteva, quasi violento.
«Adesso ti prendo fra le braccia, ti porto dove voglio io.» Ella tenne fermo,
lo trasse avanti.
«Avresti gridato?» diss'egli.
«No, ti avrei morso.»
Egli tacque. Fatti pochi passi,
Jeanne, conducendo a fine con la voce un ragionamento incominciato nel
silenzio, gli domandò se avesse rotto proprio del tutto anche con la sua fede.
«Credo di sì» diss'egli. Jeanne sorrise. «Come, credi?» Egli giustificò la
parola strana. «Sai, vi è nell'anima mia un tale polverìo di rovine ancora in
moto, che non so bene cosa sia caduto e cosa resti in piedi. Credo di credere
ancora in Dio, questo sì, ma non nel Dio che mi hanno insegnato. Quello l'ho
sepolto a Praglia. Era già mezzo morto dentro di me, anche prima: stavo però
ancora nel vischio delle mie vecchie abitudini mentali. Chi sa, se tutti i
cattolici fossero come un vecchio prete che conosco, non avrei perduta la fede.
Anche lui, però! Mi dice che non devo giudicare la Chiesa cattolica da qualche
centinaio di persone e io non sapergli rispondere che da tutta intera la Chiesa
cattolica si va ritirando la vita, che tutto vi è antiquato, dalla parola del
Vaticano a quella dell'ultimo cappellano di campagna! Una volta ho pensato:
"Se venisse un altro San Francesco! Se venisse un altro Sant'Agostino!'
Adesso so che non verranno».
«Mi dispiace» disse Jeanne «che
tu abbia perduta la fede.»
«Perché?»
«Perché so quanto è triste di non
aver dentro di sé niente di fermo, niente di assoluto.»
«Tu non hai niente, in te, di
fermo?».
«Niente, tranne l'amore.»
«Non credi neppure che ci sia
un'altra vita?»
«No» rispose Jeanne, sospirando.
Tacquero entrambi. A un tratto
Jeanne esclamò: «E la luna?». Alzarono insieme gli occhi alla luna, quasi
dubitando che l'eclissi fosse già passata. L'ombra copriva un terzo dell'astro.
Guardarono l'ora. A momenti avrebbe dovuto arrivare la carrozza.
«Spero che non vengano» disse
Jeanne. Soggiunse che il pittore veneziano era stato innamorato di lei e
confessò che una volta, pure non amandolo affatto, lo trovava carino, e si
divertiva delle pazzie ch'egli, malgrado i rabbuffi di lei, le diceva.
Adesso non le diceva più pazzie e
le era venuto a noia. Maironi finse d'intendere ch'ella rimpiangesse le pazzie
di colui, fece il geloso. Risero insieme, risero deliziosamente di altri
innamorati di Jeanne, del capitano Reggini, uggioso, malgrado il suo spirito,
per la gelosia che si permetteva con quel bel diritto, risero di un maturo
signore ammogliato della città, ambizioso dell'alloro di libertino e poco
pratico del mestiere, che non s'era peritato di far l'audace e, messo a posto,
aveva preso il Ponte dei Sospiri.
Una carrozza dietro a loro.
Cavalli bianchi; non la carrozza Dessalle. Jeanne e Maironi si fecero da banda,
nell'ombra di un muro. Principiava lì una discesa ripida, il cocchiere mise i
cavalli al passo. Era uno stage
pieno di signore, di ufficiali e di una chiassosa discussione
astronomica sul naso del colonnello, del quale naso il capitano Reggini giurava
veder l'ombra sulle montagne della luna e proprio sul vulcano della
Desolazione, mentre qualcun altro giurava alla sua volta che quella era l'ombra
delle appendici frontali di... Proteste inorridite, esclamazioni, risate,
risatine, satire, cavalli e stage, tutto passò. A Jeanne pareva che
fosse stato pronunciato il nome di suo marito.
«Anch'io sai» diss'ella, «vorrei
tanto andar via!»
«Dove?»
«Dove nessuno ci conoscesse.»
