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La marchesa Nene, vestita di
nero, curva, severa nel viso rugoso e cereo, entrò, seguita da Maironi, con la
sua grossa Filotea in mano, nella
cappella del Duomo dove aveva desiderato che si dicesse una messa in
ringraziamento della nuova luce di speranza che spuntava sul triste innominato
Asilo. La cappella era vuota, i ceri ancora spenti, l'altare coperto. Ma quando
un chierichetto venne a scoprir l'altare e ad accendere i ceri, le poche figure
nere sparse per i banchi della unica grande navata mossero verso la cappella.
Due fra le amiche umili della marchesa, piccoline, vestite di scuro, due vecchi
pretini femmine, le si accostarono: «Se consolemo che gavemo sentìo», e fatto a
Piero un lieve, contegnoso cenno del capo, entrarono nel banco di faccia. C'era
pure, per caso, l'uomo acido, uso ascoltar la messa ogni mattina. C'era la
moglie del giornalista Soldini, una bella signora dai capelli bianchi e dagli
occhi vivaci, che salutò la marchesa ma con discrezione, senza accostarlesi.
C'erano finalmente due vecchie accattone. Ultimo entrò nella cappella con passo
cascante e con viso modesto un omino grigio dal zimarrone vasto, l'omino
potente sui destini di Zaneto Scremin e di molti altri, il Commendatore. Miope,
non si avvide a prima giunta della marchesa né di Maironi, né della Soldini, né
dell'uomo acido, tutte persone a lui note. Si sarebbe umilmente inginocchiato
sul gradino di un confessionale se la Soldini per un ossequio spontaneo e le
accattone per un ossequio meditato non si fossero affrettate a fargli posto. La
Soldini gli sussurrò che a messa finita gli avrebbe chiesto un minuto di
udienza fuori della chiesa, ciò che fece rannuvolare la fronte e inasprire la
guardatura del prossimo uomo acido, il quale meditava pure di afferrare il
Commendatore all'uscita della chiesa, per certi suoi fini profani. Il
Commendatore s'inchinò alla signora con un mite sorriso di assenso. Soltanto a
messa inoltrata gli venne il sospetto che l'uomo ritto in piedi presso la
vecchia signora dal viso rugoso e cereo fosse Piero Maironi. Ne fu così
durevolmente distratto che poi se ne giudicò reo di colpa veniale attenuata
dalla bontà del movente; perché l'ex-sindaco gl'ispirava
molta simpatia, gli sarebbe piaciuto che s'avviasse per un cammino migliore,
gli sorrideva di aiutare a porvelo e ora compiacevasi molto di vederlo in quel
luogo e in quella compagnia, pensava qualche pretesto per parlargli dopo la
messa, qualche modo di tenersi in comunicazione con lui.
Piero aveva cercato per
tempissimo della suocera, volendo sapere che avesse veramente detto il medico
dello Stabilimento. Arduo problema con una informatrice impacciata e tarda
nella lingua come la marchesa; tanto più impacciata e tarda quanto più
combattuta dal dovere di dire la verità e dal desiderio di non dirla intera.
Ell'avrebbe voluto che Piero si accontentasse delle parole scritte
dall'inferma, che ne godesse, che non curasse di sapere altro; e a tutte le sue
domande rispondeva annaspando, annaspando, per metter poi fuori sempre da capo,
sempre con rinnovato desiderio e sollievo, quel pezzetto di carta.
Esperto di lei, delle sue vie
mentali coperte e delle coperture caotiche, Piero comprese che il barlume di
coscienza balenato nella parola dolorosa doveva essere svanito subito. Poi la
suocera gli aveva detto con il suo apparente candore: «Andemo che xe ora», come
se non sapesse delle nuove abitudini di Piero, il quale da Praglia in poi aveva
rotto, per un sentimento di fiera lealtà, con tutte le pratiche. E la marchesa
lo sapeva. Colto all'improvviso, Piero non seppe trovare lì per lì un pretesto
di scusarsi, non osò ferire la vecchia signora che in cuor suo, malgrado tutto,
venerava, e l'accompagnò in Duomo.
