-2-
Don Giuseppe Flores pregava nella
chiesina della sua villa, solo, immerso in una doppia visione. Gli avveniva
spesso, sui sentieri del suo colle, di sostare meditando le profondità di Dio e
insieme contemplando la bellezza magnifica e pia delle cose. Così adesso il suo
pensiero si affisava nell'eternità santa, imminente, alta, oscura sopra la
visione distesa della sua lunga vita arrovesciata per modo da mostrare la
faccia interiore come la sola che valesse. Non ne vedeva il gran bene irradiato
a tante anime per vie nascoste alla sua stessa coscienza, senza opere, senza
espresse parole di consiglio e di ammaestramento, solo con l'aura dell'essere
suo puro, umile, pieno di Dio. Ci vedeva infiniti torpori, miserie, inerzie e
persino mollezze, egli, austero a sé circa i desideri del corpo quanto mite
agli altri. Ci vedeva tracce di morti affetti inutilmente dati a fantasmi
d'illusione e svaniti con essi, e di altri affetti dati con troppo ardore a
cose terrene, persino alla casa dove stava pregando, agli alberi del colle, ai
fiori del giardino. Ci vedeva, come ombre di tristi vuoti, le perdute occasioni
di opere buone e sminuite le opere buone dall'assenza del sacrificio,
dall'obbedir fiacco al divino impulso, da compiacenze caduche del bene operato,
se non viziose neppur virtuose. Vedeva tale la intera sua vita e non gliene
veniva tristezza nella preghiera, ma tenero fervore. Segreto premio di quel suo
riferire a Dio tutto il bene fattosi manifesto in lui e invece a sé tutte le
lacune del bene, era una intima gioia di affidarsi povero alla Misericordia
Infinita, di sentire Iddio con tanto maggior tenerezza di amore quanto più si
riconosceva indegno. Quando per effetto della naturale, comune debolezza umana
gli si allentava la tensione dello spirito e altri pensieri lo traevano
inconscio con sé, erano pensieri della famiglia sua che intera lo aveva
preceduto nel mistero, parte per manifeste leggi di natura, parte per occulte
leggi di sventura. Anime austere, anime gaie, anime tranquille, anime ardenti,
erano tutte passate sulla terra con la fiaccola della fede, tutte partite con
il presidio soave di Cristo; e nella semplice chiesina modeste lapidi ne
ricordavano i nomi. Don Giuseppe aveva amato i suoi del più vivido amore, li
aveva pianti appena con qualche rara lagrima tutta santa di affetto alla Divina
Volontà. Ora la sua mente si perdeva dietro care figure use tener sempre nella
chiesina lo stesso posto. Si perdeva nella memoria del viso, degli abiti, delle
attitudini, dei saluti sommessi nel luogo santo. Allora il senso del silenzio,
del vuoto presente lo richiamava alla triste realtà e alla preghiera. Quindi
gli s'infondeva nella preghiera un'aura delle persone nascoste ai viventi, un
vago rimpianto di non averle forse appagate in qualche loro desiderio innocente
né ben taciuto, né ben detto, di non avere sufficientemente aperto loro le vie
a qualche confidenza difficile, di non esservi ritornato il primo quando,
aperta la via, ciò sarebbe stato bene. E da quest'ultimo ricordo trapassò
senz'avvedersene, mentre la bocca pregava e pregava, all'altro del colloquio
con Piero Maironi, del quale aveva udito poi cose tristi senza tentare alcuna
mossa di soccorso.
Il trotto di due cavalli e ruote
correnti suonarono sulla via davanti alla porta maggiore, chiusa, della
cappella. Don Giuseppe udì trotto e ruote svoltare nel cortile della villa.
Poco dopo il domestico venne ad annunziargli la marchesa Scremin.
