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In principio del pranzo, siccome i
fratelli Dessalle, le dame, la signorina Bertha e il professore avevano avviato
la conversazione in inglese, Gonnelli, un Yorick che non sapeva l'inglese, apostrofò così a
mezza voce il magnifico Enea di Tiepolo: «Eheu, Troiae fili, nonne tibi
quoque...» esprimendo il suo fastidio dell'inglese con un latino
gonnelliano che né le dame potevano intendere né i cavalieri tradurre. Donna
Laura e donna Bice, vedendo Destemps e Bessanesi ridere, Carlino Dessalle
arricciare il naso, capirono benissimo che non era latino spiegabile. Invece
Bertha, punta, curiosa e ingenua, si volse per aiuto all'onnisciente Dane il
quale non aveva raccapezzato niente dell'apostrofe maccheronica e disse a
Gonnelli col suo sottile sorriso e col suo italiano grosso: «Questa era forse
lingua troica, signor?» - «Sì, sì, latino troico» fece Gonnelli. «Troicissimo.
E giuro per quella sperlungona di Didone, scusami, Carlino, non l'hai dipinta
tu, che Destemps, Bessanesi e io si parlerà e mia figlia tacerà troico tutto il
pranzo, vivaddio, se non la smettete con l'anglico! C'è qui la signorina Bertha
che parla lungarnico come il Baccelli di Palazzo Vecchio o come una Bertuccia
di Mercato, c'è il nostro veneratissimo professore Dane che si arrabatta per
benino in un fiesolaico un poco suo proprio, diciamola, in un dannato di
fiesolaico, che però insomma è toscanico. Eh dunque!»
Rise anche il professore e la
conversazione continuò in italiano, vivacissima. Le due dame, che nei convegni
aristocratici portavano con dignità cosciente l'uniforme ideale, per così dire,
prescritta dal luogo e dal grado, se ne scioglievano qui assai volentieri nella
società preferita degl'intellettuali. Tra loro e Jeanne non correva troppa
simpatia, ma di Carlino andavano pazze apertamente come tutte le signore, forse
perché con un uomo come lui, di maniere squisite, musicista eccellente,
intelligente di ogni arte, paradossale nelle idee e pieno di vita nella parola
ma gelido nel fondo e schivo della passione, non v'era pericolo di andar oltre
un piacevole vellicamento dello spirito. Laura, del resto, vedova da qualche
anno, sdegnava la galanteria. I suoi amici dicevano ch'ella permetteva a Dane
di petrarcheggiare un po' con lei per ricordarsi di esser donna, perché non le
avvenisse di mettere in isbaglio un cappello di ministro o un zucchetto di
cardinale; e più innocuo memento
non si sarebbe trovato. Bice, orgogliosa di aver ispirato un vero amore
a Destemps, molto più savia che talvolta non sembrasse, lo teneva legato ma in
rispetto.
Si parlò della piccola città dove
Bessanesi diceva di sentire, Dio sa perché, uno spirituale odore di mare, tanto
da immaginare il malinconico Adriatico dietro a ogni cresta diroccata di muro
tagliante il cielo. Destemps era innamorato di tutto che aveva visto, anche di
un vecchio sagrestano guercio, storpio, gobbo, sudicio, adoratore devoto della
sua chiesa, che a un'uscita di Gonnelli «Puzzolenta la tua chiesa!» aveva
risposto: «Eh no signor, son mi che spuzzo».
Gonnelli che non aveva mai
passato il Po, compativa molto. «Carino questo, carino quello, ma non è
Toscana, via! Somiglia, ma non è!»
«Eppure» gli disse Carlino
Dessalle, «hai veduto sulla facciata di quella bella chiesa gotica gli avelli
dei fiorentini che posero dimora proprio qui, nel Trecento.»
«Sì, ma per forza, e che moccoli fiorentini
avran tirato! Non vedi che l'arciprete li ha posti fuori?»
