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Jeanne, partito Maironi, mandò il
domestico a letto, suonò per la cameriera, mandò a letto anche costei, uscì
sulla terrazza candida nel lume della luna rediviva, ritornò all'angolo d'ombra
tra i fogliami tiepidi delle rose, si riadagiò sulla poltrona da riposo e
sorrise a se stessa, beata. Mai non aveva amato prima d'incontrar Maironi e
neppure desiderato di amare. Nessuno dei tanti adoratori suoi aveva saputo
destarle nell'anima il senso della sua femminilità profonda. Questo senso non
s'era ora destato che a mezzo. L'ardore dello spirito non le aveva ancora
penetrato il corpo. I suoi desideri non andavano oltre la presenza continua e
la tenerezza appassionata di lui, il possesso dell'anima sua, la libertà, nei
momenti in cui si preferisce il silenzio alla parola, di cingergli con le
braccia il collo, di posargli la fronte sopra una spalla. Oltre questo
abbandono e carezze, baci a fior di labbro, e il senso alle spalle del braccio
diletto, incominciavano le sue ripugnanze. Ai suoi rapimenti non si mesceva un
atomo di timore né di rimorso. Figlia di genitori increduli e tuttavia
rispettosi della religione, era passata per gli effimeri fervori ascetici del
collegio. Quindi lo spirito infusole nel sangue, la coscienza della sua
superiorità intellettuale sulle persone che l'avevano guidata alla pietà, la
tendenza critica del suo intelletto, le letture, le conversazioni di uomini
coltissimi e irreligiosi, la incredulità conosciuta dei genitori che pure la
mandavano a messa, ai sacramenti, e le regalavano libri di preghiera, tutto
questo insieme l'aveva condotta a una specie di sereno fatalismo, dall'alto del
quale i dogmi cristiani, Iddio, la immortalità dello spirito le parevano
illusioni gentili, nobili, anche utili a coloro che non possedessero come lei
nella propria natura il senso della dignità morale, i suoi freni e i suoi
stimoli. La sua fierezza, il suo affetto al rispetto altrui, le vaghe idealità
morali che le tenevano luogo di fede le ispiravano il disgusto dell'adulterio
ma non le facevano alcun rimprovero di un amore che, soddisfatto secondo il
desiderio suo, le riempiva l'anima di bontà. Sapeva di non toglier niente alla
moglie di Piero e il suo scetticismo circa le illusioni del sentimento, il
forte, lucido intelletto della realtà non le consentivano rimorsi per un'offesa
che, non potuta sentire, non era offesa.
L'immagine squallida della
Demente non si affacciava mai alla sua coscienza. Aveva ben pensato, una volta,
che la madre di lei soffrirebbe molto, se sapesse; ma vi era nella vita,
secondo il suo vedere, un Ineluttabile e questi dolori ne facevan parte. Anche
l'amore procedeva dall'Ineluttabile. Perché si era ella innamorata di Maironi?
Per i pregi del viso e dello spirito? No, per un che negli occhi suoi. Le
avevano molto parlato, sì, di questo giovane intelligente, colto,
generosissimo, pio, infelice; le avevano ispirata molta curiosità di
conoscerlo, particolarmente di sapere se egli amasse ancora sua moglie; ma
soltanto quel Che misterioso l'aveva presa. Era ella forse delle infinite cui
basta venir guardate due volte da un uomo non vecchio, non brutto, non
inelegante, per sentirsi attratte? Neppur questo; molti uomini le avevano
ispirato simpatia conversando con lei, s'era compiaciuta di molte ammirazioni,
non sempre aveva sdegnato le dolcezze d'una lieve civetteria, ma soltanto nel
primo incontro con Maironi aveva sentito l'improvviso impero d'un destino.
Era in quel punto divenuta
schiava dell'Ineluttabile.
Ineluttabile l'amore,
ineluttabili erano i dolori che esso avrebbe recato ad altre creature umane e
che non le ispiravano, quindi, rimorso ma solamente pietà. Sotto l'ebbrezza di
Maironi che scendeva col bacio di lei sulle labbra si veniva raccogliendo
silenziosamente, non avvertito, un lievito amaro. Sotto l'ebbrezza di Jeanne vi
era il recondito, freddo nucleo del suo scetticismo, la sua chiara visione del
vortice eterno nel quale il suo amore e la sua coscienza, come tutti gli altri
amori, come tutte le altre coscienze, si dissolverebbero in breve. Questo era
l'Ineluttabile supremo e non la turbava, le rendeva più intenso il piacere
dell'ora presente.