Egli uscì a incontrar la marchesa
sulla gradinata che sale dal cortile alla villa. La vecchia signora, nobilmente
vestita di nero, un po' più magra, un po' più rugosa e cerea del solito, si
affrettava sugli scalini faticosi per ossequio al vecchio prete che alla sua
volta, per ossequio a lei, si affrettava sulla discesa malfida. Don Giuseppe
non osava né ringraziare né mostrar letizia per una visita ch'era presuntuoso
attribuire a semplice cortesia e non temerario, pur troppo, attribuire a
qualche cagione poco lieta. La marchesa gli aveva parlato, in città, di certa
iscrizione da far incidere in una medaglia, l'aveva pregato di dettarla, di
commetterne il lavoro all'artefice; ma non era possibile che fosse venuta per
questo.
Dal canto suo la marchesa pareva
infervorata a coprire il fine della sua venuta con un arruffìo di frasi mozze e
incongrue, di complimenti sull'aspetto florido del vecchio, del suo giardino,
sulla bellezza del laghetto giallognolo, ingrossato dalle piogge recenti, e di
certe oche, sue tronfie navigatrici; le quali la condussero a parlare delle
anitre che teneva lei e dei taglierini al brodo di anitre e dei gusti di Zaneto
cui non piaceva l'oca. Don Giuseppe sorrideva, non sapendo che dire, secondava
con qualche blando monosillabo quella parlantina disordinata e nervosa che
finalmente, quando la povera signora sedette stanca sul canapè della sala, si
spense. Allora toccò a don Giuseppe di parlare, di chieder notizie del
marchese, e poi, con voce sommessa, esitante, anche dell'altra persona per la
quale aveva celebrato pochi giorni prima, in Duomo.
Una tristezza quieta comparve sul
viso squallido della povera vecchia. «Ma!...» diss'ella. «Ecco!...» Non
soggiunse parola e, durante il silenzio lungo che seguì, due lagrime le spuntarono
negli occhi. Don Giuseppe sospirò accorato e chinò il viso riverente davanti
alla grandezza recondita di quella creatura umile dalle parole incomposte, che
celava il suo inesplorabile dolore, curva e mansueta sotto l'impero amaro della
Divina Volontà.
«Sofferenze, don Giuseppe»
diss'ella finalmente. «Ecco... sì, già, sofferenze; e nessun vantaggio... Ma
già, quasi quasi...» Tacque e gli occhi le brillarono ancora di pianto. Don
Giuseppe credette intendere il suo pensiero; ella non desiderava, quasi, che
sua figlia guarisse, che sapesse, che vedesse. Parve che la marchesa non
dubitasse di essere stata intesa, perché senz'aver proferite le parole amare le
confermò con un «proprio!» pieno di dolore, di severità e di disgusto. Diceva
tutto, quel proprio; e don Giuseppe fece il gesto di chi vorrebbe pur
contraddire e non sa. "Possibile' pensò, "recar tale afflizione a una
povera, santa creatura sventurata come questa!' Mansueto alla fragilità umana,
si astenne da giudizi più acerbi di così; ma la faccia dilettosa della passione
colpevole mai non gli era parsa meno lusinghiera, né più spiacente l'altra
egoistica sua faccia crudele.
«Eppure» diss'egli, «quel giorno
in Duomo l'ho veduto nella cappella con Lei...»
Più dal volto che dalle
avviluppate risposte della marchesa don Giuseppe capì che se quel giorno il
contegno di Maironi era stato buono, nulla di mutato appariva nelle sue
relazioni con la Dessalle. L'eloquio della marchesa era sempre difficile, ma
poi a nominare non che a descrivere le passioni illegittime le mancavano
addirittura i vocaboli o almeno essi le bruciavano le labbra e nessuno ne aveva
mai udito da lei.
Devota religiosamente al marito
dal dì delle nozze, professava nel cuore il più duro disprezzo per le colpe di
amore, non avendone conosciuta mai la tentazione, non avendo saputo mai,
neppure al tempo della sua florida giovinezza, che fosse immaginazione. Al suo
sesso era più severa e severissimamente giudicava Jeanne benché non con parole,
ché ne la tratteneva un alto senso di dignità signorile. Nel nominarla,
nell'alludere a lei, si faceva tetra in viso e la sua voce si coloriva della
stessa ombra; niente altro. Agli uomini era meno severa perché, secondo una
delle sue massime piuttosto ferree che auree, li credeva tutti per lo meno altrettanto
sedotti quanto seduttori, non ammetteva che alla vera virtù femminile alcuno
ponesse assedio. Però, se giudicava Piero un sedotto, neppure le veniva in
mente che la lunga separazione dalla moglie potesse scusarlo né poco né molto.