Stanco della lunga veglia, delle
angoscie patite nella immaginazione, aveva pieno il capo di sonno, di stupore e
di tedio, il cuore intorpidito. Anche la passione vincitrice taceva in lui,
come spossata. Non sentiva che uggia di sé, del luogo sacro, di doverci stare a
forza. Gli davan fastidio le occhiate bieche dell'uomo acido, le facce compunte
dei devoti stupidamente prostrati, come a lui pareva, ciascuno davanti a un
piccolo specchio, guardandovi un piccolo Iddio della propria mente. Gli dava
fastidio l'idea che quelle vecchiette e la signora Soldini e il Commendatore
facessero in cuor loro, secondo era probabile, commenti alla sua presenza nella
chiesa. Persino il devoto pregare della suocera gli pareva un eccessivo
sdilinquimento. Mentre s'inacerbiva così contro tutto e contro tutti, cedendo a
un soffio demoniaco di perversità, entrò nella cappella, a passo lento,
preceduto dal chierico, il celebrante. Piero riconobbe don Giuseppe Flores. A
questo incontro non si attendeva e ne fu seccato. Avrebbe preferito un
pretoccolo antipatico. Non gli era possibile di riversare anche su don Giuseppe
il fastidio, il disprezzo di cui era tutto amaro; e guardare quel viso con
desiderio di luce e di pace come l'aveva guardato un giorno là nella villa
solitaria, non voleva, non poteva più. Nemmanco poteva, però, chiuder gli
orecchi alla voce grave e dolce che gli riconduceva le memorie della solitudine
pastorale intorno alla villa silenziosa, dello stanzino, del colloquio sul
canapè rosso, delle parole sante, delle sante labbra posateglisi un momento sui
capelli. Se durante le tentazioni antiche la sua volontà si annientava per non
consentirvi né perderne la dolcezza, adesso gli avveniva di non poter cacciare
da sé, per una simile paralisi della volontà, quelle imperiose memorie moleste.
Non poteva non aderire col senso alla voce dolce e grave, non poteva non
aderire colla mente alla visione di don Giuseppe seduto accanto a lui sul
canapè rosso, pieno la gran fronte, gli occhi accesi e calda la parola di
Spirito Santo. Così, udendo la voce del celebrante, contemplando le immagini
della propria mente, incominciò a sentirsi in fondo alla gola e più giù verso
il cuore un dolor sordo simile al dolore che sotto una pressione fissa
lentamente si genera, dilata e profonda. Era un dolore anche muto, non diceva
la propria origine, la propria natura, si dilatava e si sprofondava, era
tormento, e anche spossatezza amara, impazienza della Forza fissa e premente.
Quando il celebrante incominciò
la lettura del Vangelo, Piero, avvinto al suono e non al senso delle parole,
sentì un mutamento del suono.
Nel dir le parole di Gesù, il
celebrante si congiungeva in ispirito a Gesù con amore e tremore. Il sentimento
del suo alto ministero, il sentimento della sua indegnità, il soverchiar del
divino, nel suo petto, sulle forze umane; tutto diceva quella voce, non
colorita nell'esterno ma penetrata d'anima e quasi ansante. Piero non poté a
meno di volgere il capo a guardar la solennità umile del noto viso antico,
sentì che il suo malessere interno si trasformava in un cupo ribollimento, in
una commozione violenta, n'ebbe terrore, s'irrigidì contro se stesso con tutto
il nerbo della ridesta volontà, si rifece dentro il silenzio. E per non
ricadere pensò a Jeanne, pensò che forse in quel momento ella usciva dal letto,
riuscì ad accendersi la mente di un fuoco piuttosto lascivo che amoroso, quale
non lo aveva bruciato ancora stando egli con Jeanne o pensando a lei; quale un
esperto medico di anime avrebbe giudicato indizio di passione declinante. In
quella cupida fiamma il tedio, il malessere e insieme anche le immagini
suscitate dalla voce di don Giuseppe, tutti i germi vitali dell'anima, subito
arsero.
