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Dieci minuti dopo il suo ritorno
da Roma, l'ottimo Commendatore sedette fresco, sereno, davanti a un mucchio
enorme di lettere e stampe, suonò per la cameriera e le ordinò un caffè forte.
Nello stesso momento il cuoco annunciò il signor Soldini. «Portane due» disse
il Commendatore alla cameriera. La cameriera capitò a suo tempo con due caffè,
ma tosto aperto l'uscio alle spalle del Soldini, vide ch'era venuta con lui
anche la sua signora, ripiegò silenziosamente in cucina e si consultò con il
collega. Doveva tornar dal padrone con tre caffè? «Per quei musi?» rispose il
cuoco radicale. «Ma no, ma no!» Non sarebbero più partiti! E Ciotti Çeóla
saliva le scale in quel momento per avere anche lui la sua udienza. Il secondo
caffè poteva servire benissimo per lui. La cameriera, liberale moderata,
cedette sul primo punto ma protestò che sarebbe morta piuttosto di portare il
caffè a Ciotti Çeóla.
Soldini era venuto infatti con la
signora e con molte scuse per questa sopraggiunta complicazione del colloquio. Siccome
fra la signora e lui c'era qualche disparità di vedute circa l'argomento di che
avrebbero parlato in seguito, siccome la signora credeva fosse in potere del
Commendatore un modo di togliere ogni ragione di dissidio, siccome confidavano
entrambi pienamente nella rettitudine della sua coscienza morale e religiosa,
così il marito aveva detto alla moglie: «Vieni anche tu, parliamogli insieme».
Mentre Soldini spiegava ciò al Commendatore con la sua parola eletta e lucida,
chiamandolo, tra scherzosamente e rispettosamente, avversario politico, la
signora, tutta confusa, rossa, ridente, si scusava di una propria supposta
sfacciataggine con dei «cosa dirà Lei? cosa dirà Lei?» e il Commendatore,
ripetendo «un piacere! un piacere!» si cercava frettolosamente, con qualche
angustia, nel capo tutte le possibili vie, facili e difficili, pacifiche e
malsicure, che il discorso avrebbe potuto prendere.
Ecco, intanto; proprio di
politica non si trattava. A questo esordio del marito la signora esclamò che se
si trattasse proprio di politica ella non se ne vorrebbe immischiare. Il
Commendatore, esperto degli uomini e delle cose, pensò tosto, pure ammettendo
la buona fede degli interlocutori suoi, che dunque nel discorso atteso la
politica c'entrava molto. Infatti gli amici politici del Soldini credevano
sapere che gli avversari lavorassero per lo scioglimento del Consiglio comunale
e predisponessero la candidatura liberale di Maironi servendosi del consigliere
delegato Bassanelli, reggente la Prefettura da pochi giorni, compagno d'armi,
nel 1859, di Maironi padre. Se ciò avvenisse, il giornale clericale avrebbe
fatto a Maironi, per volontà di certi capi del partito, una guerra a coltello.
«Tu no!» esclamò la signora.
«Ecco il punto!» rispose il
marito, sorridendo. E proseguì a dimostrare che in quel caso il diritto di
guerra a coltello ci sarebbe stato.
Quindi spiegò al Commendatore che
mentre le altre signore del partito erano inviperite contro Maironi e lo
avrebbero mangiato vivo, sua moglie non pensava che alla salute di quell'anima
e tremava di vederla buttarsi senza ritegno all'errore e al male, tremava che
una parte di responsabilità ne avesse a pesare anche su di lui, Soldini; forse
la parte maggiore perché Soldini non userebbe mai l'ingiuria spregevole, ma con
la sua fredda, misurata urbanità recherebbe ferite più profonde.
«Mia moglie mi fa quest'onore»
diss'egli ridendo. E soggiunse che a suo avviso ell'aveva torto. «La diserzione
al nemico è sempre atto moralmente colpevole. Un atto immorale pubblico
dev'essere pubblicamente e severissimamente biasimato nella forma che il tempo
e il luogo consentono. Questo me l'accorderà. Ebbene, abbia pazienza. I
liberali, quando ci combattono, amano fare un grande sfoggio di Vangelo. Non
parlo di Lei, che non lo fa; ma gli altri ho paura che ne sappiano di Vangelo
quanto ne so io di astronomia, cioè quattro o cinque cose grosse, la
strapazzata ai Farisei, il perdono dell'adultera e, sopra tutto, regnum meum
non est de hoc mundo. Ora nel Vangelo si vede usata da Cristo l'invettiva senza
femminili timidezze, contro quei colpevoli appunto che lo movevano a sdegno per
un carattere di viltà che aveva la loro colpa; solamente... badi bene, perché
io non voglio essere accusato di scarsa carità cristiana verso Maironi!
solamente non contro Giuda. I Farisei avevano molto del buono, per essi ci
poteva essere rimedio ancora e Cristo scagliò l'invettiva. Contro Giuda no
perché lì non c'era più rimedio, in Giuda era entrato Satana.»
