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«Cara» disse Carlino Dessalle, «e
i fiori? Sono quasi le cinque, sai!»
Jeanne stava scrivendo nella sala
dell'Ariosto, in faccia all'affresco dove la bella, tenera Angelica, legata le
gambe ignude allo scoglio, spasima fra la mostruosa Orca, la ghiottona del
mare, che sale, e il mostruoso ippogrifo con Ruggero, il ghiottone del cielo,
che scende.
«Non si pranza alle sette?»
diss'ella, senz'alzare il capo.
«Sta bene, ma ti hai poi anche a
vestire, eh?»
Jeanne non rispose e non si
mosse.
«Senti, Jeanne» fece suo fratello
un po' stizzito. «Io non te li ho imposti, questi ospiti. Ti ho domandato s'eri
contenta di averli, tu mi hai detto di sì, dunque...»
«Ma sì, ma sì, son contenta,
ecco, vado» rispose Jeanne, nervosa. Si alzò di botto, piegò il foglio scritto,
lo pose in una busta frettolosamente, vibrando d'impazienza. Carlino la guardò;
aveva gli occhi rossi. «Oh santo cielo!» diss'egli sottovoce, seccato. «Bella
disposizione per un pranzo!»
«Ma che? Ma cosa? Ma se non ho
niente! Se sono contenta, contentissima! Se sono allegra! Adesso vado a far
cogliere i fiori. Dimmi che fiori vuoi.»
Ella protestava così, pentita,
quasi atterrita di avergli dato segno del suo soffrire interno, tenendogli le
mani alle spalle, fissandolo negli occhi, ansiosa di vederlo rasserenarsi, di
udire una parola buona.
«Stai zitta, è una cosa che non
può andare!» replicò Carlino. «Te l'ho detto sempre, tu ti figuri quello che
non è. Tu ti struggi per uno che non si strugge niente affatto per te. O forse
aveva in principio certe idee e ha capito che con te non si riesce!»
Jeanne arrossì fino al collo, gli
turò la bocca.
«No, Carlo, non dir queste cose!»
«Bene, che ti ha scritto, allora?
Perché piangi? Tu piangi per causa della lettera ch'è venuta oggi, non dire di
no!»
«Prima, non piango, poi, lo so io
perché piango!»
Carlino rise. «Bellina, questa!»
Rise anche Jeanne e ne approfittò subito. «Vedi se sono allegra! Dimmi, dimmi
che fiori vuoi!»
Egli scosse il capo, rassegnato,
non persuaso: e rispose negligentemente, dopo un silenzio lungo:
«Rose. Niente altro che rose.
Rose, ma in copia grande.»
«In copia? Dove sono? Sono
sfiorite tutte.»
«Che! Queste della terrazza, sono
sfiorite. Le spalliere sotto la Foresteria sono cariche di fiori bellissimi. Ma
dunque, perché piangevi?»
«Piangevo di tenerezza. Sì sì sì!
Sono felice!»
Ella gli diede un bacio
impetuoso, sonoro, ritrasse un po' il viso a guardarlo sorridendo, sussurrò:
«Quando vai a Milano?».
«Io? Domani.»
«Se ti accompagno, mi porti
posdomani al Quartetto?»
«Cosa c'è posdomani al
Quartetto?»
Jeanne nominò un grande artista
straniero.
«Benissimo, non lo sapevo. Felicissimo
di accompagnarti. Ma sai che per i miei affari mi occorrono almeno quattro
giorni.»
«Io me ne vengo via il terzo,
sabato.»
«Sola?»
«Credo!»
«E sia. Ma che capriccio ti è
venuto?»
«Grazie!» fece Jeanne e corse
via.
Suo fratello la richiamò. «Scusa»
diss'egli. «È per un incontro?»
«Anche per un incontro.»
«Potevi dirlo.»
«Ma non sono sicura.»
«Senti, corrergli dietro, no!»
«Non gli corro dietro!»
Carlino parve poco persuaso e
insistette. «Capisci, la tua dignità, anche in faccia al mondo!»
Jeanne fu per rispondere: «Che me
ne importa?» ma si trattenne, disse solo:
«Non temere.»
«Basta.»
Ella uscì rapida, palpitante,
nella speranza inattesa di questo prossimo incontro.