Chi gliel'avesse detto non sarebbe riuscito che a nausearla e a perdere la sua
stima.
«Io lo tratto sempre» diss'ella
«come se non sapessi niente. E così parlo di lui agli altri: questa è la mia
regola».
Infatti in città chi rideva, chi
sorrideva, chi si rattristava pietosamente di certe ingenue frasi della
marchesa in lode del genero.
«Ho anche pensato» soggiunse con
infiniti stenti, «sì... non so... ecco, sì, tante cose... tante piccole cose...
tanti piccoli mezzi... sì, non so... m'intenda, don Giuseppe!»
«Sì, sì, eh sì» fece don Giuseppe
che non aveva inteso niente, cercando d'indovinare o almeno di aiutare con una
spinta spirituale.
«Ecco, questo!» ricominciò la
vecchia signora; e si pose a dire e non dire, nel suo inimitabile stile, le
fini trame ordite da lei intorno al genero, finora invano, per tirarne quindi a
sé tutte le fila e staccarlo dalla Dessalle. Piero si era sempre occupato
pochissimo delle proprie faccende, affidate prima al marchese Scremin, cattivo
amministratore anche lui, e poi ad agenti. Il grosso patrimonio gli rendeva
assai meno del ragionevole. Prima della malattia di sua moglie la suocera gli
era sempre ai fianchi col pungolo delle campagne da visitare, degli agenti da
sorvegliare, dei registri da esaminare. Poi lo aveva lasciato in pace. Appena informata
del pericolo di villa Diedo, si era accinta ad un occulto molteplice lavoro. La
sostanza stabile di suo genero, tutta nella provincia di Brescia, era
amministrata da un vecchio ragioniere che veniva di tempo in tempo a conferire
con Maironi come prima aveva conferito col suo tutore Zaneto. Persona proba e
devota al nome Maironi, costui non aveva taciuto a Piero in passato la propria
opinione che il miglior partito di provvedere ai suoi interessi fosse anzi
tutto quello di prendere dimora nella stessa loro sede principale: discorso
ingrato, in quel tempo, alla marchesa, e che le aveva fatto prender l'uomo in
uggia.
Più tardi, simulando
preoccupazioni sue proprie circa gli affari del genero, la vecchia signora fece
dire da un amico di casa al ragioniere che quanto più egli insistesse per
attirare Maironi a Brescia, tanto più si renderebbe gradito; e in pari tempo,
conoscendo non in tutto ma in parte gl'imbarazzi finanziari di Zaneto, cominciò
a insinuargli che sarebbe opportuno di mutare dimora, che lontano dai parenti e
dai conoscenti certe economie sarebbero riescite più facili, che l'Elisa
avrebbe preferito, ritornando in famiglia, un soggiorno dove non fosse tanto
conosciuta. Il sindacato di Piero era un enorme macigno nella sua via. Appena
saputo della crisi e ringraziatone Iddio nel suo cuore, ebbe spavento dei
paceri che si sarebbero interposti fra il sindaco e i suoi colleghi, pensò
all'uomo acido e senza fiatarne con lui gli fece dire all'orecchio ch'era
impensierita dallo stato degli affari Maironi, che considerava la crisi una
vera fortuna per suo genero, né sarebbe affatto riconoscente a chi cercasse di
mettere pace nel Municipio: un modo questo di aizzar l'uomo a spruzzar il suo
acido con zelo anche maggiore del solito. Al genero aveva parlato due volte
degl'imbarazzi economici nei quali si trovava impigliato il marito. La prima
volta gli aveva fatto balenare con placidezza quasi scherzosa la sua idea: un
giorno o l'altro, caro te, andiamo tutti a star a «cossa xela», intendendo
Brescia. La seconda volta era stata più ardita e più assurda, aveva parlato di
vender palazzi e poderi, di andar a vivere a Brescia, in casa di Maironi: «E se
no te voli vegner ti andaremo noaltri pori veci».