«Peuh peuh peuh» fece il
Commendatore, mostrando di gustar poco questi sottili ragionamenti. «Ci sarebbe
alquanto a ridire su alcune cose che Lei ha detto; sulla viltà di certe
diserzioni, per esempio, e sulle invettive evangeliche paragonate con le
invettive giornalistiche.» Qui il Commendatore cominciò a gonfiarsi di riso.
«Se Lei» diss'egli «vuole assumersi la parte di Cristo, ci pensi Lei; ma
insomma, cosa c'entro io con Satana?» E diede in una risata sonora.
«Non ha mai picchiato al suo
uscio?» disse la signora ridendo pure. «Almeno perché Lei gli faccia avere una commenda
dei SS. Maurizio e Lazzaro? o un posto al Ministero dell'Istruzione pubblica?
Adesso parlo io, vero? Vede, certi amici di mio marito, ottime persone ma poco
pratiche del mondo, hanno condotta male tutta questa faccenda di Maironi fin da
principio. E l'hanno condotta male per non avere ascoltato mio marito.»
Soldini la interruppe. «Eh, se
non mi ascolta sempre neppure mia moglie!»
«Parliamo» continuò la signora
«con la libertà dei nostri capelli grigi.»
«Il primo chiasso grande per
questa disgraziata relazione lo hanno fatto i liberali, e si capisce,
trattandosi di un clericale. Io sono convinta che il chiasso era peggiore del
male e che usando prudenza e carità verso un uomo fortemente tentato, bisogna
dirlo, verso un giovine in quelle condizioni, si poteva salvare tutto. Invece
quegli amici hanno incominciato con imprudenti smentite, quasi solenni, poi
hanno avuto una reazione di ferocia più imprudente ancora e adesso Lei sente
che intenzioni hanno. Sarà il loro diritto ma questo è il modo di perdere le
anime, non di riguadagnarle. Lei dirà: perché questa donna ci si riscalda
tanto? Mi ci riscaldo perché Maironi, prima, veniva qualche volta da noi e mi
ero posta in capo che quel giovane, che pure trovavo un po' eccessivo,
impulsivo, come dicono adesso, un giorno o l'altro sarebbe diventato qualcuno.»
La cameriera fece capolino da un
uscio laterale e disse piano al padrone con un sorrisetto sarcastico:
«Ghe xe el signor conte Çeóla.»
«Santi numi!» brontolò il
Commendatore mentre a Soldini sfuggiva un lievissimo sorriso. «Aspetti!
Aspetti!» E accennò alla signora, che si era alzata, di rimettersi a sedere.
«Ah, Commendatore!» diss'ella,
«Lei solo può metterci d'accordo!»
«Io?»
Questa poi, davvero, il
Commendatore non se l'aspettava.
«Certamente» fece Soldini. E
pigliò a spiegare l'enigma. Si sapeva che lo scioglimento del Consiglio
comunale stava sul tappeto della Prefettura. Qualcuno pretendeva che Bassanelli
avesse già sollecitato il decreto reale. Ora se il decreto reale veniva,
occorreva che il Commendatore persuadesse Maironi a declinare la candidatura.
«Il pensiero di mia moglie» conchiuse il cavaliere Soldini «è questo: se non si
posa una candidatura liberale Maironi, il giornale cattolico sta zitto. Il
Commendatore impedirà in qualunque modo, o premendo sullo stesso Maironi o
premendo sul partito liberale, che quella candidatura si posi.»
«Eh, eh, eh, Lei mi fa
un'intimazione da barcaiuolo veneziano!» disse il Commendatore, cacciandosi
ridente le mani in tasca e articolando quasi con uno sforzo le parole
scherzose. «Scià premi! Scià premi!
Ma io ho voglia di stalìr!
Di stalìr!» E fuori la sua solita risatina. Soggiunse poi, serio,
che di elezioni non si era mai occupato e non intendeva occuparsi.
«Abbia pazienza» replicò il
cavaliere. «Quello è il pensiero di mia moglie. Francamente, il pensiero mio è
un poco diverso. Ecco. Io non credo né che Maironi ascolterebbe Lei né che
accetterà una candidatura liberale. Vi è una cosa che non ho detta neppure a
mia moglie e che dirò adesso. Io dubito che Maironi sia per entrare in quella
strana categoria di gran signori socialisti che abbiamo in Italia. Badi, sa;
fra quelli di buona fede e non fra quelli che si fanno socialisti per
assicurarsi dall'incendio; ecco, Lei mi capisce. Maironi è appunto un impulsivo
di buona fede. Io questo lo desumo da varie piccole, piccolissime cose che so e
anche da certo discorso ch'egli deve aver fatto al Bassanelli, il quale non gli
è poi tanto cordiale amico, per certe sue intime ragioni...»