Ella non credeva di poter più
dormire, quella notte: e le gradiva di godersi il tramonto della luna, la
fragranza delle rose, pensando a lui. Come mai l'aveva lasciato partire senza
domandargli quando sarebbe ritornato? Non poteva, non poteva stare in questa
incertezza! Vide i suoi guanti, dimenticati sopra una sedia. Oh, se ora venisse
a riprenderli! Si rizzò sulla persona, stette in ascolto. Che follia! Si
propose di rimandar i guanti l'indomani mattina con una lettera. E li prese,
contenta. Si struggeva di baciarli, sorrise di se stessa. Non li baciò, mise la
mano in uno di essi, sorrise ancora, sorrise di sentirsi mortificata che
fossero così grandi mentre avrebbe giurato che le mani di Piero fossero
piccole. Uno stridere del cancello! Lui?
Non era Maironi, era Carlino
arrivato in carrozza con quattro amici, l'elegante deputato Berardini, il
grande violoncellista Lazzaro Chieco, l'allegro pittore veneziano Fusarin e un
tal Fanelli, senese, critico d'arte e di letteratura, giovanissimo, libertino,
sfacciato come un monello di Firenze. Eran partiti da Venezia col treno e
l'avevan lasciato per fare una scarrozzata di trenta chilometri godendosi
appieno la calda notte di maggio e l'eclissi. Seguiva il vetturale portando il
violoncello di Chieco. Furono meravigliatissimi di trovare Jeanne, a quell'ora,
sulla terrazza. Ella non conosceva che Fusarin, il suo adoratore pazzo di una
volta. Chi si fece avanti il primo con il cappello in mano e a braccia aperte
fu Chieco. «Divina signora, non badate a questi grattaformaggi che non sono
degni della vostra attenzione. Io solo, Lazzaro Chieco, violoncellista di
camera, anzi di anticamera del Padre Eterno, lo sono!»
«Carlino!» esclamò Jeanne ridendo
mentre gli altri la supplicavano comicamente di compatire il maestro
rimbambito. «Non presenti? Che fai?»
Carlino saliva lo scalone della
terrazza a ritroso, pian piano. «Scusate, scusate!» diss'egli. «Aspettate! Mi
hanno insegnato a Venezia questa cosa magnifica, che fa bene ai polmoni di
salire le scale così. È delizioso!»
Fusarin e Fanelli lo afferrarono,
lo portarono su di peso, strillando egli: «Meglio! Meglio!». Intanto Berardini
pregava Jeanne di non confonderlo con quei farabutti: egli non aveva bevuto, a
cena, che acqua; essi...! E fece il gesto ipocrita della simulata ignoranza.
Intanto Carlino, rassettatisi i solini, la cravatta e il bavero della giacca,
si accinse alle presentazioni.
«Lasciamo queste volgarità, per
amor del cielo!» esclamò l'onorevole deputato. «Signora, io La ho veduta nei
miei sogni e confido che anche Lei abbia veduto me. Lasciamo che costoro mi
chiamino Berardini. Suo fratello che mi disprezza, dice: "Il deputato
Berardini'; Fusarin che mi odia, dice: "Il commendatore Berardini'.»
«Fiol d'un can!» brontolò
Fusarin. «Intanto el ghe le ga spiferae tute.»
«Non ce ne curiamo» proseguì
l'onorevole. «Lei è Lei, e io sono io.»
«Signora» disse Fanelli, «io,
come il più educato di questi quattro amici di Suo fratello, che non è gran
lode!, mi lascerò presentare.»
Ma poi Jeanne guardò Carlino, imbarazzata.
Aveva carissima questa visita, ma... Chieco precorse le parole che venivano.
«Niente, signora mia! Noi non
siamo genterella come questi grattaformaggi di questa vostra cittaduzza, che
russano laggiù nei pantani. Voi non avete a incaricarvi di farci dormire. Siete
voi, bella mia, che dormite e noi siamo il vostro sogno di stanotte. Io sono
venuto perché vostro fratello mi ha detto che tiene un clavecin antico, bonissimo; e perché voglio vedere se
io posso innamorarmi di Voi e se Voi potete non innamorarvi di me. Questi altri
straccioni sono del mio seguito. Ebbene, adesso si fa musica, si prendono,
bella mia, se è possibile, tre o quattro tazze di tè, non tanto forte, con
latte, Fusarin e Vostro fratello si consigliano sul ballo tiepolesco che darete,
il mio compaesano Berardini dice un altro sacco di asinate, io faccio un poco
il grazioso e sull'aurora tutto il sogno sfuma in landau verso l'oriente.»
