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Gl'invitati della città, un
nuvolo, perché Carlino voleva riempire per la sua conferenza la sala
grandissima della Foresteria, cominciarono a venire dopo le nove e mezzo, a
piedi e in carrozza. Venivano per le due stradicciuole che mettono a villa
Diedo, così atrocemente selciate che la nobile signora Colomba Raselli,
palpitante di timidezza e di orgoglio, come un vero piccione, nella sua
toeletta cenere guernita di pizzi neri, scendendo di carrozza presso la
scuderia e affacciandosi al ciottolato che sale, sospirò, disse a due signorine
di cui teneva faticosamente la tutela: «Oh Dio, tose, gavìo cali? Mi sì, savìo».
E alla sua volta l'uomo acido, nel mettere il piede col maestro di musica
Bragozzo sul ciottolato che scende dal colle, storse incredibilmente la bocca,
il naso, le sopracciglia e dolendosi di non possedere le estremità marmoree di
certo illustre uomo grandeggiante nel mezzo di una piazza della città, brontolò
contro la buaggine propria di venire a rompersi i piedi per avere poi il
piacere di rompersi anche le tasche. Le carrozze salivano cariche di dame
sfarzose, di nereggianti e biancheggianti cavalieri. La contessa De Altis ne
aveva tre nel suo landau. Due di costoro in abito nero e cravatta
bianca, torturavano il terzo per il suo smoking e la sua cravatta nera. Non sapeva egli che
la sera prima, al caffè, si era deciso di andare tutti in frac? Il disgraziato,
uso venerare nonché le sacre sentenze anche le auguste opinioni del caffè, si
difendeva tra umilmente, allegramente e dispettosamente, descriveva con brio la
scena della sua "vestizione' in casa, le apostrofi delle figliuole: «Papà,
la velada, sètu!». «No, papà, che la xe onta!»; i consigli della moglie: «El
veladon ch'el te stà tanto ben!» e finalmente i bisbigli della cameriera: «El
se meta el smochi, conte!». «E mi aseno» conchiudeva il narratore «meteme el
smochi.»
In tutte le carrozze si criticavano
i Dessalle per non aver indicato l'ora in cui sarebbe finito il trattenimento e
per gl'inviti troppo larghi. Il cavalier faceto supponeva di aver a star in
cucina. Nelle carrozze di soli uomini si passavano in rassegna i relativi abiti
neri, se ne pubblicavano l'età, le origini e i fasti e non mancò chi vi andasse
fiutando la carbolina. Ma tutti, cavalieri e dame, erano curiosissimi della
conferenza e delle proiezioni, perché si diceva che la conferenza fosse in
parte un madrigale all'indirizzo di parecchie belle, amabili e spiritose
signore della città, delle quali si sarebbero visti i ritratti, e in parte una
pittura innocentemente scherzosa di parecchi signori che pure sarebbero
comparsi in effigie.
Si pretendeva di conoscere i nomi
delle signore, si parlava di peccati mortali di ommissione e di indiscrezione,
di miscele inopportune, di certe signorine molto leggiadre, molto mondane,
fieramente impermalite per la risaputa esclusione di tutte le signorine, tranne
una, dalle proiezioni e dalla conferenza. Si commentava l'assenza di Maironi,
si discuteva di una possibile rottura, con accenni agli Scremin e a un
miglioramento della Demente. Il cavalier faceto prometteva raccontare cose
graziosissime durante la musica noiosa del maestro Bragozzo.
Si rideva della signora che la
sera dell'eclissi andava giurando di non rimetter piede a villa Diedo e che,
ricevuto l'invito, aveva telegrafato a Venezia per una toilette. Si
rideva degli infruttuosi sforzi della contessa Importanza per appioppare a
Carlino la contessina Importanzèta, sforzi caritatevolmente secondati da certa
benigna dama senza figliuole.
La Raselli entrò ultima con le
due signorine nella villa perché, giunta al cancello, si avvide di avere
smarrita la nappina del ventaglio, e con grandissima rabbia delle compagne
volle a ogni costo, malgrado le confessate imperfezioni delle piante, rifare la
via sino al fondo: «Via, tose, tasì, ch'el gera tanto un bel fiocheto. Tasì,
çerchè, disì el si quaeris anca
vualtre», che fu poi tutto invano.
Villa Diedo, il bel dado a
trafori dal diadema di statue, saliva biancastro, con i trafori tutti accesi,
sopra le due terrazze brune di gente, verso un caos fosco di nuvole senza luna,
simile nel suo culminare a un alto, enorme fiore del poggio. E nel fiore e intorno
al fiore animato di fiamme era un fervore di piccoli viventi, accorsi al lume e
all'odore di godimento. Molte farfallucce vane, qualche fatua falena, molti
moscerini curiosi, qualche maligna zanzara, non pochi scarabei di pregio, non
poche nobili api vi facevano un ronzìo continuo, molesto, forse, alle cose
immobili, adoranti, nella notte augusta, come ai devoti nelle cattedrali un
pertinace battibecco di sagrestani e di femminucce. Solo i rosai abbracciati ai
balaustri della terrazza di ponente avevano fremiti e moti come se la
domesticità lunga avesse loro propagato il senso del piacere umano. Così
osservò passeggiando sulla terrazza un poeta indigeno alla dama pure indigena
cui dava il braccio. «Ma Lei» diss'ella «trova che c'è tanto piacere umano, qui?