«Non so niente, non so niente»
s'affrettò a dire il Commendatore con il tono di uno che neppure vuol sapere.
«Ma io so» riprese l'altro. «Ora se per caso, avendo luogo le elezioni
generali, Maironi fosse portato e si lasciasse portare dai socialisti, pensi
come lo dovrei garbatamente malmenare! Lei vede ora, Commendatore, dove riesco
e in qual modo Ella può evitare a mia moglie e a me, forse per la salute di
un'anima e certo per la nostra pace domestica, il dissidio di cui abbiamo
parlato!»
Così dicendo, il cavalier Soldini
rideva e il Commendatore rispose «no no no, non vedo, non vedo, non vedo»
ridendo anche lui, come uno che vedesse benissimo.
«Ho sbagliato di grosso» riprese
il primo «poco fa. Lo scioglimento del Consiglio non è sul tappeto della
Prefettura, è sul tappeto di un tavolino molto più visibile agli occhi miei!»
«Oh, che salti!» esclamò il
Commendatore, ridendo ancora. «Oh che salti! Lei mi crea, un momento fa,
gondoliere veneziano e adesso mi nomina ministro dell'interno.
«Oh che salti!» E più di questa
esclamazione, cinque o sei volte ripetuta di poi, «oh che salti, oh che salti!»
il cavalier Soldini con tutta l'abilità sua e la signora Soldini con tutta la
sua foga sincera non poterono cavare al Commendatore; il quale, malgrado quel
fare scherzoso, era stato fin da principio del colloquio attentissimamente in
guardia, nel dubbio di una premeditata architettura di tutta la scena per lo
scopo clericale: evitare lo scioglimento del Consiglio. In questo egli faceva
torto almeno alla signora. Per compenso ricondusse cavallerescamente fino alla
scala i suoi visitatori, molto curiosi di vedere l'annunciato autore putativo
della crisi municipale, un giovinotto dalla faccia poco simpatica che stava
nell'anticamera, duro come uno che non può liberarsi da certo imbarazzo, da
certa soggezione e non vorrebbe parere timido né ossequiente e ha per giunta in
testa un discorsino da recitare. Egli cominciò la sua recita troppo presto,
appena il Commendatore rientrò nell'anticamera dall'aver accompagnato il
Soldini alla scala, la interruppe, la ricominciò, parlando in italiano: «Prima
di tutto... Ella crederà... prima di tutto... Ella crederà forse...» mentre il
Commendatore, con la sua umile affabilità, insisteva perché egli entrasse nello
studio, perché sedesse, costringendolo a rifarsi da capo ogni momento.
Finalmente gli riuscì di condurre innanzi, sotto gli occhi pacifici e benevoli
dell'onnipotente abbandonato fra le braccia della sua poltrona, il discorsino.
«Prima di tutto, Ella crederà
forse che io sia venuto a raccomandarmi, ma questo non è vero. Io son venuto
per la giustizia, per causa della iniquità di persone che non meritano di
essere il Municipio, non meritano, di una città, infatti, gloriosa, dirò. Credo
che Lei saprà chi sono e cosa mi è toccato a me.»
Il paziente Commendatore, che lo
guardava sempre tra blando e serio, accennò di sì. Egli sapeva che Ricciotti
Pomato, da ragazzo, si era gittato nel fiume per salvare un compagno e che il
suo bell'atto gli era stato fatale perché, trattandosi di un povero figliuolo,
il Municipio, la stampa, i cittadini cospicui, a forza di suonargli intorno
tutte le trombe dell'adulazione, gli avevano intronato in piena regola il
cervello che continuava a suonare e suonare di queste lodi, come una conchiglia
marina suona e suona in perpetuo dell'Oceano che un giorno la empì di fragore.
La prima iniquità del Municipio
clericale era questa che dopo la sciagurata faccenda delle brache, il tale
assessore non voleva più favorire, secondo aveva prima promesso, nel
conferimento di certe doti municipali, l'Annetta Pomato, sorella di Ciotti. La
seconda era che il tale altro assessore intendeva proporre per una di quelle
doti la figlia di una sua ganza. «Ohi, ohi!» fece il Commendatore, sgomentato:
«No, no, no! non dica di queste cose!». «Sacrosanta!» esclamò l'altro e
continuò a snocciolare il rosario delle iniquità. Si preferisce il tal
fornitore, con danno del Comune, perché è clericale o anche solo perché la
domenica tiene il negozio chiuso. Si nega una gratificazione al tale impiegato
perché scrive nel giornale dei socialisti.
Alla Biblioteca, invece di
Ricciotti si nomina il fratello di un sagrestano, che neppure sa parlare in
buona lingua. Chi sa quando la buona lingua di Çeóla si sarebbe chetata, se il
Commendatore, che pareva stare sui carboni ardenti, non l'avesse interrotto.