Maironi era partito da otto
giorni e proprio per le istanze pressanti di lei. Bassanelli non s'era tenuto
dal comunicarle l'opinione del Commendatore che fosse bene di allontanare il
giovane, posto che il Consiglio venisse sciolto, durante il periodo elettorale.
Aveva soggiunto che il decreto reale di scioglimento era in viaggio, che
sarebbe savio di prevenirlo perché molto probabilmente il Commissario Regio, a
fronte di certe questioni cittadine gravi, bandirebbe le elezioni assai presto
e l'agitazione comincerebbe subito. Jeanne non s'illuse circa le intime cagioni
di questo zelo, ma si compiacque molto che il Commendatore pigliasse interesse
a Piero. Ambiva un tale patronato per l'amico suo, una guida tanto autorevole
che lo avrebbe trattenuto sulla via dove lo vedeva incamminarsi, verso un
partito spiacente a lei per le idee e più ancora per la gente poco pulita.
Ambiva di entrare in grazia del Commendatore per poter un giorno congiurare
insieme. Comprendeva bene quanto poca speranza vi fosse di riuscire a ciò con
quell'uomo rigido e pio. Ma insomma, sentendosi degna della stima, del rispetto
di chicchessia, non voleva disperare e intanto aveva promesso a Bassanelli di
fare del suo meglio perché il desiderio del Commendatore venisse soddisfatto,
lo aveva pregato di non tacere al Commendatore stesso questa sua buona volontà.
Si era indotta più facilmente al
sacrificio per veder Piero malcontento di sé, della vita inerte che conduceva,
rôso da inquietudini strane, ch'egli le diceva di non sapere spiegare a se
stesso. Ella lo amava ora immensamente più di quando aveva dato al vento l'immaginario
veleno dall'alto della loggia di Praglia significando in silenzio il proposito
di vivere per lui. Lo amava molto più di quando, la sera dell'eclissi, gli
aveva porte le labbra, premendo, per prudenza, il bottone del campanello
elettrico. Le pareva che il suo amore non potesse più crescere e insieme che
crescesse sempre. Non pensava che lui, non sentiva che lui e se nei primi tempi
la tormentava inesprimibilmente il sospetto di non essere amata che a parole o
come un fantasma, un'idea impersonale dell'amore, o come un vaso chiuso di
piacere, adesso le pareva persino, qualche volta, che le sarebbe bastato di
amare, di amare, di amare, le pareva di poter rinunciare a essere amata. Quando
la sua salute delicata era buona, l'aspettazione di lui e la sua presenza e il
partirsene la facevano soffrire; quando invece non si sentiva bene non vi era
per lei ristoro maggiore che il vederlo. Le avveniva di sognare ch'erano sposi
in un altro paese, in un'altra casa, in mezzo ad altra gente, ch'egli le parlava
sottovoce, con dolcezza ma con autorità, di cose serie, che ciascuno aveva le
proprie stanze, ch'ella neppure osava di fargli una carezza e ch'era tuttavia
beata di appartenergli così.
Amava tanto e non però
ciecamente. Credeva conoscere Piero, i difetti e gli eccessi della sua natura,
meglio di qualunque altro, meglio, sopra tutto, di lui stesso. Credeva
leggergli nel cuore il segreto di quelle inquietudini ch'egli forse non
sinceramente le diceva di non sapere spiegare a se stesso. Confidava sì di essere
amata ma si teneva sicura che l'amore di lui non pareggiasse più nel cuore le
proteste che le labbra ne facevano ancora; e la coscienza di questa scarsa
sincerità doveva riuscirgli tormentosa. Si teneva pure sicura che tanti anni di
educazione religiosa, di ardente fede cattolica, di pratiche pie avessero
impresso a quell'anima una forma che, modificata dalla ragione dentro l'ambito
della coscienza, le permaneva intatta nelle inconscie profondità; e attribuiva
le inquietudini strane a un vago sentimento di rimorso asceso da quel Profondo,
religioso ancora. Certa di possedere l'amara verità, ella non desiderava
tuttavia di comunicare all'amico uno scetticismo cui lo vedeva ripugnante; le
piaceva di udirlo difendere con appassionata parola le sue convinzioni religiose
superstiti, Iddio e l'anima immortale; desiderava soltanto e sperava che nella
innocenza del loro legame quei vapori di rimorso finissero con venir meno.