Tranne io, in questo momento» soggiunse con una voce strascicata e ridente che
attenuava la dolcezza delle parole «tranne forse un pochino anche Lei, più o
meno si seccan tutti. Non ha visto che mutrie? Pare gente che aspetti il suo
turno nella sala di un dentista. Per fortuna c'è quel signore color carota che
si diverte!»
Quel signore color carota, l'uomo
acido, errava soletto per le sale, in abito di mattina, fra le code di rondine
e le toilettes chiare, scollate,
fiutando i mobili a uno a uno, regalando a ciascuno una particolare smorfia, e
non pareva infatti il ritratto del piacere umano; ma convien dire che la bella,
nobile dama, squisitamente aristocratica nell'intelletto e nel gusto, non molto
ricca, soffriva un pochino del lusso sfoggiato da questi Dessalle, sangue di
banchieri, e del prosternarsi, come diceva lei, di una città intera ai loro
milioni. Perciò il suo giudizio che tutti si seccassero era volontariamente
malignetto e fece sorridere il poeta nel proprio non meno maligno cuore. La folla
degli invitati, alcuni dei quali non erano mai entrati nella villa e moltissimi
non l'avevano visitata dopo che n'era stato rinnovato l'arredamento, fluiva,
finite le presentazioni, per le cinque sale tiepolesche e si divertiva di se
stessa, del magnifico ambiente, dove la signora malignetta non faceva grazia
che a Tiepolo, giudicava piuttosto pretenzioso che ricco il mobilio, vedeva
punte borghesi in ogni eleganza.
Giovava a lei e a qualche altro,
per malignare, che certo borghesuccio vanitosetto, per aver conosciuto i
Dessalle da qualche settimana e aver veduta la villa minutamente, si affannasse
a gittar qua e là rapidi bisbigli: «Tutte stoffe tessute apposta perché
armonizzassero con le decorazioni di Tiepolo - qui tutto è antico, preso a Roma
- qui tutto è copiato da una sala del palazzo X di Venezia - qui tutto è
lavorato su disegni del pittore Fusarin. - L'erma di Omero, nella sala da
musica, è antica. - L'erma di Virgilio, nella sala da pranzo, è di uno scultore
russo - quelle dell'Ariosto e del Tasso sono di... di... di... adesso lo
domando a Carlino». Subito il cavalier faceto lo battezzò per queste sue
ambiziose familiarità ridicole "el fiolo de la balia de Carleto' e per
tutta quella sera il nomignolo gli rimase.
C'eran bene alcuni buoni
conoscitori e alcune fini conoscitrici, che gustavano le armonie squisite degli
arredi e delle pitture e sostavano a considerare i fregi dorati sul cuoio
bianco degli usci antichi, né attraversavano il corridoio fra la sala di
Virgilio e la sala del Tasso senz'ammirare alle pareti il ricchissimo
soprariccio di Venezia. Ma i più si compiacevano di altre cose, della folla
elegante, della gran luce, della grande ricchezza, di trovarcisi come invitati;
benché quest'ultimo godimento fosse molto attenuato dalla copia degli inviti,
non fosse condito di esclusioni saporose. Molti signori si compiacevano
inoltre, in diversa misura, secondo il grado, la bellezza e la giovinezza della
compagna, di dare il braccio a una dama; e altri signori si compiacevano di
piantarsi ai passaggi fra sala e sala, indagando dall'alto le spalle e i
palpiti di quelle che talvolta erano costrette a sostarvi.
«Il nostro Olimpo» disse con voce
nasale un vecchio signore elegante a Gonnelli, passate che furono quattro o
cinque dame, una delle quali, l'ultima, era molto scollata. Bessanesi, che
stava dietro Gonnelli, brontolò: «Quello mi pare l'Ossa».
La voce nasale: «Perdoni, dice?».
«Oh, niente.»