«Tutto questo sarà e non sarà, ma
che ci posso far io?»
L'altro fece il sordo e tirò via.
Si era licenziato un libraio inquilino del Comune perché vendeva le Memorie di Garibaldi.
Ecco all'uscio il naso della
cameriera.
«Signor, ghe sarìa el signor
Maroni.»
Il Commendatore significò a Çeóla
piuttosto con un gesto che con parole come non vedesse alcuna ragione di
prolungare un tale colloquio. Allora finalmente Çeóla voltò la sua carta
coperta. «La perdoni!» diss'egli. «Tutto il paese dice che lo scioglimento del
Consiglio comunale dipende da Lei e che Lei è contrario.» «Ma che, ma che!»
esclamò il Commendatore. L'altro continuò imperterrito, malgrado interruzioni
continue. «Adesso io Le dico che siamo molti...» «Ma sì, ma sì...» «... che se
le elezioni si fa subito voteremo per i liberali senza domandare posti per noi,
senza domandare...» «Va bene, va bene, ma se io non c'entro!» «... e se le
elezioni non si fa subito ci teniamo liberi...» «Ma sì, ma sì, è inutile dirle
a me, queste cose, facciano quel che vogliono!» «... e se ci teniamo liberi
vuol dire che ci sarà dei conti da fare perché potrebbe succedere fatti
strepitosi, e questa è una cosa che potrebbe anche interessare giusto il signor
Maironi che credo che sarà lui e che la serva avrà fallato a dire.»
Se la cameriera Rosina avesse
udito Ricciotti Çeóla chiamarla serva, lo serviva lei. Ma la Rosina,
considerato che adesso nell'anticamera ci stava un signore per bene e non mal
veduto dal feroce collega di cucina, si disponeva lietamente a portare i due
caffè nello studio di quel povero santo Giobbe del padrone appena fosse partito
l'odioso Ciotti. Uditolo scender la scala, si mosse dall'alto del terzo piano.
Appena toccato il secondo incontrò un amico e parente della famiglia, che
allungò, con un viso beato, le mani cupide al vassoio: «Brava ciò! quel che ghe
vol per mi che go magnà i gnochi!». La Rosina si difese accanitamente e l'altro
incalzò con l'attacco. «No, che l'è per el signor Maroni!»
«Te ghe ne scaldarè un altro.»
«No ghe n'è più!»
«E ti falo fresco!» L'amico si
trangugiò la sua tazza di caffè caldo con molti voluttuosi muggiti e soffi e la
Rosina ritornò brontolando in cucina.
Maironi aveva fatto alcune visite
al Commendatore durante il suo sindacato per consultarlo in argomenti di
amministrazione o per raccomandargli qualche interesse pubblico. N'era sempre
stato accolto cordialmente. Adesso era venuto a malincuore, sospettando che gli
si volesse parlare di politica. Sapeva che i liberali speravano di approfittare
della sua defezione dagli amici antichi e gli sarebbe spiaciuto di aver a
sostenere un assalto condotto da quell'uomo tanto rispettabile e buono, al
quale non avrebbe potuto rispondere così vigoroso come ad altri. E dal cedere
abborriva. Ne abborriva non solamente per l'attrazione che l'idea socialista
esercitava sopra di lui, ma più ancora perché la compagnia dei liberali gli
pareva sonnolenta e il programma impotente a generare l'azione intensa di cui
sentiva più e più il bisogno nella inquietudine divorante dell'anima tormentata
dalla più profonda scontentezza di sé, dalla impotenza dell'amore a infonderle
la pace.
Il Commendatore, licenziato Çeóla
non bruscamente ma tuttavia senza troppe cerimonie, sdegnando i sommessi
lamenti dei propri nervi per il caffè loro negato malgrado tanti fedeli
servigi, fece al nuovo venuto un'accoglienza festosissima. Andò a raccoglierlo
nell'anticamera, e prima di farselo sedere vicino, gli mostrò dei libri
pervenutigli di recente; fra gli altri, un trattato di trigonometria.
«Vede, vede?» diss'egli. «Tu
non credevi ch'io geometra fossi.» Ci aveva pure Le socialisme intègral.
«Questo lo conoscerà? Sogni, sogni sentimentali!»
Maironi lo conosceva infatti. Già
nell'anteriore suo stato d'animo, preso dalla curiosità del socialismo, aveva
letto un compendio francese del Capitale
di Marx, Progress and Poverty
di George e il libro di Benoît Malon.
«Saranno sogni» diss'egli
vivacemente «ma Lei creda pure che ci è stato qualche sogno rivelatore del
futuro!»
«Si accomodi, si accomodi» fece
il Commendatore, ritraendo in fretta la mano indagatrice dal tocco di quel
sangue che bolliva.