Egli la comprese, le strinse
forte il braccio, le domandò:
«E tuo fratello?»
Jeanne sospirò. «Basterebbe
dirgli che nella valletta del Silenzio, dopo le piogge abbondanti, l'acqua
ristagna e infetta un pochino l'aria. Ma io non lo farò. Villa Diedo gli piace
tanto e ci ha già speso un tal monte di denaro!»
Ecco i cavalli di casa Dessalle,
al piccolo trotto. Il landau è
vuoto, il romano antico scende di cassetta e dice che non è arrivato nessuno.
Jeanne e Maironi salgono. Jeanne non vorrebbe incontrare lo stage,
propone, senza troppo riflettere, di ritornare a villa Diedo e attendervi il
culmine dell'eclissi sulla terrazza. Maironi le mormora un «grazie» così caldo
ch'ella si pente della proposta. Non osa però mutarla.
Soltanto allora, risalendo
lentamente l'erta, dietro le orecchiute maestà del cocchiere e dello staffiere,
Jeanne e Piero guardarono la scena del loro idillio, le bianche villette più e
più smorte per i colli oscurati, il tremolar nuovo di stelline nascenti dal
profondo del cielo. Passavano ondate d'aria tiepida, odori d'acacie in fiore,
ondate d'aria fresca, odori di bosco umido.
«Il Suo paese è bello, però»
disse Jeanne.
«Non è il mio.»
«Come, non è il Suo?»
Maironi rise per il tono delle parole
di Jeanne che pareva offesa, pareva non credergli.
«Sempre orgogliosa!» diss'egli.
«Non vuol mai avere sbagliato!» Ella sorrise pure, gli alitò sul viso un
«Cattivo!». Poi gli domandò ad alta voce dove mai fosse il suo paese e
soggiunse piano: «Lo so, non ci aveva pensato». Piero le parlò della casetta
dov'era nato, del romito lago, delle grandi, austere montagne di Valsolda. Il landau toccava allora il sommo dell'erta, i cavalli
presero il trotto.
«Se fossimo là in barca, noi due
soli!» disse Piero. «Ci saremo mai? Soli, in una piccola barchetta, nell'ombra
di un golfo, sull'acqua che palpita?» Passò un braccio dietro le spalle di
Jeanne, sentì la bella persona rilevarsi un poco e poi premergli sul braccio,
deliziosamente, ora più ora meno, rispondendo a ogni sua stretta. Non si
parlarono più che così. I cavalli correvano, gli odori ventavano sulla via
dell'una e dell'altra fiorita sponda, tutte le cose si facevano al mancar della
luna più e più smorte in un languore voluttuoso, nel presentimento di una
congiunzione arcana dei due astri nell'ombra.
Appena un sottile orlo di argento
del rossastro globo lunare brillava ancora quando i due risalirono sulla
terrazza oscura. Si sentivano sì e no nell'aria inquieta e buia gli aliti delle
rose come voci di desiderio e di pena. Si vedevan sì e no le frondi porgersi in
qua e in là come braccia di ciechi brancolanti. Nel chinarsi per volgere la
poltrona da riposo verso il ponente ove la luna scendeva, Piero sfiorò con le
labbra una spalla di Jeanne e sussurrò: «Cara ombra!». Jeanne rispose: «Io però
amo la luce». Nello stesso tempo gli folgorarono dentro la fronte, come una
punta di ghiaccio fitta e ritolta, le parole: dilexerunt tenebras. Via!
Via! Neppure averle pensate, voleva! Sedette accanto a Jeanne, disse forte, per
il caso che qualcuno li spiasse: «Adesso, signora, facciamo gli astronomi» e le
prese una mano. «Sei stata ingiusta» mormorò, «amaramente ingiusta quando hai
detto che nel mio ardore c'è un proposito freddo. Non dirlo più!» Jeanne si
portò la mano di lui alle labbra. Silenzio, aliti di rose, molle ondular di
frondi, sospiri umani pieni dell'Indicibile.