Nel dire e non dire, a modo suo,
tante sottili fila di artifici santi, le ingarbugliò siffattamente che a un
certo punto don Giuseppe non ne aveva capito nulla ed ella stessa vi si era
avviluppata dentro a segno da togliere al suo interlocutore ogni speranza che
potesse uscirne. Ella continuò invece senza scomporsi il suo discorso rotto e
oscuro peggio che mai, annaspando, annaspando, spremendosi dalla gola parole
che cozzavano insieme, ferma in qualche idea recondita della sua mente, cui
pure voleva dire e non dire. Don Giuseppe si fece un po' inquieto. Lo stesso crescente
annaspare della marchesa dentro a tenebre sempre più fitte e il lampo di
qualche "bisognerebbe' gli diedero l'idea di un disegno chiaro nella mente
di lei che, per abitudine, non metteva mai fuori il suo pensiero intimo alla
prima, e l'idea ch'ell'avesse assegnato un cómpito anche a lui, un cómpito non
facile, non rispondente al reale poter suo. La marchesa venne a questa
conclusione tanto più paurosa quanto più inattesa: «Capisce, don Giuseppe, quel
che m'intendo?»
«Eh!» diss'egli, nella sua
riverenza; e tacque. Poiché il silenzio si prolungava, riprese imbarazzato:
«Ecco, forse, tutto no».
La marchesa ebbe un triste
sorriso di preghiera: «Bisognerebbe che parlasse Lei, don Giuseppe». Parlare a
chi? Don Giuseppe, dopo essersi passata replicatamente la mano sulla fronte
come per pulirsi e liberarsi d'una preoccupazione molesta, si arrischiò a
domandarlo.
«Ecco» rispose la marchesa,
«intanto a Zaneto.»
Don Giuseppe tentennò, storse un
poco la bocca. La marchesa ricominciò paziente, stavolta molto meno nebulosa,
il suo dire e non dire.
«Ecco, mi no so. Lu ga in mente
sto Senato. Una fissazion, ghe digo mi. Metemo che i lo fazza, che no credo.
Cossa vien fora? Spese.»
Qui la marchesa espresse come
poté una sua particolare amarezza. Zaneto mendicava raccomandazioni in quella
casa! «Lu el dise che così se fa capir che no ghe xe gnente de male, ma mi digo
che no ghe andaria.» E ritornò alle spese. Parlò degli imbarazzi del marito.
Tutto per soverchia bontà «perché lu carità, perché lu tegner afituali che no paga,
lu questo e lu quelo.» Guai se non avesse messo lei un po' di freno a tante
larghezze! Adesso veniva il peggio.
Un galantuomo innominato, «un
berechin, ghe digo mi», aveva soffiato nell'orecchio di Zaneto che non lo si
creava "cossa xelo', ossia senatore, per la cattiva riputazione delle sue
finanze e ch'egli per esser sicuro della nomina, dovrebbe regalare «mi no so
quanto a mi no so chi», ai cronici, o agli orfani, o ai derelitti, o ai
tignosi, «a quelo che ghe comoderà a lu, mi digo.» Figurarsi!
Sì, don Giuseppe si rammaricava
di questi guai ma non vedeva quale rimedio ci potesse recar egli, con qual
veste si sarebbe presentato al marchese per sciorinargli un sermone.
«Ma Lei, marchesa?» diss'egli.
«Come potrei riuscire io a smuoverlo se non ci riesce Lei?»
La marchesa scosse il capo,
sospirò, confessò la propria impotenza. «Mi no, sala, don Giuseppe. Bonissimo,
ma no se intendemo.»
Infatti se la eloquenza della
povera vecchia signora era scarsa e grossa, quella di suo marito era invece
delle più sottili e pronte. Ella vedeva in ogni questione le diritte ragioni
della semplice giustizia, egli ci vedeva le ragioni contorte di una giustizia
che facesse alle braccia con l'opportunità. Ella pigliava i propri argomenti in
un'angusta cerchia di notizie e d'idee, egli nel campo maggiore della sua
cultura e della sua retorica.