Ed entrò subito nel discorso
delle due cose per le quali aveva pregato Piero di venire. A sussidio di certi
suoi studi storici, intanto, gli occorrevano alcune copie di documenti
dell'archivio municipale di Brescia. Si rivolgeva, per averle, alla cortesia di
Maironi. Supponeva che Maironi facesse gite frequenti a Brescia; non possedeva
egli grandi poderi nel Bresciano? Pigiò molto su questi grandi poderi e poi
toccò dei fastidi della vita cittadina, della sorte beata di chi può vivere
sulle proprie terre occupandosi di esse, studiando, magari anche sognando un
poco! E qui mise a posto una delle sue risatine discrete. Queste parole,
cercate con intenzione più profonda, volendo dire e non dire, gli servirono di
passaggio all'argomento delicato dove poi, con abbondanti cautele, mise il
piede.
L'argomento era la candidatura
senatoria di Zaneto. Il Commendatore pigliò le mosse appunto da Brescia, dalle
condizioni politiche di quella città e della provincia, dalla importanza che il
Ministero attribuiva, ragionevolmente, a certa elezione politica che avrebbe
avuto luogo colà in epoca non lontana. Egli calò con lente e larghe ruote del
discorso, come un alato diffidente, a toccare, a sfiorare appena certo
messaggio portato da un membro del Parlamento circa supposte condizioni alla
nomina di Zaneto, soffiate da un ministro nell'orecchio dell'onorevole, tra le
quali vi era l'appoggio di Maironi al candidato ministeriale in quel collegio
del Bresciano. Maironi, mal soffrendo gli avvolgimenti di parole del prudente
Commendatore, sentendo che sola cagione del suo parlare involuto era la paura
di toccare Jeanne, di alludere a Jeanne cui l'onorevole Berardini aveva tenuto
quel discorso, risentendosi di questi riguardi quasi offensivi per Jeanne e per
lui, non attese altro e protestò che questo non era possibile, che egli non
prendeva impegno, assolutamente, né di sostenere né di combattere alcuno.
«Abbia pazienza» fece il Commendatore, desideroso, in quel momento, non tanto
d'indurre Piero a una risoluzione qualsiasi quanto di appagare se stesso
conducendo i propri studiati periodi a fine.
E li condusse a fine spiegando
lungamente e minutamente, non senza rifarsi talvolta da capo per amore di
chiarezza, che forse in tutto questo vi era, quanto all'esito, un eccesso di
ottimismo, che neppure quel ministro, forse, era in grado di promettere, ma che
una probabilità, una probabilità - il Commendatore insistette sul vocabolo - c'era
senza dubbio e che, senza dubbio, l'elezione di Brescia poteva pesar molto
sulla bilancia.
«Ecco» diss'egli, soddisfatto,
sorridente, liberato dal suo gomitolo di ragionamenti, da ogni scrupolo di
silenzi male serbati. «E spero di non aver meritato l'epigramma di un mio
carissimo amico briccone, molto briccone: longus esse laborat, obscurus fit.»
L'altro rinnovò anche più
vibrante le sue proteste, le quali adesso vennero accolte in pace con un
«faccia Lei, faccia Lei, cosa Le posso dire?». Tanto in pace che Maironi n'ebbe
l'impressione di certa spiacevole indifferenza e gli venne una gran voglia di
scuoter l'uomo con qualche audace parola.
«Non è per la questione di
Brescia» diss'egli «è perché ho fatto altre idee.»
«Bene! bene! bene!» fece il
Commendatore col viso di chi pensasse "male! male! male!' come certo
confessore veneto andava dicendo - ben! ben! - ad ogni nuovo peccato che gli
snocciolava il penitente.
«Senta» diss'egli alquanto
solenne e come uscendo con autorità da una breve meditazione: «non s'impegni
troppo presto con queste idee che dice. Vita doctrix! Frequenti un poco di più la scuola della
vita, ma proprio da scolaro che sta sul banco ad ascoltare e guardare. E poi...
e poi... e poi!...»
Il Commendatore scosse la mano
destra in aria come benedicendo il soffitto, per significare che poi gli
avrebbe dato anche licenza di salire sulla cattedra.
Il naso di Rosina. «Signor, ghe
xe el signor Prefeto.»
Maironi si alzò, promise di
occuparsi dei documenti desiderati e partì contento di aver detto abbastanza
chiaro, posto quel buon intenditore, l'animo suo. S'incontrò nell'anticamera
con il zoppicante Bassanelli, consigliere delegato reggente la Prefettura dopo
il trasloco del Prefetto. Si scambiarono un saluto freddo.