Uscirono di chiesa in un gruppo,
la Scremin tutta sorridente e pacifica, Maironi accigliato, la vivace signora
Soldini pronta nel viso a parole che già le sfuggivano dagli occhi, il
Commendatore modesto e mansueto. Quest'ultimo, riverite ossequiosamente le
signore, disse a Maironi con un sorriso tra benevolo e scherzoso, con
un'artificiosa peritanza nel metter fuori la facezia come se fosse arrischiata
molto:
«Adesso che Lei è in
disponibilità... in disponibilità... si lasci vedere, si ricordi degli umili e
dei derelitti. Ho a dirle qualche cosa ma con tutto il Suo comodo. Oggi vado a
Roma. Ritorno lunedì, non della settimana ventura, della successiva; lunedì fra
le quattro e le quattro e mezzo, se crede, mi trova certo.»
La marchesa e il genero si
allontanarono subito. La Soldini, infocandosi a un tratto di commozione,
domandò al Commendatore se avesse notato il pallore cadaverico di Maironi. E la
marchesa, invece, che aria serena! Era un vero enigma, quella marchesa! Gli
amici di casa Scremin dicevano "virtù'. Santo cielo, una virtù troppo
simile al gelo! Siccome al Commendatore, il quale non aveva poi notato né
pallori, né arie serene, questo non necessario giudicar veemente di sentimenti
altrui non pareva andar troppo a genio, e non gli uscivano di bocca che
monosillabi stentati, così la signora mutò discorso e gli disse ridendo che le
rimordeva di esser venuta in Duomo quasi più per incontrar lui che per udirvi
la messa. Suo marito desiderava di parlargli e gli faceva chiedere quando
avrebbe potuto riceverlo. Il Commendatore rispose, forse non tanto
cordialmente: «Con piacere, con piacere». Si fermò sui due piedi, aggrottò le
ciglia per un soliloquio in parte mentale, in parte espresso, per un calcolo di
giorni, di ore, di sedute, di convegni, di elementi certi, di elementi
probabili, di elementi possibili, dal quale ricavò, dopo qualche tentennamento,
che avrebbe ricevuto il signor Soldini alle tre e tre quarti dello stesso
lunedì indicato a Maironi, ossia venticinque minuti dopo il suo arrivo da Roma.
Detto ciò, fece un inchino umile,
piantò in asso la signora che non se l'aspettava e ne rimase un po' male.
L'uomo acido il quale aveva gironzato al largo non senza rabbiosi moti di
sopracciglia e di mandibole, gli si fece subito incontro.
«Son qua» gli disse il
Commendatore. Ma intanto qualcuno gli sbucò alle spalle dall'imboscata di un
chiassuolo, gemendo: «Comendatore, me racomando! Son Bisata, Comendatore; quelo
che sona el pelittone in mi. Sperava tanto in tel sindaco Maironi, per
la banda. Adesso i dise che lo farà sindaco i liberali. Me racomando una So
paroleta, Comendatore!». L'uomo acido gli intimò così bruscamente di levarsi
loro dai piedi che il buon Commendatore, tutto turbato al veder Bisata volgersi
fosco verso l'interruttore, gli cacciò in mano dei soldi e lo congedò più
benignamente che poté: «Va là, caro, va là». Ma ecco un'accattona flebile. «Lo
go spetà tuta la messa, benedeto! S'el gavesse delle scarpe vecie!» Nuove
escandescenze dell'uomo acido: «A sì una dona e ghe dimandè le scarpe a lu?».