Allora Bice protestò ch'era
fiorentina, che adorava le città piccole e che sarebbe stata felice di abitare
quella lì sei mesi l'anno. Dane, stentando le parole, compiendole in aria con il
gesto della mano femminilmente bella e bianca, fece un discorsino finissimo. La
città era incantabile. Aveva una piccola vecchia anima geniale di vecchio prete
italiano, furbo, culto di classici, spirituoso, voglioso del queto vivere bene
nonché con qualche piccolo episodio tenero, un poco scettico, un poco unto la
collana, un poco bianco i gomiti de' manichi. Tale idea curiosa suggerivano a
Dane «tutte queste piccole strade perfidette che fingono sempre andare a destra
per arrivare a sinistra e andare a sinistra per arrivare a destra, e tutto
questo vecchio latino un poco di Seminario, un poco rimasticato dall'antico, di
tutti questi vecchi palazzi di Cinquecento e anche di Settecento, e questi
contrasti molto spirituosi di queste piccole architetture eccessivamente pretty con vicine case stupide, e questi silenzi
dove qua e là spunta erba con un verde così dolce che uno si sente anche
dolcemente vivere con esso e non pensare niente e diventare dentro tutto tenero
e primaverico.»
La città morta era così, ma
com'era la città vivente? Com'era la società? Bice voleva pure saperlo. «Se ci
vengo a stare!» E rise del suo riso breve, giovanile ancora, che faceva
palpitare e impallidire Destemps. Carlino rispose che la città vivente era un
mondo infinitamente più grande, vario e curioso di quel mondo piccolo dove «si
vive noi», nelle città grandi, eccetto forse in Roma e in Parigi. «È questo
delizioso mondo provinciale» soggiunse «che vedrete alla mia conferenza,
stasera; e qui ne sarà tutto pieno.»
«Non la fare, la conferenza»
disse Jeanne. «È una cosa che non va. Vedrai, accontentati delle proiezioni.
Saranno cancans da non dire. Si è
già cominciato, io lo so. Scandali addirittura!»
Bice batté le mani. «La faccia,
la faccia!» Gli occhi della Gonnellina scintillarono e le sfuggì un «sì, sì!»
fra le risate di tutti, le proteste di suo padre «birbaccione di Carlino che mi
ammalizia la figliuola!» e i giuramenti di Carlino: «Ma se la mia conferenza
sarà una Filotea dell'amabilità e della verecondia!».
«Con quelle proiezioni?» fece
Jeanne. Qui successe uno scoppio di allegra curiosità. Anche la franca Bice
voleva sapere. La Gonnellina taceva rossa rossa, e Laura, la gelida, taceva con
indifferenza sprezzante, mentre Carlino si sbracciava a protestare contro sua
sorella, la quale spiegò subito che nemmanco avrebbe supposto di poter venire
fraintesa a quel modo, che le proiezioni rappresentavano persone conosciute
della città, cosa innocente senza commenti del conferenziere ma pericolosa con
i commenti, per quanto amabili. Appena caduto questo discorso, donna Laura uscì
a dire:
«E socialismo, qui, ne avete
molto?»
Carlino rispose che non ne sapeva
niente, che viveva perfettamente fuori della politica. Sapeva solamente che il
Municipio della città era in mano dei clericali e che il suo proprio giardino
era in mano degli anarchici.
«Sì» fece la dama, «ma per poco
tempo ancora, il Municipio.»
Parlava col tono di una persona
sicura, che sa tutto, l'avvenire come il passato. Ne sapeva infatti, circa le
condizioni politiche della piccola città, molto più di Carlino, e perché questi
n'era ammirato, volle abbagliarlo addirittura.
«E come sta quel vostro
raccomandato, quel marchese ambiziosetto che ha una figlia pazza? E come sta il
genero, ex-sindaco, ex-clericale? È a
Brescia? Ci lavora per noi?»
Udito da Jeanne che il genero era
infatti andato a Brescia, ma per affari suoi e non per occuparsi di elezioni
politiche, la dama scattò:
«Ma come! Bisogna che lavori! Si
lavora tutti per quel collegio! È una febbre!»