"Che ghe porta el cafè a
quel zoto?' pensò Rosina, riparato il guasto di quell'altro libero bevitore. Il
padrone suonò per ordinare che non si lasciasse più passar nessuno e Rosina
ebbe soltanto il coraggio di origliar un poco all'uscio. Udì Bassanelli dir
forte: «Commendatore mio, andemo zoti!» e il padrone ridere. Poi non le riuscì
di afferrare altro e se ne andò brontolando contro il Governo, che nominava
Prefetti di quel genere, senza un po' di sussiego, di dignità.
La faccia, il pelo e la gamba
sinistra, la gamba di Palestro, del cavaliere Bassanelli avevano cambiato molto
da quella sera del 1859 passata trincando nella gaia compagnia dei Sette
Sapienti all'Isola Bella, dove uno dei Sette, Franco Maironi, era venuto ad
abbracciar sua moglie prima di arruolarsi per la guerra. Nello spirito egli era
ancora il bonario e rude originale dell'Isola Bella. La molta cultura, la
qualità dell'ufficio, la dimestichezza con persone affabili e corrette gli
avevano alquanto levigato il linguaggio senza cancellarne tutte le pittoresche
audacie.
Scettico fino all'osso, saturo
fino alle midolla di senso del reale e del pratico, mangiaradicali quanto pochi
e mangiapreti nell'intimo del suo stomaco quanto nessuno, corteggiatore e
disprezzatore delle donne, il padovano copriva i propri sentimenti sin là dove
le convenienze dell'ufficio volevano e non più oltre. Aveva moltissimo rispetto
e non altrettanta simpatia per il Commendatore, uomo troppo religioso per lui,
troppo legato con ecclesiastici, troppo cauto nella parola, troppo schivo del
giudicar franco, del chiamar le cose con il loro nome. Non gli piaceva
interamente di averlo nella sede della Prefettura, benché lo conoscesse
mitissimo e il navigare fra i deputati gli riuscisse più difficile, più
pericoloso assai che l'accordarsi con lui, al quale il Ministero rinviava
sempre la Prefettura nelle faccende più delicate. Ora la faccenda delicata era
lo scioglimento del Consiglio comunale, invocato dai liberali e possibile a
giustificarsi con la composizione del Consiglio stesso dove la maggioranza
clericale prevaleva per pochi voti e pareva impotente a trovare un sindaco.
Bassanelli era trattenuto nella sua buona volontà di mandare i clericali
all'aria dal timore di una coalizione, nelle elezioni generali, del partito
costituzionale con i partiti estremi. Per questo gli importava di assicurarsi
che la direzione del movimento elettorale capitasse, nel caso, in mani sicure.
E qui le faccende zoppicavano per causa di certe iniziative prese da persone
ambiziose di nessuna autorità: gente che faceva montare in furore Bassanelli.
«Almanco, se no se pol drizzarghe la testa, che se potesse slongarghe el colo!»
Erano liberali avanzati, liberali «non dei miei», diceva Bassanelli con il suo
sale grosso «ma dei calzoni altrui, dei calzoni senza filettatura». Avevano applaudito
all'eroe della Biblioteca, avrebbero fatto anche più per un sorrisetto, per una
paroletta, per un articolino di Pomato padre, figlio, e comp.
«Senta, Commendatore» proruppe il
feroce spirito padovano «ieri un moderato marmotta mi diceva: "Se la va da
petrolio a candeloto, meio el candeloto!' Bene, io non solamente sono
anticlericale, ma non ho neppure, per mia disgrazia, la fede che ha Lei, questo
mondo cane mi pare tanto sconfinato che non so capire come ve ne possa essere
un altro; per vivere da galantuomo non mi sento alcun bisogno di preti; ma in
verità di Dio quasi quasi, piuttosto che vedere in Municipio certi liberali, mi
terrei questo povero mucchietto di sacrestanelli mezzo rabbiosi e mezzo
tabaccosi!»
Durante un discorso tanto eretico
il povero Commendatore si era molto rannuvolato. «Adesso concludiamo qualche
cosa» diss'egli grave, senza guardare Bassanelli. E consigliò di non fare
ancora proposte al Ministero, di star a vedere. Avvertì che il deputato del
collegio si adoperava molto, a Roma, per lo scioglimento e che poteva forse
venire all'improvviso da Roma l'ordine più o meno esplicito di proporlo.
Nell'alzarsi per partire Bassanelli gli chiese perdono di averlo scandolezzato
con il suo ateismo e ricordò Franco Maironi, il padre
dell'ex-sindaco, che lo strapazzava per l'ateismo come per
«certe altre cosettine» ma gli voleva un gran bene; e quando lo strapazzava
pareva insieme un diavolo e un santo.
«A proposito, bravo; cosa mi racconta
dell'ex_sindaco?» disse il Commendatore scrutando il viso dell'altro, anche per
certa curiosità del segreto al quale aveva accennato il Soldini. Bassanelli
esplose, rosso come un gambero: «Non me ne parli! Non me ne parli! Quello è un
pazzo! Quello non è degno...».