Nuovi allarmi, nuovi soldi e miti consigli dell'ottimo Commendatore. «Va là,
cara, va là!» Finalmente l'uomo acido poté avere il suo colloquio promessogli
in chiesa, nell'uscire dalla cappella. Era un accattone anche lui, chiedeva una
rivendita di sale e tabacchi per certa sua parente a corto di quattrini. E
chiedeva per sé aiuto in una questione col Ricevitore del Registro. «La lo
fazza far cavalier quel fiol d'un can! Chi sa ch'el deventa più molesin!» Il
Commendatore ascoltò tutto con santissima pazienza, chiese notizie, diede
consigli, riprese sorridendo le escandescenze, scusò il R. Ufficio del Registro
e venne finalmente a un quia che
certo gli premeva. Domandò in tono scherzoso a che punto fosse la crisi
municipale. Che stava per succedere dopo le dimissioni del sindaco? L'uomo
acido si meravigliò delle domande. Non aveva il Commendatore udito le
rivelazioni strepitose dell'illustrissimo sior Bisata? «Ah ta ta ta!» fece il
Commendatore come un altro marchese Zaneto. «Mi dica Lei, sul serio!» Qui
l'uomo acido, fiutato un pericolo nello scandagliare del Commendatore e visto
il marchese Scremin mover loro incontro, come evocato da quel "ta ta ta',
con una faccia pregna di parole pronte, esclamò che adesso il Commendatore
aveva faccende e «servitor suo, servitor suo» lo piantò malgrado i richiami
ufficiosi dello Scremin.
Anche il marchese accattava un
colloquio per accattare altre gravissime cose, ma il Commendatore non lo poté
accordare lì per lì e lo rimandò alle cinque di quel famoso lunedì. Colui parve
un po' seccato dell'indugio, avrebbe voluto parlare all'omino prima ch'egli
partisse per Roma e non dopo. Intanto i due, passo passo, erano giunti al
palazzo del Commendatore. Un vecchio domestico stava sull'entrata confabulando
con un fattorino postale che subito mosse incontro all'umile onnipotente e gli
porse, sberrettandosi, una carta. «Il pro_memoria per mio figlio, Commendatore.
Mille grazie.» Mentre il Commendatore pigliava la carta col solito sorriso
benigno, il domestico gli annunciò che lo aspettava nell'anticamera del suo
studio il signor Ricciotti Çeóla; e perché il padrone, non conoscendo il
soprannome del Pomato, pareva non raccapezzarsi, soggiunse: «Pomato, quel de la
Biblioteca, ghe dirò».
All'udire il minaccioso nome, il
Commendatore ritirò il capo fra le spalle, chiuse gli occhi, arricciò il naso e
soffiò «pff!» come se avesse immaginato la puntura di un ago rovente nella
parte più delicata del proprio individuo.
Pensò un poco e poi commise al
domestico di riferire al signor Pomato che adesso il padrone doveva recarsi in
Biblioteca e poi partire per Roma. «E se il signor Çeóla» insistette il
domestico «volesse sapere...» Ma intanto il padrone trottò via senz'altro verso
la Biblioteca.
Trottò via con la segreta
speranza di liberarsi anche dal marchese al quale non poteva promettere alcun
balsamo per il suo ulcus senatorium. Lo Scremin, tagliato presso a poco
sulla misura del Commendatore, però alquanto più vecchio, allegando di aversi a
recare in Biblioteca egli pure, pigliò lo stesso trotto e parve una pariglia
sconnessa mostrata in fiera.
«Avrei tante cose a dirti»
cominciò il ronzino arrembato di sinistra, ansando, sulla scala della
Biblioteca. «Sarà per lunedì. Intanto ti raccomando...» Qui, usando il
linguaggio insolitamente ellittico e rotto cui lo costringevano la trottata e
la scala faticosa, nominò il ministro formidabile al quale avrebbe voluto
invece venire raccomandato lui.
«Anche l'affare Dessalle»
soggiunse prima di entrare nella stanza del bibliotecario. Il Commendatore fece
un impercettibile segno di sorpresa. I Dessalle avevano ereditato dal padre
certa lite con un piccolo Stato americano e ottenuto due sentenze favorevoli,
ma non erano ancora riusciti a farsi liquidare il credito. La faccenda era
entrata nelle vie diplomatiche e occorreva che alla Consulta non dormissero.