Jeanne fremeva, Bice rideva. «Eh,
si capisce!» disse Gonnelli. «Una Vittoria di Brescia! Capperi, non sarebbe
piccola cosa.» «Una Vittoria di stucco» osservò Bessanesi. Donna Laura si
adirò: «Già Lei, Bessanesi, per un calembour darebbe anche quella di bronzo!». «Forse,
contessa: ma la darei a Lei! Al Ministero darei quella di stucco.» Donna Laura
si riscaldò tanto che Carlino, per placarla, le promise di mandar subito un
biglietto al marchese con l'invito di salire a villa Diedo per un affare
urgente. Donna Laura gli parlerebbe, lo impegnerebbe, con paroline verdeggianti
di lusinghe, a lanciare il genero sul campo di battaglia. Donna Laura,
dissimulando una vaga notizia degli amori di Maironi, pervenutale attraverso il
Ministero dell'Interno, domandò se questo signor Maironi avesse ingegno, se si
occupasse di studi sociali. Invece Destemps domandò della Demente. Egli e donna
Bice credevano aver conosciuto i Maironi ai Bagni di Bormio. Lui, non era un
giovane alto, bruno, con una selva di capelli indocili e con gli occhi grigi
che avevano una espressione singolare di avidità intellettuale? Lei era sottile
e di statura media, secondo Destemps, aveva gli occhi color del Rodano, una
fisionomia di Sfinge che non vuol proporre il suo enigma. Gli altri, compresa
donna Bice, la trovavano insipida; Destemps no. Vero che parlava poco e che le
sue parole non avevano mai un'individualità; ma Destemps paragonava queste
parole bigie a crittogame di un'acqua stagnante, che ne celano il colore vero e
la profondità. Egli la giudicava infatti una creatura profonda e chiusa certo
anche a suo marito. Donna Bice si burlava di questa psicologia. Già donna Bice
e Destemps si contraddicevano sempre a questo modo, regolarmente. «Sì»
diss'egli, «una creatura singolare, profonda e chiusa. E infatti è impazzita.
Ho ragione io. E scommetto che nessuno sa perché sia impazzita.» No, i Dessalle
non lo sapevano. Carlino aveva udito che si trattava di eredità. Jeanne l'aveva
udito smentire. Bessanesi le domandò se ci fossero speranze di guarigione. «Eh
no» diss'ella con una conveniente gravità del volto e della voce. Si dubitò
ipocrita, trasalì nel cuore e passò oltre: «Non c'è speranza». Allora Dane
raccontò d'una sua conoscente russa, guarita dopo vent'anni di manicomio e uscitane
in mal punto perché i suoi l'avevano pianta come una persona morta e poi se
n'erano consolati, ne godevano i beni, si erano accomodati nella vita come
s'ella non esistesse più.
Dane descrisse con arte delicata,
squisitamente, il momento in cui la povera signora, rientrando in casa, poté
osservare tracce di mutamenti fatti scomparire in fretta e senza parlarne,
tracce della sala da musica che l'antica sua camera da letto era diventata,
indizi e segni di altri mutamenti più offensivi ancora che cercavano celarsi a
lei. Jeanne parve pigliare al racconto lo stesso interesse tranquillo che ci
pigliavano gli altri. In fatto ascoltava con quel misto di raccapriccio e di
piacere con cui ci s'immagina una cosa terribile che non succederà mai. Ma
un'occhiata, una sola involontaria occhiata di Carlino le diede noia come un
raggio elettrico saettatole nelle ombre del cuore. Tolse dal calice di
cristallo davanti a lei una rosa e la porse a Dane.
«Per l'artista» diss'ella
sorridendo; e si alzò da tavola.
Uscirono a fumare sulla terrazza
di levante. Nell'attraversare la sala d'Ifigenia, donna Bice disse a Destemps:
«Guardate che questo signor Maironi e la padrona di casa... credo, sì. Ditelo
anche a Laura», mentre alle loro spalle Bessanesi esclamava: «Ecco il mare, ecco
il mare! Thalatta, thalatta!».