Lo aveva dunque incuorato a
occuparsi sul serio de' propri affari, ad assecondare gl'insistenti richiami
onde l'agente di Brescia, sobillato dalla marchesa Nene, lo molestava senza
posa. E gli aveva ricordato la sua consueta gita del maggio in Valsolda. Egli
era già in ritardo, quest'anno! Qui seguì fra loro un po' di contrasto. Piero
non pareva disposto ad andare in Valsolda. Perché? Non lo disse, non lo sapeva.
Non ne aveva voglia, ecco. Jeanne sospettò di esserne involontariamente in
colpa. Se nel bollore della passione Piero le aveva parlato del lago come la
notte dell'eclissi, sui colli, adesso invece i vapori del rimorso gli
suggerivano forse di star lontano dalla casa di suo padre e di sua madre, dove
si sarebbero fatti più neri e acri. Lo incalzò di domande, d'istanze, volendo
strappargli qualche espressione dell'ingiusto sentimento, che le permettesse di
lottare apertamente con esso. Non le riuscì. Giunse a pregarlo, con parole di
tenerezza e di riverenza per le memorie a lui sacre. Egli la ringraziò
affettuosamente e troncò il discorso.
Sulle prime neppure voleva
saperne di andare a Brescia. Meditava un viaggio in Francia e nel Belgio, a
scopo di studiarvi certe società cooperative di produzione, le case fondate da
Leclaire e da Godin, il Vooruit di Gand, non alieno dall'indossarvi per qualche
tempo, se occorresse, le blusa dell'operaio. Non tenendosi ancora
sufficientemente preparato a questo viaggio, finì con piegare e partì per
Brescia. Aveva scritto, dopo la partenza, tre volte e l'ultima sua lettera era
veramente in colpa degli occhi rossi di Jeanne.
Ella scese per questa gran
vendemmia di fiori nel viale che corre diritto fra una lunga riga di thuye e le spalliere delle rose aggrappate a quel
fianco della Foresteria, che guarda la valle del Silenzio. Il giardiniere
Pomato, che con tutto il suo anarchismo coperto aveva una soggezione manifesta
della padrona, così buona conoscitrice di fiori, così ragionevole e ferma negli
ordini, così dignitosa e umana nei modi, così signorile nella figura e negli
atti, quel giorno era nero addirittura e si nascondeva poco.
Si era portata con sé alla vendemmia
la sua figliuola maggiore Partenope, maestra disoccupata da due anni. Poiché
Jeanne, veduta una lagrima negli occhi di Partenope, le ne aveva domandato due
volte, e sempre invano, la ragione, rispose lui per la figliuola. Rispose,
stroncando rabbiosamente disgraziati gambi di fiori, che le canaglie della
Commissione scolastica municipale l'avevano respinta in un esame di concorso
perché sorella di Ciotti e perché «no la xe sampatica.» La povera Partenope,
una ragazzona tozza, infagottata negli abiti civili, con la tinta giallognola
della grammatica e dell'aritmetica sulla grossa faccia villana, non era però
antipatica; solo faceva pensare a una puledrona da carretta nei finimenti di un
cavallo da calesse. Jeanne, benché avesse pieno il cuore della lettera di
Piero, di ansie, di foschi presentimenti, del vicino sperato incontro, parlò
con pietà sorridente a quell'amaro dolore che a lei pareva tanto piccola cosa,
tanto indegna di lagrime, e non era, perché la vita di famiglia correva ben
dura per la grossa Pape, come la chiamavano i suoi, fra il padre violento, il
fratello sprezzante, la madre avara; e qualche gentile, fragile sogno era pur
fiorito nella sua rozza mente come le rose su quella rustica muraglia, e come
le rose ne cadeva stroncato, povera Pape. Jeanne, soddisfatta di averle detto
due parole con bontà, si avvicinò, in attesa che i panieri fossero pieni di
fiori, verso il gran leccio del bosco, che le faceva invito laggiù in capo al
viale caldo nell'ombra dorata delle thuye, nel riflesso dei muri
sfolgorati in alto dal sole scendente. Giunta nel bosco fresco e scuro,
pendente alla valle del Silenzio, dove le pareva che l'erbe e le frondi basse
le mormorassero «sola?» si levò dal seno la lettera di Piero, incominciò a
rileggerne, tremandole le mani, l'ultima pagina e subito, come volendo sfuggire
a qualche amaro di quella chiusa, risalì alla data - Oria - vi fermò lungamente
gli occhi, ridiscese alle parole prime:
«Vedi dove sono, perdonami di non
averti scritto che ci venivo, è stata una cosa inesplicabile. L'altra notte, a
Brescia, mi sono svegliato di soprassalto con quest'idea, con la memoria viva
delle parole tue quando mi esortavi al viaggio di Valsolda, forse le avevo
riudite in un sogno che non ricordo, con la trepidazione, quasi, di subire un
impulso del soprannaturale. Cercai di liberarmene, avrei voluto andare, la
mattina, a Monzambano. Non ci fu verso, dovetti pigliare il treno di Lecco.