I domestici vi perdettero il
sonno ma parve un sogno veramente. Le fiamme della luce elettrica brillarono
nella sala grande e nelle quattro minori che la inquadrano, pure dipinte a buon
fresco dal Tiepolo in onore di Omero, di Virgilio, dell'Ariosto e del Tasso.
Apparvero per le pareti i grandi corpi viventi degli eroi, superbi nelle
armonie del moto e del riposo; apparvero facce plebee di principi dai manti
pomposi, nudità carnose e calde di principesse villane, i colonnati di Aulide,
le logge di Cartagine, le tende achee, gli scogli dell'isola di Calipso e delle
Ebude, sfondi nebulosi di cielo e di mare. Successe uno strepito perché
Berardini e Chieco erano pazzi di ammirazione per gli affreschi mentre Fanelli
sentenziava, freddo e sarcastico, dietro la caramella, faceva il difficile,
notava le scorrezioni scandalose del disegno, tanto che Chieco gli diede del
"brutto macaco” e Fusarin gli saltò addosso con furore. «Cossa galo, El
diga, sor piavolo? El me lassa star sto poro vecio che a fato sti spegassi,
sala! El se contenta de scrivar settessento articoli a la setimana, co quele
game sugestive, in malora, co quel maledeto color che canta e co sete oto
"vibrante di modernità', El diga! Ti ti la ga co Tiepolo perché el fasea i
zenoci grossi e mi la go co Domenedio che te ga fato el muso roto!»
Trlin! Trlin! Trlin! Carlino
chiama col clavecin alla sala di
Omero, Jeanne richiama con la voce: «Musica, musica!». Si risponde: «Musica,
musica! Basta, basta!». Tutti corrono alla sala di Omero meno Chieco che cava
il violoncello dalla cassa.
Poiché stanno per entrare un
certo signor Bach, un certo signor Haydn, un certo signor Marcello e altri
personaggi in parrucca, spadino, calze di seta e fibbie di brillanti, sia
l'accoglienza gaia! Champagne! Fanelli brinda spiritosamente alla più vibrante
di modernità fra le dee di villa Diedo. Berardini improvvisa una tirata barocca
sulla dea Diana e beve al fratello suo divino, ad Apollo Dessalle. Chieco,
alzando il bicchiere verso l'affresco di Ulisse pensoso in riva al mare, si
offre consolatore alla dolce, triste, bellissima Calipso che vi emerge
dall'onda con le spalle e col seno ignudi, brinda a lei e alla sua sarta.
Fusarin brinda «ai veci Diedo, poarini, che a fato su sto casoto!» E Carlino,
poiché Jeanne vorrebbe proibirgli di aprire troppe bottiglie di Champagne,
brinda a lei come gendarme: «Pas à Jeanne d'Arc mais à Jeanne d'armes!».
Ed entra Bach, il dio Bach, dice
Chieco, che dà dello straccione a Carlino perché in una tale villa, con tali
affreschi, con tale clavecin, regnando insieme Tiepolo e Bach, non tiene
parrucche, spadini, giubbe ricamate, calzoni corti, calze di seta per tutti i
suoi ospiti. «Giuriamo» grida Berardini «di venire al vostro ballo così!» Si
giura e Bach incomincia il suo discorsino sereno. A una cristallina,
tintinnante vocina puerile s'intreccia una voce di vecchio nonno scherzoso,
tenero e nasuto. Chieco suona il violoncello come un semidio e Carlino fa
meraviglie sul clavecin tanto che
il collega gli dice spesso: bravo! Il delizioso profumo del Settecento
ammollisce i cuori. Jeanne sospira, Fusarin ritrova in sé veteris vestigia
flammae, si attenta di accarezzarle, di soppiatto, una mano, onde Jeanne si
alza e va, con un lievissimo sorriso traditore, a voltar le pagine a suo
fratello. Fanelli indovina e guarda maliziosamente Fusarin che si butta sul
davanzale di una finestra e incensa le stelle con il suo manilla. Berardini
fiuta un intrigo, incontra due volte, per caso, i begli occhi di Jeanne,
palpita, sogna un'avventura casanoviana. Jeanne sente il proprio fascino, ne
gode per lui al quale idealmente appartiene. E il cortigiano Bach va intorno
lusingando ciascuno con parolette dolci, con risolini blandi, s'inchina
grazioso con un colpo di tricorno al vento e si ritira. Berardini applaude
forte e subito trova modo di sussurrare a Jeanne, in francese, che non ha udito
niente, che ha veduto lei sola, che bisogna riprodurre nel ballo i personaggi
degli affreschi, ch'ella sarà Calipso e lui il mare. «L'amer?» dice Fanelli,
ficcando il naso nel dialogo. «Il l'est toujours. N'en goûtez pas!» E una
risatina. Zitto, perché adesso entra So Ecelenza el nobilomo Marcello e Chieco
richiama Jeanne.