«Ah ta ta ta, ohi ohi ohi»
interruppe il Commendatore.
«... Non è degno di suo padre,
no! Gli ho già detto qualche cosa di simile e un'altra volta, se mi capita,
glielo dirò più chiaro! A meno che non ritorni indietro!»
«Come come come come? Che non
torni clericale?» Il buon Commendatore rideva sperando ammorzare con un po'
d'ilarità quel furore.
«Ma che clericale! Se va dritto
ai socialisti! Quello è un pazzo, Le dico. Mi ha fatto discorsi da pazzo, uno
di questi giorni, appunto sulle elezioni comunali, con certe idee impossibili
ad afferrare. La se provi a rancurar col cucchiaio il chiaro d'uovo ne la supa:
istesso! Il clericale era la crisalide di un anarchico; vedrà! E ci farà del
male, qui. Ci farà del male, per i quattrini, per il nome e per un certo
ingegno che ha.»
Il Commendatore afferrò il
momento buono.
«Mandiamolo via» diss'egli.
«Io lo manderei al Polo
antartico, anima mia, col diretto delle cinque; ma come si fa?»
In città si diceva che
Bassanelli, malgrado i suoi cinquantaquattro anni, il suo cinismo, le sue
affermazioni di non gustare, in fatto di donne, che «le ochete bianche e
molesine», fosse innamorato di Jeanne Dessalle ch'egli aveva conosciuto da
ragazza e visitava spesso a villa Diedo. Bassanelli non sapeva che ciò si
dicesse e neppure lo sapeva il Commendatore.
«E se... e se... e se...»
cominciò quest'ultimo. Si arenò nel terzo se. «Pensavo una cosa»
diss'egli. «Se Lei, ch'è in relazione con villa Diedo, cercasse di persuadere
quella benedetta signora... santo cielo!... basta!» Espresso con queste due
esclamazioni di biasimo e di carità il suo giudizio sulla condotta della
«benedetta signora» egli proseguì a dire che forse Bassanelli avrebbe potuto
persuaderla della convenienza per Maironi di allontanarsi dalla città quando si
aprisse il periodo elettorale, e di non accettare alcuna candidatura.
«Io?» fece Bassanelli. «Glielo
dirò a nome Suo, se vuole.»
«Misericordia!» esclamò il
Commendatore, spaventato. «No, no, cosa Le viene in mente! Misericordia!»
«Caro Commendatore» disse
Bassanelli «la femmina è l'impugnatura del maschio; Lei lo saprebbe se non
vivesse fra i cori degli angeli, dei Principati e delle Dominazioni; e se
mostrasse di saperlo non intendo come si farebbe torto. Questa impugnatura può
essere l'amante, ma può essere anche la moglie, può essere la cuoca. Si figuri
che la mia cuoca, la quale sta in casa mia da trent'anni, fa di me quello che
vuole; e i suoi seduttori sono quindi miei padroni. Se fosse un cuoco gli
vorrei forse bene ma non sarebbe il mio padrone. È la femminilità di quel piccolo
cartoccio di grinze che mi soggioga.»
Ancora il naso di Rosina.
«Signor! Don Giuseppe Flores!»
«Siamo intesi, dunque!» disse
Bassanelli.
«Parlo in Suo nome!» E mentre il
Commendatore lo inseguiva con la voce, «no no, non facciamo scherzi!», e gli
giungevano sempre più fievoli i «sì! sì! sì!» del padovano fuggente per le
anticamere, don Giuseppe Flores entrò nello studio. Il Commendatore si affrettò
a incontrarlo col più sorpreso e riverente viso. Alle spalle di don Giuseppe
Rosina faceva dei gesti al padrone per chiedergli se dovesse portare ora i due
caffè. Il Commendatore non pose attenzione ai suoi gesti e immaginando che don
Giuseppe, rarissimo visitatore, avesse a fargli qualche discorso riservato, le
rinnovò invece l'ordine di non lasciar entrare nessuno. Seduti l'uno accanto
all'altro nella ricreante coscienza dei loro felici consensi religiosi e
morali, di una mutua devozione, senza familiarità ma tuttavia profonda, i due
uomini di Dio, tanto diversi fra loro, tanto bene conformati nella loro natura
e anche nelle particolari virtù ai cómpiti, pure affatto diversi, loro
assegnati dal Padre, si parlarono a lungo, sottovoce. Prima parlò don Giuseppe,
porgendosi tutto, tratto tratto, e sorridendo allora di un vivo sorriso al
Commendatore che l'ascoltava più grave, pensava cose attinenti al soggetto del
discorso e non sapute dal prete, le cose apprese dalla bocca del Soldini e del
Bassanelli, che gli lasciavano poca speranza di poter corrispondere ai desideri
della marchesa Nene. Egli le disse poi, queste cose. Disse anche del consiglio
dato a Bassanelli, e della bizzarra pensata di costui che gli procacciava della
molestia. Via, questo invocare l'azione della signora Dessalle, era in certo
modo un riconoscere ufficialmente, per trarne giovamento, uno stato di cose che
per nessun conto andava riconosciuto. Che ne diceva don Giuseppe? Don Giuseppe
parve un poco incerto, masticò alquanto, non si spiegò bene, parendogli che in
fatto non fosse opportuno di cercare quell'appoggio e insieme non volendo
troppo turbare il venerato amico.