Per lei il seggio di senatore
significava soltanto vanità e spese. Il suo più filosofico argomento contro le
ambizioni del marito somigliava molto, per un curioso incontro, nel suo
scetticismo pratico, all'argomento col quale Jeanne, nel suo scetticismo
teorico, aveva quasi deriso le nascenti idee socialiste dell'amico: per la
presenza di Zaneto nel palazzo Madama e in fondo neppure per le chiacchiere
degli altri, la menoma fra le incamminate cose del mondo non avrebbe certo
mutato strada! Invano il buon Zaneto, non osando rispondere ch'egli era
dispostissimo a rispettare del tutto i prefissi itinerari delle cose del mondo,
si metteva a distinguere l'ambizione legittima, sentimento doveroso, dalle
ambizioni riprovevoli; invano le parlava di servigi alla religione, possibili a
rendere anche col semplice voto. Nel dir questo egli si credeva sincero e
arrivò sino a dimostrarlo alla incredula sposa che batteva e ribatteva il
chiodo dell'ambizione e della vanità. Le spiegò ch'egli era della stessa pasta
di tutti gli altri uomini e non si credeva immune da certi stimoli non tanto
nobili; ma che siccome sopra gli stimoli forse nascosti gli appariva nella
coscienza una bellezza di buone ragioni, egli non aveva obbligo d'investigar se
stesso più a fondo perché anche a sé stesso l'uomo deve usare carità, anche in
sé stesso deve astenersi dalle investigazioni che sarebbe odioso di praticare
in altrui.
Sua moglie, intontita e sdegnosa,
respinse da sé tutta questa psicologia e questa casistica, come incomprensibili
logogrifi.
Ell'aveva dunque rinunciato a
tentare direttamente la conversione di Zaneto e lo ripeté a don Giuseppe, il
quale fece e rifece, sospirando, l'atto di alzar con le spalle e con il capo un
gran peso.
«Come faccio?» diss'egli. Senza
tener conto de' suoi gesti né della sua parola, la impavida vecchia signora,
come se fosse bell'e inteso che don Giuseppe sarebbe l'ambasciatore,
s'incamminò a metter fuori un'ambasciata nuova, che quegli era ben lontano
dall'immaginare. Annaspò un bel pezzo intorno ai suoi beni extradotali che
aveva gelosamente e quasi avaramente amministrati a parte per amore della
figliuola, perché non andassero, come ella disse a don Giuseppe, «nel
caldieron», nel caldaione Scremin tutto screpolato di debiti. Era una sostanza
ragguardevole e finora la brava marchesa non aveva mai voluto aiutare a saldar
il caldaione né con un soldo né con una firma.
«Ma se occorre, don Giuseppe»
diss'ella, «vada.»
Ecco, l'intimo pensiero della marchesa
Nene, il pensiero taciuto fino all'ultimo, cagione vera, unica, della sua
visita, era finalmente giunto per le vie più strane e distorte sul suo labbro,
n'era uscito quasi a caso, quasi come un'idea che le fosse germinata allora
allora nel cervello.