«Bella mia, non date retta alle
asinate di costoro. A posto! E non voltate troppo presto come avete fatto
prima! E voi altri atei porci, attenti! Perché io, quando suono Marcello, credo
in Dio! Avanti! Andiamo!»
Era la quarta sonata per
violoncello e piano. Dopo un trillo del violoncello, il credente Chieco,
menando certe potenti arcate, gridò: «Questo mondo non si può sopportare!». E
su e su verso l'alto con l'onde accavallantisi delle arcate veementi.
«Senza Calipso» sussurrò Fanelli.
Infatti Fusarin, preso dalla violenza della musica, teneva su Jeanne gli occhi
ardenti, la scongiurava con gli slanci del violoncello. Il clavecin parve disadatto a tanta passione. Come poteva
Beethoven concepire le sonate senza concepire insieme il pianoforte moderno?
Carlino sostenne che la musica di Beethoven aveva creato il pianoforte moderno
come negli organismi non è l'organo che si crea la potenza, è la potenza che si
crea l'organo. Si passò a Corelli, ma Carlino era stanco, alla seconda pagina
sbagliò il tempo, si prese del ladro e dell'assassino da Chieco, il quale, dopo
due "a capo' smarrito ancora il compagno, saltò in piedi gridando: «Ci
troveremo al caffè! Ci troveremo al caffè!». Mentre gli altri amici ridevano
col reo Carlino, egli prese Jeanne a parte, le disse qualche cosa di tanto
arrischiato che Jeanne fece un atto di vivo sdegno. «Niente, niente, niente!»
si mise a gridare buffonescamente lo sfrontato uomo. «Dirò come il mio barcaiuolo
- de Venessia - quando gli domando se vuol piovere: "Gnente, gnente! La
montagna vorave ma el mar no la intende!'». E tutta la brigata passò ridendo
nella sala d'Ifigenia.
Al suono del clavecin e del violoncello, il giardiniere Çeóla,
l'ortolano, sua moglie, un paio di braccianti erano sbucati all'aperto presso
che in camicia. Si era quindi aggiunto al gruppo, sotto le finestre di Calipso,
uno straccione in tuba, un vecchio mattoide nottambulo, che tutti chiamavano el
sior Piereto Pignolo.
ì «Ciò, ti, colo storto» disse il
giardiniere all'ortolano, finita la gavotta di Bach, «ti che te frui i banchi
de le ciese e che te ghe credi a l'inferno, sti siori che gode el bon tempo
tuto el dì e tuta la note, disito che i ghe vada o che no i ghe vada a l'inferno?»
«Va là, mato! Cossa vètu a tirar
fora?» rispose l'ortolano, e sua moglie soggiunse: «Lassèlo stare el me omo che
l'è un bon omo. Vardè de no andarghe vu, a l'inferno».
«Mi? Ghe andaria volentiera,
vardè vu, per vederli andar a rosto lori. I fa compagno de le mosche, sti
maledeti, che co xe qua novembre, le fa el demonio sui veri quando che ghe bate
el sole. I sa che i la ga curta e i ghe dà dentro a più no posso.»
Zitto, musica in alto, Marcello.
«Che musica da gati! Mi torno a
cuccio» brontola l'ortolana quando il pezzo è finito. «Tasi, bestia» le dice il
marito, placido. «E mi» ripiglia lei, «che voria saver se i ghe crede, i siori,
a l'inferno! Mi digo che i ghe crede tanto cofà vu, giardiniero. E lora, capìo,
mi digo che chi sa che el Signore no li manda in malora lori e anca vualtri che
no volì saverghene de ciesa e che el ne fassa diventar siori nualtri che se
tien da Elo. Cossa diselo, Lu, sior Piereto, ch'el ga studià?»