«E Lei, don Giuseppe?» disse
questi. «Lei che conosce Maironi, che ha conosciuto, credo, i suoi genitori,
perché non potrebbe tentar qualche cosa?»
Don Giuseppe sospirò, si passò
una mano sugli occhi. «Povero me» rispose, «non so far niente, non so agire,
non so parlare; una miseria!»
Il Commendatore, pur protestando,
si tenne sicuro ch'egli avrebbe invece fatto qualche cosa. Tacque, però, questa
fiducia.
«Allora» diss'egli, «se noi non
ci possiamo far niente, speriamo bene. Vedrà che adesso il Signore piglia in
mano la cosa Lui.»
Finalmente, liberato il campo, la
Rosina entrò portando il caffè.
«Xela stà una procession,
signor!»
«Ti pare?» fece il mansueto
padrone.
«Mi digo!» rispose Rosina. «E
l'ultimo xe stà el santo.»
Soggiunse che un momento prima si
erano trovati a salir la scala insieme il marchese Scremin e quel tale ch'era
venuto a raccomandarsi un'altra volta per l'appalto dei pozzi neri delle
caserme di Verona. Ella li aveva licenziati ambedue.
La fedele cameriera stette a
guardare con materna compiacenza il padrone che sorbiva pian piano i meritati
conforti della bevanda spirituale. Gli propose di aprire le finestre; c'era un
tale odore! Di che? Il Commendatore non sentiva niente.
Altro che odore! Odore «de siori e
de poareti, del mistrà de Çeóla e della tintura del Prefeto». Il padrone non
credeva a questa tintura del consigliere Bassanelli e Rosina rise arditamente
della ingenuità di lui. E non meno arditamente gli domandò cosa gli avesse
raccontato «quel dalla Biblioteca». Intanto gli avrà raccomandata la sua
sorella Artemide. Rosina sapeva che quest'Artemide, cameriera pur lei, avrebbe
dovuto venire col fratello ma che la sua signora l'aveva fatta stare a letto
perché il medico condotto le ordinasse l'olio di ricino. L'Artemide, nella sua
qualità di povera, aveva diritto alle medicine gratuite e l'olio di ricino
ordinato a lei lo avrebbe invece preso il padroncino che s'era rimpinzato di
paste.
«Ohi ohi ohi!» fece il
Commendatore, ridendo.
Rosina cantò poi le lodi dei
Soldini. Clericali ma però brave persone, tanto di buone maniere, tanto nobili.
E quel Quaiotto che voleva farli andar via! «Un vilan, madre mia!» E il
Commendatore: «Zitto, zitto, zitto!». E il signor Maironi? Aveva egli
raccontato che sua moglie stava molto meglio ma per causa di quella brutta... E
il Commendatore da capo: «Zitto, zitto, basta, basta!». Rosina si meravigliò.
Che male c'era? «L'è tropo santo, Elo.» E quell'altro povero zoppo, con la sua
cuoca che gli rubava fin le camicie per regalarle al suo amoroso vecchio!
«Basta insomma! Porta via!»
Il Commendatore diede una spinta
al vassoio del caffè, intendendo spingere così anche Rosina fuori dell'uscio.
Rosina si difese. Non era meglio di saperle le cose? «Saperle sì; dirle no.» E
come avrebbe fatto lui a saperle se nessuno gliele diceva?
«Ma!, figlia mia, c'è molti modi
di venire a sapere le cose. Ascolta, del resto.»
Qui il Commendatore mostrò a
Rosina un libriccino legato in pelle nera. «C'è più sapienza in una paginetta
di questo libro che in tutte le teste di tutti i commendatori e di tutte le
loro cameriere. E se tu potessi capire il latino ti darei da leggere qui de
evitatione curiosae...»
«Sì signore» saltò su a dire la
Rosina, pronta, «ma mi no son curiosa!»
«Va va va!»
Quando Rosina, mogia mogia, si fu
incamminata verso l'uscio brontolando «mi no che no son curiosa», il padrone la
richiamò.
«Senti, Rosina. Chi ti ha detto
che la signora Maironi sta tanto meglio?»
Trionfo dell'ancella. «Vèdelo
vèdelo vèdelo che l'è curioso anca Lu?»
E la impertinente creatura trottò
via senz'altra risposta con il vassoio del caffè.
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