«Viaggiai, sino a Lecco, in uno
stato di torpore che si mutò in agitazione grande appena fui sul battello. Mi
sono domandato se non ero sulla via d'impazzire! A Menaggio mi tranquillai
alquanto. Invece quando il lago di Como disparve in basso e il treno entrò
nella valle alta, fra le montagne ombrose, guardando passare pratelli,
campicelli, macchie di bosco, casine attorniate di abeti, stradicciuole, tetti
lontani, tante cose note al loro noto posto, mi sentii un intenerimento, uno
struggimento, una voglia di piangere da non dire; e insieme, Dio sa perché, un
disgusto immenso degli uomini, una stanchezza immensa della vita.»
Ella si ripose la lettera in
seno, pensò a quel che veniva in seguito, ferma sul sentiero, con la mano
inquieta in un fresco fogliame di alloro; e solo si mosse quando udì il
giardiniere chiamar la Pape, dimandarle se là dov'ella era fossero ancora molte
rose da cogliere e la Pape rispondergli che v'erano soltanto spine. «Boni per
nualtri, i spini!» replicò suo padre. "E per me no?' pensò Jeanne con un
intimo sorriso amaro.
Mentre nella sala dell'Eneide il
giardiniere disponeva le rose, secondo i cenni di Jeanne, nel grande vaso
antico sulla consolle in faccia a
Didone in trono, intorno all'erma di Virgilio nell'angolo fra le due finestre
di ponente e di mezzogiorno, nei cristalli opachi, negli argenti bruniti, sulla
stessa tovaglia cenerognola della mensa onde Carlino voleva bandito ogni
candore vivo, ella confessò a se stessa che non avrebbe volentieri scambiato
spine con la Pape. No, era un soffrire caldo e caro, il suo. Era come un fuoco
di febbre senza dolore che assopisce i sensi e travaglia lo spirito in un
lavoro d'immaginazioni intense e vane. Se la pungeva una vera e propria spina,
era l'idea di non poter più avere sino a tarda notte un momento di solitudine o
almeno di doverlo rubare. Benedetto Carlino che non poteva vivere senza
società, senz'aver gente a colazione, gente a pranzo, gente alla sera! Adesso
gli era venuto in mente d'invitare una brigata di conoscenti fiorentini avviati
al Garda. Erano giunti alla mattina da Venezia, egli aveva mostrata loro la
città, li aveva ricondotti all'albergo e li aspettava a pranzo. La società
indigena era invitata per le nove e mezzo, molto largamente, a udire della
musica e una conferenza di Carlino stesso sul tema misterioso Numina, non
nomina, con proiezioni. Carlino aveva pensato questa conferenza per il
Circolo cittadino di letture, ma poi aveva smesso l'idea di tenerla in quel
posto, sia per certo carattere personale della conferenza, sia perché la sala
del Circolo gli era parsa tanto umida da fare ammuffire le fiamme del gas, sia perché
ci era andato una volta con sua sorella e una graziosa brunetta dell'uditorio,
vedendo passare Jeanne col mantello guarnito di chinchilla, aveva
udibilmente sussurrato a una graziosa biondina: «Gnao, ciò!».
«Come li metti a posto, questa
gente?» diss'egli a Jeanne. «Bada che io non vorrei vicina quella iettatrice
terribile di Bertha.»