Ella lo aveva concepito da lungo
tempo e condotto silenziosamente a maturità nell'attesa di metterlo alla luce
quando ne venisse il destro. Il pensiero era questo: offrire a Zaneto il versamento
della propria sostanza nel famoso «caldieron» del quale un abile amministratore
avrebbe poi tenuto il mestolo, a patto di vendere tutta la sostanza stabile
Scremin, palazzo e fondi, e di trasferirsi a Brescia. Aveva in pari tempo
intrapreso indagini occulte sul reale stato degli affari di suo marito, sul
valore commerciale dei beni stabili di lui e dei propri. Udito che il Genio
Civile stava cercando una residenza più comoda, si era arrischiata a muovere
una pedina in Prefettura per saggiare cautamente il terreno con la mira di
offrire, quando ne fosse il caso, il palazzo Scremin. Aveva persino portato a
Venezia i propri brillanti per farli stimare. Dal medico che le aveva recato la
parola preziosa, si era fatto scrivere una specie di monito ufficiale che se
l'Elisa uscisse guarita converrebbe collocarla in un soggiorno affatto nuovo
per essa. Quando le fu riferito che certo amministratore di un Istituto pio,
persona intima di Zaneto, lavorava per indurlo a una munificenza, si spaventò,
stimò giunto il momento di agire e parlò a Zaneto. Zaneto si commosse, pianse
di gratitudine, abbracciò sua moglie e le disse in tono patetico, chiamandola
«vecia mia», il suo affetto, non tanto alla casa e alle terre de' suoi avi
quanto alla città nativa. Se Iddio concedesse loro la straordinaria grazia di
quella guarigione, poteva bastare un'assenza temporanea, un viaggio, un breve
soggiorno altrove. A ogni modo ci si sarebbe pensato allora. Perché affrontare
un trambusto simile, un vero cataclisma, nella previsione di avvenimenti pur
troppo incerti? La marchesa volle far allusione al pericolo di villa Diedo ma
si spiegò così disgraziatamente male che il bravo Zaneto non durò fatica a
sgominarla con una carica di rettorica ottimista.
Egli chiese poi, tutto umile, il perché
di questo imporgli condizioni. Qui trovò duro. La cara «vecia mia» gli rispose
risolutamente che voleva vederlo «meterse quieto» e che il solo modo per lui di
«mettersi quieto» era quello proposto da lei. Allora Zaneto si ritirò
accigliato dentro le trincee della propria dignità. Nemmanco intendeva ciò che
questo «mettersi quieto» significasse. Non sapeva di aver mancato, per grazia
di Dio, ai suoi doveri familiari. Se un dovere familiare gli prescrivesse di
trasferirsi altrove, saprebbe compierlo senza bisogno di condizioni e di patti
fermati prima. Non capiva, madama, che questa sua condizione era un'offesa?
Madama non volle saperne di capirlo e tenne più duro che mai, cosicché Zaneto
non volle saperne alla sua volta di continuare il discorso.
Ora ella espose a don Giuseppe il
suo piano, il messaggio ch'egli avrebbe dovuto portare a Zaneto; e, fedele
all'abitudine sua della reticenza, non fiatò del suo tentativo diretto, della
disfatta. Temeva che don Giuseppe, se sapesse, declinasse l'incarico o almeno
lo eseguisse senza quella fiducia ch'è sempre una forza. Don Giuseppe guardava
stupito e ammirato la vecchia signora della quale aveva creduto sino a quel
momento che apprezzasse sufficientemente i beni terreni, che avesse un certo
affetto alla proprietà e sopra tutto che sarebbe morta prima di lasciare la sua
casa, la sua chiesa, le sue vecchie amiche, le sue abitudini. Ella, che solo
per affetto alla figliuola e per una ascetica devozione all'ordine si era
sempre governata da custode tenace degli interessi propri, se ne stava lì
confusa davanti a lui, lontana dal pensare di aver detto cose ammirabili come
dal credere di aver parlato greco. Don Giuseppe non sapeva come avrebbe fatto a
compiere la missione propostagli ma sentì, davanti a Dio, di non poterla
rifiutare. Accettò e ricominciò ad abbrancarsi la fronte con le cinque dita
spiegate della destra, premendole forte e lentamente raccogliendole in un cuneo
per dispiegarle e raccoglierle ancora, come uno che si trova invischiato in
calcoli astrusi e non ci si raccapezza. Durante questo suo faticoso meditare la
marchesa uscì molto impensatamente a dirgli che aveva bisogno di un altro
favore, da lui; ed egli alzò il viso con una ingenua espressione di
sbalordimento come se dicesse: un altro? Le par poco quello che ho già sullo
stomaco? La marchesa non parve avvedersene, e gli parlò imperterrita
dell'altissima stima in che Piero teneva il Commendatore, per le relazioni
avute con esso durante il sindacato. Se il Commendatore volesse, potrebbe forse
esercitare su Piero una influenza buona. Bisognerebbe raccomandarglielo, far sì
che egli procacciasse di vederlo spesso, di legarselo quanto fosse possibile.