Non era il mare la sterminata
pianura che appariva per l'uscio aperto della sala, laggiù nell'Oriente,
fasciata in giro al curvo confine del cielo di freddi vapori; ma tutti lo
sentivano il mare, in quel fosco, profondo Oriente, e Bessanesi chiedeva se
qualche volta non se ne vedessero, splendendo il sole o la luna, scintille.
Altri nominò Venezia. La Gonnellina sfavillò negli occhi di desiderio, osò
sussurrare a suo padre che si sarebbe potuto tornare a Venezia, poi fare l'Adriatico
fino a Ravenna, si udì rispondere secco:
«Io faccio l'Oceano indiano.»
Invece Destemps ammirava le
volute bianche di una grossa fumata di nuvole sospesa là di contro, sopra
l'angolo della Foresteria con il pomposo colonnato che vi si appoggia, sopra
più lontane chiome tondeggianti d'ippocastani, tagliate da sottili aste di
cipressi, e sopra una villetta giallognola, ritta sull'orlo dei poggi, scolta
del palazzo signorile, vigile sul piano immenso.
«Come è goethiano questo
Settecento!» disse Carlino. «Quelle nuvole mi figurano la sacrosanta parrucca
del dio.» Le bianche nuvole diedero un baleno d'oro, si gridò alla parrucca
miracolosa, si pose mano ai turiboli e all'incenso. Donna Bice, che dell'opera
goethiana serbava memorie lontane e non l'aveva, del resto, ben penetrata mai,
che andava a messa quasi tutte le domeniche e pigliava Pasqua regolarmente,
plaudì a Carlino incensante Goethe come il vero Uomo-Dio di
una religione superiore, fatta per chi sente tutta la bellezza di tutto
l'umano, compreso il senso del divino. Difese poi contro Destemps gli esteti
moderni che egli chiamava piccoli concertisti di flauto e clarinetto, piccoli
bravi gonfiagote, rispetto alla grande orchestra del Goethe. «Gonfiagoethe tu!»
gli fece Bessanesi. Bice difese gli esteti, godendo in cuor suo, sentendo che
Destemps parlava per gelosia di un giovanissimo esteta fiorentino, ammiratore
di lei. Il discorso passò naturalmente all'amore nella religione goethiana e
nella religione degli esteti e donna Laura si pigliò la Gonnellina, scese con
lei dalla terrazza nel giardino, perché i signori avevano preso a discutere,
Bice inorridendo forte per il suo diritto di donna desiderabile, e ridendo più
forte ancora per il suo diritto di suocera e di nonna, intorno a ciò che
chiamavano la moralità sessuale.
Bessanesi negava la validità
delle leggi religiose, con parole velate, di fronte alle leggi fisiologiche,
Destemps voleva che l'amore tutto renda lecito, puro e santo, Carlino sosteneva
che l'amore verrebbe così a distruggere il suo proprio piacere, che una legge è
necessaria per la deliziosa trepidazione dell'infrangerla e per il dolor
piacevole dell'averla infranta, in che uno sentiva il potere proprio, si
sentiva uomo veramente. Il solo Gonnelli, gran raccontatore di storielle
allegre, difendeva il concetto morale antico, protestando però di non farlo per
bigottismo.
«Scusate molto» gli disse Dane,
che aveva ascoltato fumando silenziosamente. «Io dico quello che dite voi del
concetto morale cristiano. Lo dico perché lo penso ed anche perché sono
bigottista nel modo che voi fareste bene di essere, e anche tutti questi
signori pagani che hanno detto cose tanto eleganti e di colori vivi, come fiori
giovani spuntati di rovine vecchie, un poco imputrite; belli fiori, scusate
molto, che io non vorrei mettere in occhiello. Ma dov'è la signora Dessalle?»
«Già» esclamò donna Bice.
«Jeanne, dov'è?»
«È andata a scrivere un
biglietto» disse Carlino. «Temo che starebbe col professore Dane, e
particolarmente contro di me.»
«Lo credo bene!» fece la signora.
«Lei ha detto cose orribili!»