Tempo addietro, prima dell'incontro di Praglia, Carlino ne aveva fatto parlare
al Commendatore dal marchese Scremin, e il Commendatore s'era adoperato a
favore dei Dessalle in Roma con il solito caritatevole zelo a cui ogni specie
di prossimo più lontano traeva elemosinando. Divulgatesi poi le voci scandalose
su Maironi e la signora Dessalle, la marchesa Nene, pur tacendo con tutti le
proprie angoscie, aveva opposto un tale contegno alle effusioni affettuose,
alle pressanti cortesie di Jeanne, che Jeanne non aveva osato insistervi; e il
Commendatore, un grande silenzioso cinto d'informatori minuti, sapeva tutto
ciò. Adesso, all'udire la nuova raccomandazione del marchese per l'affare
Dessalle, ebbe un sorriso interno di spettatore savio delle debolezze umane;
perché sapeva pure che a favore di Zaneto erano in giuoco presso il ministero
influenze mosse da casa Dessalle. Zaneto divinò e parò la frecciata invisibile.
«In verità» diss'egli,
«nell'interesse della città non dovrei farti questa raccomandazione, perché se
i Dessalle ottengono quello che domandano, si tratta di milioni, non mi pare
possibile che abbiano a restare qui e per la città sarebbe una perdita.»
Pareva un capolavoro di finezza
questa risposta, e lo era, ma sincero; era il capolavoro di una coscienza
industriosa e non d'industriose labbra. A furia di ragionare col marchese
scrupoloso del lobo cerebrale destro, il marchese dottor sottile del lobo
cerebrale sinistro lo aveva persuaso che facendo al Commendatore la
raccomandazione Dessalle in ordine al meditato fine principale di allontanare
Jeanne da suo genero, si potevano accettare in pace i benefizi accessori che ne
venissero naturalmente, come l'appoggio dei Dessalle per ottenere al modesto
panino Zaneto un posto sulla pala ministeriale delle infornate.
«Bene bene, addio addio» fece il
Commendatore, lottando asceticamente dentro di sé con il proprio buon giudizio,
non riconoscendolo, scambiandolo, causa l'andatura affrettata, per un giudizio
temerario.
Egli si
recava in Biblioteca per sollecitarvi certe ricerche nell'interesse di certe
persone pratiche e di altre persone poetiche: di persone che gli avevano
chiesto aiuto per comprovare il possesso legittimo di qualche decima e di
persone che gli avevano chiesto aiuto per comprovare il possesso legittimo di
qualche titolo nobiliare.
«Mi dica la santa verità» esclamò
il bibliotecario mezzo infastidito, «vengono anche le balie a spasso da Lei,
per raccomandarsi?»
«Anche anche anche! Sissignore sissignore sissignore!»
E il Commendatore raccontò che
proprio allora era venuto a casa sua il signor Ricciotti Pomato.
«Lei vuol dire Çeóla?» fece il
bibliotecario. No, il Commendatore non chiamava mai la gente con nomignoli,
specie se ridicoli. Pomato usque ad finem. Come andava quella faccenda
di Pomato, dunque?
«Uh, l'affare si fa grosso»
rispose il bibliotecario. «Finiremo prima noi di rimettere in piedi un esercito
di decime cadute in deliquio e di fabbricare un altro esercito di conti e di
contesse, che il Municipio di allestire un paio di brache miracolose che vadano
egualmente bene a un Prefetto, a un deputato, a un senatore, a Quaiotto e a
Ciotti Çeóla.»
E proseguì narrando che quella
stessa mattina, molto per tempo, gli era pervenuta in casa una Nota municipale,
sottoscritta dal dottor Záupa, con l'ordine di non ammettere il Pomato all'esercizio
delle sue funzioni fino a che non si presentasse in uniforme. Çeóla era venuto
all'ora solita, aveva fatto una scenata e annunciato che si sarebbe
immediatamente rivolto al Prefetto per far mettere a Záupa e Comp. il capo a
partito. La Giunta si doveva riunire alle tre per deliberare ufficialmente
circa le dimissioni del sindaco. Qualcuno andava dicendo che la crisi
municipale sarebbe terminata come la crisi della luna, ma il Bibliotecario,
considerato l'ordine draconiano "o brache o morte' che tagliava i ponti
fra sindaco e colleghi, non lo credeva. Del resto alcuni pezzi grossi della
maggioranza, alcuni Cai, come venezianamente diceva il Bibliotecario, si
erano raccolti la sera prima, forse per contemplare l'eclissi, forse per altre
ragioni, e avevano chiamato a sé il giornalista Soldini. Siccome il Soldini è
temperatissimo e in relazione col sindaco, si è creduto da taluno che i Cai volessero aprire trattative di pace.