Zitto, musica nell'alto, Corelli.
«Me par che i vada a torzio»
brontola il giardiniere, udendo le interruzioni della musica e il tempestare di
Chieco.
«Mi digo» incomincia solennemente
il mattoide in tuba quando non si ode più né chiasso né musica «che sì tuti una
manega de aseni.
Aseni i to paroni perché i te
paga ti, giardinier. Aseno ti, perché se te ghe comandavi a quel bambozzo de
quel to fiolo de ciapar le braghe de la biblioteca, lu el becava el posto
istesso e ti te podevi darme le so braghe vecie a mi. Asena vu, ortolana,
perché no capì che sì nata con un muso da brocoli e che gavì da crepar in mezo
ai brocoli; e aseno anca ti, ortolan, che te vè in ciesa e te robi poco!»
E il signor Piereto Pignolo volta
le spalle, se ne va lento e solenne verso il cancello, fendendo le ghiaie argentee
con la sperticata ombra della tuba.
Nell'uscire dalla sala di musica,
Berardini trattenne un momento Jeanne.
«Lei s'interessa per un aspirante
senatore?» diss'egli con gli occhi accesi. «Non troppo, non troppo!» rispose
Jeanne ridendo. Infatti ella s'era adoperata per il marchese Zaneto quando le
premeva il favore degli Scremin che avrebbero potuto insospettirsi
dell'assiduità del Maironi e allontanarlo, tuttora indeciso com'era, da lei.
Adesso, sicura del fatto suo, lasciava fare a Carlino che ci aveva preso gusto.
«Non troppo ma però abbastanza,
insomma» replicò Berardini. «La riuscita è possibile. Occorrono però alcune
cose. Prima, che il genero del marchese si dimetta da sindaco e abbandoni il
suo partito; o almeno, se il disertare gli ripugna troppo, che non militi più.»
«Questo è fatto» interruppe
Jeanne.
«Ah! Bene. Poi, che nel collegio
del Bresciano dove il signor Maironi ha possedimenti grandi e dove i suoi
agenti, finora, hanno raccomandato sempre l'astensione, questi agenti facciano
invece votare, nell'elezione prossima, per il candidato del Governo. Poi, che
si trovi modo di far cessare certe dicerie sulle condizioni economiche del
marchese. Finalmente, e questo preme assai perché il Governo non vuole
compromettersi troppo, che non gli sia contrario un uomo politico influente di
cui ho detto il nome a Carlino e che sarà senza dubbio fatto interpellare, con
prudenza, dal Presidente del Consiglio. Credo che a queste condizioni la cosa
si possa considerare decisa. È contenta? Posso sperare un piccolo premio?» Qui
Berardini abbassò la voce, e con un sorrisetto stupido cercò prender le mani di
Jeanne che, pronta, gli volse le spalle. Quando Chieco, nella sala d'Ifigenia,
vide l'uomo comparire alquanto mogio dietro la dama accigliata, si mise a gridare
da capo: «Paron benedeto, gnente, gnente, la montagna vorave, ma el mar no la
intende!». Ella raggiunse gli altri e si dispose a fare il thè. Carlino e
Fusarin parlarono del futuro ballo, discussero l'idea di prescrivere agli
invitati i costumi degli affreschi, di confondere nelle sale lucenti le
Ifigenie ai Rinaldi, gli Agamennoni alle Armide, i Medori alle Didoni.
Parlarono del progetto di coprire con ferro e vetro le due terrazze della
villa, di ridurre l'una a vestibolo e l'altra a buffet. Carlino non voleva
saperne dell'odiosissimo ferro, Fusarin pretendeva di poterlo dissimulare
interamente con arazzi e stoffe, lo snobino Fanelli posava qua e là nella
contesa il suo pizzico di sapienza mondana, sfoderava la sua conoscenza di sale
illustri, di grandi poeti dell'arredamento.
A Carlino piaceva solamente
l'idea degli arazzi perché ne aveva dei superbi, del Cinquecento, che a villa
Diedo non poteva collocare. Però i suoi arazzi avevano da esser diventati
seminari di batteri! C'era da prendere un malanno del secolo decimosesto! Come
disinfettarli per bene? Potrebbe la loro sublime pelle sopportare il sublimato?
«Ciò!» gridò il bizzarro Fusarin.