E su queste cose orribili la
discussione continuò.
Appena staccatasi dal professore
Dane, che nell'uscire dalla sala da pranzo le aveva piuttosto cavallerescamente
che teologicamente offerto il braccio, Jeanne salì nelle proprie stanze per
scrivere al marchese. Avida dei brevi, preziosi momenti di solitudine, non si
sentiva più nella memoria quel che aveva detto Destemps della Maironi e l'altro
racconto della pazza guarita, se non come ombre languide nello sfondo di un
quadro che son vedute ma non richiamano l'occhio a sé. Il pensiero della
lettera, il pensiero dell'incontro l'avevano ripresa con violenza; e smarrì,
affissandosi nel proprio interno, il senso delle cose esteriori e del tempo. L'improvviso
rombo delle grandi campane del Santuario non la scosse ma le entrò nel cuore,
vi fece vibrare un ricordo della lettera. Sospirò, tolse quella lettera e ne
riprese la lettura.
«Nessuno mi aspettava,
naturalmente. La casa era chiusa, dovetti mandare ad Albogasio, non c'eran
candele e neppure acqua, ci volle del tempo non poco a prepararmi un caffè, una
stanza per la notte e quando, finalmente, mi trovai solo col custode, verso le
dieci, nella casa silenziosa, l'emozione del viaggio mi era passata, un po' per
la fatica, un po' per la seccatura, interamente; anzi mi meravigliai, quasi mi
dolsi, di trovarmi così freddo. Uscii sul terrazzino che fu costruito, secondo
mi raccontò una vecchia del paese, certa Leu, da mio padre, e dove il mio
povero zio Ribera, "el poer scior ingegner' come qui lo chiamano ancora,
morto prima ch'io venissi al mondo, soleva passare lunghe ore e prendere
qualche volta sulle ginocchia la mia povera sorellina, quella che annegò a
quattro anni. Mi vennero in mente certe espressioni affettuose della Leu a loro
riguardo: "lü che l'era inscì mai bon, lee che l'era inscì mai graziosa!'.
Pensando queste parole così
soletto, in quella casa vuota, su quella terrazza dove la passiflora che diede
ombra in antico a mio padre, a mia madre, a mio zio, alla mia sorellina, si
abbarbica tuttavia, morta, alle aste di un padiglione di ferro, mi si cominciò
a mover dentro qualche cosa che non so dire e finalmente ho pianto un pianto
amaro sulla mia casa derelitta e taciturna, sulla mia famiglia spenta e anche
su me stesso, non degno di quelle anime. "Lü che l'era inscì mai bon, lee
che l'era inscì mai graziosa!' Povera cara sorellina innocente! Era una notte
delle più buie, neppure si vedeva sotto la terrazza il lago nero e immobile
come le montagne avviluppate la fronte di mostruose nuvole che sole avevano un
fioco albore. Dato sfogo a quel gran bisogno di piangere, provai l'intenso
desiderio accorato di un segno che mi dessero di sé i miei morti, stetti
sospeso, in ascolto, pur con la coscienza della mia follia. Mi parve udir un
bacio dell'acqua sulla riva, prima; poi una voce di uccello notturno nei boschi
della sponda opposta; poi niente, niente, niente. Stavo per levarmi,
sospirando, di là, quando udii per un momento suoni fievoli di campane grandi...»
Jeanne non proseguì a leggere, si
alzò pallida, quasi cupa, scrisse in fretta il biglietto al marchese Scremin e
discese in tempo di udire Carlino difendere contro Dane e donna Bice la sua
tesi sull'amore e la legge. Sentì che in quel momento Maironi avrebbe sofferto
di vederla prendere le parti di Carlino e, pur sapendo che poi se ne sarebbe
pentita, cedette a uno spirito di ribellione, disse con voce vibrante che certi
sentimenti erano molto belli, molto buoni, molto poetici, che la verità era cattiva,
dura e fredda ma che l'aveva detta Carlino. Donna Bice ebbe un tocco del suo
riso argentino e guardò Dessalle.
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