«Ma se il sindaco torna pregato»
ragionò l'acuto bibliotecario, «vuole che ceda sull'affare delle brache? E se
non cede, che figura ci fa il buon Záupa? Mo!»
Qui il Bibliotecario sorrise,
fissò il suo interlocutore con un reiterato sobbalzare della persona che
significava il complicato garbuglio di problemi da sciogliere, e conchiuse: «Vedrà
che Soldini verrà da Lei».
Il Commendatore osservò ch'egli
non c'entrava. Pensò in pari tempo, con un visibile malumore, al colloquio
chiestogli dalla signora Soldini per suo marito. Aveva sperato, sulle prime, che
il Soldini desiderasse parlargli per interessi suoi personali.
Lo conosceva per un logico acuto,
per un politico fine, per un carattere rigido, dissimulato sotto maniere
squisite e sotto molta tolleranza non delle opinioni avverse, ma delle persone
che le professavano. Gli avrebbe reso assai volentieri un servigio personale
che sarebbe stato il primo; trattare con lui di cose pubbliche gli garbava
meno, alieno com'era dall'affrontare certe rigidezze inflessibili anche fuori
di quei convincimenti sostanziali nei quali era egli pure inflessibilmente
rigido.
«Vado poi anche a Roma oggi»
diss'egli rasserenandosi nella speranza che una lunga necessaria dilazione del
colloquio lo facesse sfumare.
Allora il bibliotecario lo pregò
di non partire senz'aver parlato con uno degli assistenti distributori; suonò
il campanello per farlo venire e sussurrò, ridendo, fregandosi le mani: «Una
balia!» mentre l'assistente s'inoltrava timidetto, rispettosetto.
«Scusi, signor Commendatore, Lei
è presidente della Giunta di vigilanza dell'Istituto tecnico.»
«Sì.»
«Ho udito dire che viene un
professore nuovo.»
«Sì.»
«Ecco, perché avrei una camera da
affittare, se volesse dirgli una parolina!...»
Il Commendatore se la cavò come
poté e l'altro annunciò al bibliotecario che il marchese Scremin chiedeva di
parlargli quando fosse libero.
«Parlarmi! Non vorrà mica soldi,
spero!» Il Commendatore trasalì. Quattrini? Perché? Andavano male gli affari di
casa Scremin? Male, male; proprio adesso che sua figlia guarisce. Guarisce? Ma!
La notizia del giorno, nella sagrestia del Duomo, era questa. Guarisce, viene a
casa fra pochi dì.
Il povero Commendatore che aveva,
nella sua grande bontà, viscere particolarmente affettuose per tutti i nati
dentro la cerchia delle mura cittadine e anche nei borghi e anche oltre il
selciato, in quelle terre suburbane del Comune dove non era giunto l'affetto di
antichi pubblici benefattori, se ne andò tutto rannuvolato per l'intravvista
rovina di una illustre famiglia della sua patria e crucciato nella coscienza di
rattristarsi troppo della rovina e di rallegrarsi troppo poco della guarigione
annunciata. Forse non era vero, ma se fosse vero, altro che Senato, altro che
Senato! Presso a casa lo raggiunse arrancando un ometto in occhiali, un acuto e
onesto dottor di leggi, sempre febbricitante per nobili emozioni politiche o
amministrative, del tutto platoniche.
«Dunque, Commendatore, il
Prefetto se ne va?»
«Non lo so.»
«Ma se la gente dice che lo fa
traslocare Lei?»
«Io?»
«Sissignore, perché il Prefetto
vorrebbe arrivare allo scioglimento del Consiglio comunale e Lei no.»
E l'ometto rise d'un grosso riso
per dare all'aspetto del proprio dire quel gaio e quel morbido che serve a far
inghiottire altrui parole piuttosto durette e amarognole nella midolla.
ì «Sa cosa?» replicò il Commendatore, molto
seccato. «Io faccio come la luna: mi eclisso!»
E sparì nel suo atrio.
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