«E quela barbassa de quel capussin de Calcante, e quela giaca onta de quel
maledeto barbiero inzenocià col so caìn sporco in man per tor su el sangue de
Ifigenia, e tuti quei tabaroni longhi de quei prinsipi greçi co quei musi da
ciche e da cicheti, credistu, anima mia, che no i ghe n'abia dei batteri? E mi
che me piasarave, vardè vualtri, crepar da la peste del mille e sinquessento!
Saria belo, ciò! Saria novo!»
Seguì un torneo di sentenze pazze
sulla morte e sulla vita. Berardini scherzava e rideva con la più bronzea delle
facce e Jeanne durava fatica a ricordarsi ch'era in dovere di trattarlo un po'
male, tanto poco si curava di lui e tante simili audacie di sciocchi e
d'intelligenti aveva conosciute. Egli sostenne che non aveva la coscienza di
esistere, ma soltanto di parere esistente e che questo era il balsamo di tutti
i mali, di tutte le paure e gli diminuiva niente la facoltà di godere, anzi
gliel'accresceva, toglieva di mezzo o almeno riduceva a una semplice apparenza
quella diversità fra la vita e la morte che spaventa il comune degli uomini.
Fanelli prese le sue parti contro i due artisti, soli a difendere l'assoluto
con una mitraglia punto metafisica d'improperi. Jeanne ascoltava in silenzio,
attendendo al tè, ma gli occhi, le sopracciglia, la fronte, persino talvolta le
spalle, dicevano consensi e dissensi vivaci, a vicenda; più vivaci i dissensi
da Chieco e Fusarin, come se la infastidisse che proprio quei due fossero nel
torto. Fusarin se ne avvide il primo e disse sdegnosamente:
«Eh, za se sa, ciò! Go torto mi.»
«Ma certo» esclamò Jeanne accesa
in volto. «Pare impossibile! È una cosa tanto evidente che ogni nostra certezza
è una certezza solamente per noi, è una certezza relativa, e che il pretendere
di possedere qualsiasi certezza assoluta è una illusione.»
Fanelli e Berardini batterono le
mani.
«Forse ci sono» disse Carlino «e
forse non ci sono. Questa è la mia gioia, di non saperlo. Ma bada, Jeanne, tu
mi hai l'aria di riscaldarti non tanto contro Chieco e Fusarin, quanto contro
un'opposizione segreta di mia sorella, non so se m'intendi.»
Ella crollò le spalle:
«Sciocchezze!». E sorrise a Chieco che domandava una illusione di thè, mezza
illusione di latte, tre illusioni di zucchero e sei o sette illusioni di gauffrettes perché forse aveva cenato e forse non aveva
cenato alle dieci e mezzo. Fusarin, più innamorato che logico, inghiottì
rassegnatamente col thè la certezza che non vi ha certezza, e si accontentò di
brontolare a Jeanne:
«Se no La ghe xe Ela, no ghe son
gnanca mi, ciò, intendemose!»
Partirono all'alba, con grande
sollievo di Jeanne che si pose a letto mortalmente stanca ma beata di pensare
lui, lui solo, in pace.
Si domandò: sogna egli di me
adesso? E rise di se stessa, del romanticismo convenzionale che si assorbe nei
libri e ci passa nel sangue. No, egli sognava forse il Municipio o qualche
altro sogno stupido. A lei sarebbe piaciuto di sognare l'ignoto lago di
Valsolda nel chiaro di luna, una gita in barchetta con lui. Chiuse gli occhi,
cercò disporsi al sonno e a questo sogno: vedersi nella mente il lago e le
montagne di cui non aveva un'idea. Non seppe immaginare che la barchetta, le carezze,
la voce amorosa di lui; ma così non le riesciva di dormire. Allora si mise a
pensare alla fama che qualche vendicativo, forse uno dei tanti libertini
respinti, forse suo marito stesso, doveva averle fatta perché gli uomini che
non la conoscevano fossero tanto audaci con lei. E pensò pure al discorso di
Berardini, al marchese Zaneto, all'uomo politico influente che le sarebbe
piaciuto di conoscere per farlo amico di Maironi, perché gli combattesse le
tendenze socialiste che a lei dispiacevano, che le parevano pericolose, non
convenienti alla sua natura delicata e mistica, frutto di fantasia. Non un
brivido, non una lieve inquietudine le diedero segno che in quell'ora stessa il
suo amante vegliava immobile e cupo, fissando uno spettro.
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