«Non è troppo fresco e umido,
qui, per Lei?» disse Piero finalmente. «Non sarebbe meglio...?»
Jeanne sorrise. «È meglio che Lei
parta, credo, amico mio.»
«Addio, dunque!»
«No!»
Gli aveva ben detto lei di
partire e adesso non voleva più. Risero entrambi, tanto dolcemente. «Sì, sì»
diss'ella facendosi seria. «Bisogna che parta!» E perché Piero le sussurrava:
«Partire senza un bacio? Partire senza un bacio?» si alzò, entrò in sala,
seguìta da lui. «Adesso La faccio accompagnare al cancello» disse. Posato un
dito sul bottone del campanello elettrico, si volse al giovane, gli porse le
labbra.
Egli scese come in sogno,
senz'altro senso che di quell'atto, di quella bocca, senz'altro pensiero che di
non poter pensare a niente, di non poter volere niente, di scender beato in
grembo al Fiume della Vita, ardente e dolce. Nell'entrare in casa si domandò se
fosse possibile vivere più oltre fra quella gente. Posando il soprabito gli
sovvenne, con disgusto, della camerierina bionda. Che gioia non sentire più in
sé il bruto senz'amore, esser trasfigurato anche nella vita corporea! Sedette
sul letto, rivisse i più deliziosi momenti di quella notte, dall'abbraccio muto
sotto i carpini al bacio nella sala. Anche meditò le più singolari parole di
Jeanne, compiacendosi orgogliosamente dell'amore di una creatura così bella,
strana e profonda, chiedendosi in pari tempo, adesso che ci pensava a mente
riposata, se non fosse in lei, con tutto il suo amore, un intimo nucleo di
orgoglio, d'idee più forti che l'amore, invincibili.
E quell'attaccamento al fratello
non era eccessivo, quasi offensivo? Quale amore, però, quale grande, impetuoso,
tenero amore pur nei confini suoi! Quale amore unico, quale spiritualità
intensa di amore mista con i desideri più delicati e squisiti dei sensi!
Ricorse avido alla memoria dell'abbraccio muto, della bocca soave. Ah!
Si scosse, si dispose a
coricarsi. Ecco qualche cosa di nuovo sul tavolino da notte, come la sera della
tentazione. Non fiori stavolta, una lettera chiusa, con un semplice indirizzo,
«Piero», di carattere della marchesa. L'aperse, non si avvide della
piccola busta che ne cadde e lesse:
Sia ringraziato Iddio che ci
dona consolazione. Stasera dopo le dieci è venuto il medico assistente dello
Stabilimento e ha portato il biglietto con lo scritto di Elisa che ti unisco.
Piero s'interruppe, rabbrividì,
cercò e raccattò da terra la piccola busta. Conteneva un quadratino di carta
dove la mano della Demente aveva scritto per isghembo e male a grossi
caratteri:
s’ofro
Dalle profondità del palazzo il
vecchio orologio suonò le tre. Ritornò il silenzio, il pauroso silenzio delle
cose conscie. Piero seduto sul letto con la lettera in mano, la guardava
trasognato, guardava il quadratino di carta e poi da capo la lettera, leggeva e
rileggeva di speranze dei medici, di una messa che si sarebbe celebrata
l'indomani mattina in Duomo. Fermò finalmente gli occhi torbidi sulla parola
scritta male, per isghembo, a caratteri grandi. Sentimenti diversi di rimorso,
di terrore, di speranza rea o conosciuta per tale, diverse immagini di
possibili eventi che maturassero qualche strano dramma cozzavano in lui
oscurandogli l'anima. Poco a poco, mirando sempre la terribile parola tanto
ancora piena di ombre idiote, egli si ricompose una cupa quiete nell'idea della
probabile vittoria finale delle ombre, si disse e si ridisse ch'era questo il
freddo giudizio della sua ragione e non la voce delle crudeli speranze. Il lume
della candela smorì nei primi albori, dalle profondità del palazzo il vecchio
orologio suonò le quattro, e ritornò il silenzio, il pauroso silenzio delle
cose conscie.
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