Si sapeva che il Commendatore professava il più riverente ossequio a don
Giuseppe; chi prendere per quest'ufficio meglio di don Giuseppe? Qui non
c'erano difficoltà e don Giuseppe non ebbe a ridire che sul riverente
ossequio. Per verità non disse parola, fece solamente un atto di
compassione per il triste inganno sul conto suo in che viveva quel bravo
signore. Intanto venne il solito domestico rurale con il solito caffè e la
cauta signora tirò subito in campo, rifacendosi un viso placido, le oche del
laghetto.
Bisognava poi vederle da vicino,
quelle oche, prima di partire! Nell'alzarsi insieme a don Giuseppe, nel
disporsi a una passeggiata in giardino, la marchesa pregò il domestico rurale
di avvertire Giacomo e stimò di aver così trasmesso a Giacomo l'ordine di
attaccare. «Giacomo?» disse fra sé il rurale. «Sarà il cocchiere. Avvertirlo di
che? Ci penserà lui.» E se ne andò con la intenzione lodevole di riferirgli tal
quale il messaggio della sua padrona. Ma Giacomo non era il cocchiere che aveva
condotto la marchesa Nene a villa Flores, era il nome di un defunto cocchiere
antico di casa Scremin, l'emblematico nome col quale la marchesa chiamava
imperturbata, nove volte su dieci, piacesse o non piacesse loro, i Beppi, i
Toni, i Tita venuti poi, il Checco attuale.
Limpidi ricami di note intorno al
mover pacato di una melodia tranquilla, né lieta né triste, avrebbero potenza
di esprimere quell'inafferrabile interno che sfugge al poeta nel dire l'andar
lento di don Giuseppe e della marchesa per l'erbe tutte vive di vento
nell'ombra chiara delle nuvole argentee, fra le macchie tutte bisbigli di
frondi, rotti dalle note insistenti e gravi, dalle volate acute degli usignoli.
I due non scambiavano, quasi, parola; e appunto la sola musica potrebbe dire il
loro silenzio pieno di senso, le comunicazioni non inconscie delle loro anime,
comunicazioni di pietà vicendevole, pensando la marchesa come il vecchio prete,
con soave poesia di speranze, avesse preparato ai suoi cari, discesi poi nel
sepolcro, tanta bellezza di cose; pensando don Giuseppe quanta bontà fosse
nella donna addolorata e stanca che per essergli cortese mostrava interesse al
suo giardino; blanditi l'una e l'altro, in pari tempo, nel cuore, da un'ultima
dolcezza terrena, da un gentile compiacimento della bellezza, non ancora fatto
straniero alle loro anime afflitte. Perché la marchesa nel suo complicato
cervello ci aveva pure una cellula per il senso della bellezza dei fiori, degli
alberi e dei giardini; alla quale cellula mettevano capo molti finissimi nervi
del pensiero, un solo grosso paralitico nervo della parola.
«Ecco le oche» diss'ella con la
sua serenità blanda nell'appressarsi al microbo giallognolo e inquieto che si
pigliava con beata vanagloria il nome di lago. «Ecco le oche. Le xe arene.» Don
Giuseppe le spiegò pazientemente che le oche non erano anitre, che i suoi
palmipedi erano un duplice popolo.
In quel momento un languido
raggio di sole avvivò la scena pastorale, le acque inquiete, il gruppo di
pioppi tremoli che le fiancheggia, il verde ovale della prateria cui l'obliquo
poggio boscoso e una diga di alta verzura corrono a chiudere insieme in uno sfondo
nero di abeti. Quel tale grosso nervo paralitico della marchesa si contrasse un
poco. «Belo» diss'ella «don Giuseppe, el cossa xelo, el prà.»
Don Giuseppe non rispose.
Contemplava. Quel posto del giardino era il suo prediletto. Aveva sognato un
tempo giuochi e risa, nella prateria, di bambini del suo sangue, nipoti e
pronipoti. Adesso, ammirando con la sua perenne freschezza di spirito i
capricciosi amori della luce e del verde, ripensava il proprio testamento,
fatto da pochi mesi, dopo lunghe incertezze e meditazioni, la villa e il podere
diventati residenza e ricchezza di sei vecchi parroci della diocesi e di sei
vecchi medici condotti della provincia, impotenti e bisognosi; immaginava i
suoi eredi squallidi a passeggio nel prato.