Jeanne gli rimproverò la sua
ingratitudine verso la signorina Bertha Rothenbaum, l'antica istitutrice di
Jeanne, adesso traduttrice di romanzi italiani e corrispondente di giornali
tedeschi, ch'era sempre stata buonissima per Carlino. «Non sarebbe neanche
possibile!» diss'ella.
A destra e a sinistra di Carlino
ci dovevano stare le due dame della compagnia che i Dessalle chiamavano
familiarmente Laura e Bice. «Non ci mettere Destemps accanto a Bice» disse
Carlino, «altrimenti addio Bice, io dovrò prendermi un torcicollo e un
torcicuore con Laura che mi parlerà tutto il tempo di bouchées de pain o di crèches o di asili per tifosi o di ospizi per
catarrosi o di altre porcheriole pie, se non sarà invece del voto plurimo e
della riforma del Senato, o di qualche uomo celebre, esquimese o cafro, che
avrà pranzato da lei.»
Era pure facile non mettere
Destemps accanto a Bice. La comitiva forestiera si componeva delle due nobili
dame e dell'antica istitutrice, sempre chiamate dai Dessalle con il solo nome,
d'una damigella e di quattro cavalieri borghesi, sempre designati con il solo
cognome. Oltre a quella turbolenta mouche du coche di Laura, danzante sulle ruote, sul timone, sulle
briglie dello Stato e qualche volta intorno agli automedonti impassibili della
Chiesa; oltre alla sventata, bonaria Bice, molto franca e audace nella sua
maturità ufficiale di suocera e di nonna, maturità proclamata con le labbra
tanto più volentieri quanto più la rinnegava il cuore fidente in una tenace
bellezza; oltre al terribile Destemps dai capelli di biondo antico, dagli
azzurri occhi mistici e sarcastici, v'era il fiorentino professor Gonnelli, l'Yorick delle allegre brigate a cui si concedeva ogni
libertà di parola, v'era la sua figliuola, una Gonnellina di diciassette anni,
con la lingua legata e i vivacissimi occhi sciolti, con un'ardente sete di
vivere, la qual sete, tuttavia nel primo stadio, le bruciava il cervello in
forma di entusiasmo per i libri che rispecchiavan la vita e per coloro che li
scrivono. V'era la signorina Bertha, piccola magra, senza sopracciglia, con un
nasetto vermiglio e due occhietti grigi, con un sorriso fine pieno di bontà.
V'era il grande, grosso, barbuto e occhialuto Bessanesi, il paesista sempre
intento a cogliere le finezze recondite negli aspetti volgari delle cose ossia
quella bellezza che gli eletti sono sicuramente, felicemente, soli a sentire;
Bessanesi, l'uomo curioso di ogni arte e di ogni scienza, il parlatore arguto,
proclive alla freddura ma correttissimo nel gusto. V'era finalmente il
professore Dane della Università di Dublino, il celebre professore Dane, dagli
abiti mezzo mondani e mezzo ecclesiastici, sempre ben ravvolto e chiuso, per
cura di molte fini mani femminili, nella bambagia di un'adorazione perpetua,
squisito alla sua volta con le signore, e con cinque o sei delle più
intellettuali fra i trenta o i quarant'anni addirittura petrarchesco, storico
illustre, conoscitore profondo di pittura e di musica. Dane figurava il sacro e
venerabile stendardo della comitiva. Convalescente in Fiesole di una colica
epatica, aveva espresso a donna Laura il desiderio di un viaggetto al Garda e
molto ribrezzo di andarvi solo. «Solo?» rispose donna Laura. «Mai!» La
turbinosa dama cui non sarebbe garbato affatto un lunghetto passo a due con il
prezioso invalido, saettò per ogni verso biglietti e bigliettini invitando
mezzo mondo a pigliar posto nel corteo del professore. Donna Bice e Bertha
acconsentirono in omaggio a Dane, Destemps accettò perché accettava donna Bice,
Bessanesi per una curiosità estetica della compagnia, Gonnelli per far
divertire la sua Eleonora e anche per pigliarsi spasso dell'idolo e delle
svaporate adoratrici. Alla Gonnellina poi l'idea di viaggiare con Destemps
aveva messo la febbre addirittura, benché il biondo genio fosse sdegnoso dei
palpiti immaturi d'un Backfisch
come lei.
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