La marchesa soggiunse che per
l'Elisa, se mai avesse a uscire di là, ci sarebbe voluto un soggiorno simile.
Don Giuseppe s'infiammò subito, offerse villa e giardino con tanto fuoco che la
marchesa, sorridendo fra le lagrime, gli prese un braccio al polso, glielo
tenne stretto a lungo in silenzio, per fargli capire che lo ringraziava e
insieme che non c'era da correr tanto con le speranze. Don Giuseppe, turbato
del turbamento di lei, s'imbarazzò, non sapeva che dire. Ella era forte, tanto
forte che molti la credevano poco sensibile, ma ora che aveva aperto il cuore a
don Giuseppe come a nessuno mai, la sua forza, fatta in gran parte di silenzio,
era venuta meno. Vide a due passi, fra i pioppi, alcuni sedili.
«S'el permete» diss'ella con voce
soffocata «qua xe belo.»
E sedette. Don Giuseppe le
sedette accanto e il suo smarrimento, la sua inquietudine, il suo timore di
peggio dovettero apparir tanto che la marchesa gli disse con uno sforzo:
«Gnente, salo, don Giuseppe».
Poco a poco la innocente pace del
verde e delle acque solitarie, i sussurri miti degli alberi chetarono
l'afflitta come in una casa ov'entrò la sventura, inconscia festività di
bambini talvolta cheta, poco a poco, un amaro pianto.
«Ecco» diss'ella, asciugandosi
gli occhi con il fazzoletto. «Figurarme!»
Voleva dire che s'era commossa
nell'immaginar l'Elisa in quel giardino. Don Giuseppe non capì e non cercò di
capire. La pregò, un po' a caso, ad aver cura della propria salute. «Ghe n'ò
tanta!» gli rispose: e soggiunse con insolita energia che non voleva morire,
proprio no.
Oh povera grama creatura, sarebbe
stata beata di riposare nella morte, poiché credeva in Dio! Ma se la sua cara
uscisse? Chi la proteggerebbe, chi la difenderebbe contro colei? Che saprebbe
fare Zaneto? Non c'era che la sua mamma per assisterla, e la sua mamma doveva,
voleva vivere.
Più tardi il contadino di don
Giuseppe interrogato dalla marchesa se avesse avvertito Giacomo, balbettò
parole incomprensibili; e invitato dal suo padrone a spiegarsi meglio, invece
di rispondere alla marchesa rispose a lui, sottovoce, con una faccia
sbalordita: «Signor, el ga dito ch'el xe morto». Infatti il cocchiere
impertinente, uditosi chiamare «Ohe, Giacomo!» aveva gridato: «El xe morto!».
La marchesa capì, sorrise con serena commiserazione, scotendo il capo, del bello
spirito suo cocchiere.
Prima di salire in carrozza ella
raccomandò alle preghiere di don Giuseppe la sua figliuola.
«El me creda, don Giuseppe, Piero
no la ga mai conossuda.»
Solamente lei la conosceva,
solamente lei sapeva i tesori di quell'anima.
Rimasto solo, il vecchio prete
ricordò che un amico suo, poeta, parlando un giorno con lui della marchesa
Nene, l'aveva rassomigliata a un cartoccino di gemme come ne tengono i
gioiellieri, a un gruppetto di sassolini preziosi, chiusi in un pezzo di
vecchio quaderno da scuola strappato a caso, rabescato di storti caratteri
puerili senza senso; e anche a un ordine mirabile di cavità sotterranee
disposte per qualche occulto lavoro sapiente e benefico sotto il disordine di
vecchie culture mezzo abbandonate.
Ma, dileguato appena il rumore
delle ruote che si portavan lontano quel riverito problema psicologico,
dimenticò le similitudini poetiche, rientrò in casa pensoso, curvo, sotto il
peso di altri problemi, di un messaggio difficile.
|