Le signore tutte, tranne qualcuna
poco soddisfatta della propria toilette, si compiacevano pure della
riunione, ma si mostravano ancora, nella gravità e nella solennità del
contegno, molto comprese dei loro strascichi, delle loro gemme,
dell'avvenimento cui partecipavano. Invece le signorine erano raggianti, perché
il "fiolo de la balia' aveva raccontato a qualcuna che nella sala della
conferenza si era stesa una tela e portato un piano; e perché fra i possibili
ballerini vi erano alcuni giovani ufficiali di cavalleria non mai venuti, prima
di quella sera, in società. Un gruppo di esse, nella sala dell'Ariosto, commentava
queste notizie. Un signore maturo che passava di lì, allargate le braccia a
cingere confidenzialmente due sottili vite che trasalirono, ficcò il naso nel
gruppo: «Ohe digo, sémoi bone putele? Sémoi de religion? Quanti Ave marìo gavemoi dito ancò?». E scappò ridendo, con
una ventagliata della più anziana sul viso. Le signorine ripigliarono a parlare
degli ufficiali ponendo in comune la loro scienza, indicandoli per nome,
cognome, titoli, quattrini, età, spirito, abitudini e peso.
Il primato del peso era stato
tenuto per un pezzo dal capitano X con novantatré chili, ma ora c'era il
tenente Y che ne pesava novantacinque. Peccato, il tenente non aveva altro
difetto che questo eccesso. Jeanne aveva raccolto la Gonnellina in un angolo
della terrazza di levante dove stava con la signorina Bertha e con Destemps,
l'aveva portata alle pupille della Raselli perché la pigliassero nella loro
compagnia; ma Eleonora, venutaci contro voglia, non fu briosa né troppo
amabile, cosicché le fu presto conferito graziosamente il titolo di "palo
numero uno'. Jeanne, del resto, recitava la propria parte da eccellente
attrice, concedendosi poco a chi l'avrebbe desiderata molto, scusandosi con le
amiche, distribuendosi largamente agli invitati più modesti e meno conosciuti da
lei, componendo acconce conversazioni al professore Dane e a donna Laura,
lasciando che Bice, Destemps, Bertha, Bessanesi e Gonnelli se la sbrigassero
come volevano e potevano.
S'era dovuto modificare il
programma della serata. Non si cominciava più con la conferenza, si cominciava
con la musica, per causa del maestro Bragozzo, il quale, fiutato in aria l'odor
di ballo, aveva dichiarato netto a Carlino di non voler far udire il promesso
atto della sua opera inedita dopo la conferenza, quando tutti sarebbero stati
impazienti di ballare. E per la musica non c'era da uscire dalla villa perché
il maestro preferiva quella piccola sala alla grande sala della Foresteria:
pochi uditori ma scelti!
«Cosa vuole?» diss'egli alla contessa
malignetta. «Qui saremo, si figuri, cento persone. Di cinquanta uomini che mi
applaudiranno, ve ne saranno venti capaci di dirmi quando saremo fuori:
"La diga, maestro; bela quela roba, ma longheta'. Altri venti, e questi
saranno i miei amici, mi diranno: "Fiol de na pipa, la finivistu gnanca
più!'. Altri cinque mi domanderanno se ho suonato Wagner o se ho suonato la Traviata;
per loro è presso a poco la stessa cosa. Gli ultimi cinque ho piacere che
vengano a udirmi. Quanto alle signore, mettiamo da parte Lei, la De Altis,
forse anche la padrona di casa, non lo so, e tre o quattro delle quattordici o
quindici allieve che ho qui, mettiamo dieci in tutto. È molto! Per le altre
quaranta, quand'anche sapessi far cantare e piangere il piano, avrei la consolazione
di vedere quaranta ventagli andare e venire regolarmente, come quaranta
metronomi, dal principio alla fine. Qualche signorina, poi, sarebbe capacissima
di venirmi a dire, come mi è toccato ancora dopo aver suonato Beethoven, o
Schumann, o Mendelssohn: "Bravo maestro: ma ora ci suoni qualche cosa di
bello'.»
«È così dappertutto, sa» gli
rispose la contessa, ridendo.
Mentr'egli suonava e, contro il
suo desiderio, la piccola sala era stipata e due grosse code di pubblico vi
restavano prese negli usci aperti, il cavalier faceto raccontava in un angolo
della terrazza di levante, a un piccolo gruppo di uditori e di uditrici, le
scene di casa Scremin promesse alla contessa De Altis, la quale aveva preferito
la musica. Egli le sapeva dalla propria cameriera, una sorella della quale
aveva sposato il figlio di Federico di casa Scremin.
Dunque, scena prima. Personaggi:
il marchese Torototèla, come il cavaliere chiamava Zaneto per certe sue antiche
colascionate poetiche, la marchesa Nene, don Giuseppe Flores e un topo. Arriva
don Giuseppe in carrozza, dalla sua villa, domanda del marchese, è introdotto e
Federico riceve l'ordine di non lasciar passare nessuno. La marchesa suona il
campanello. Chi è venuto? Don Giuseppe Flores. Dov'è? Nello studio, col padrone.
Passano cinque minuti. La marchesa esce dalla sua camera e "roa' ossia
gira inquieta per la casa. Va finalmente a capitare scura e ansiosa in viso
presso uno dei due usci dello studio del marchese. Cosa succede mai? Federico
si trova per caso presso l'altro uscio. Ode don Giuseppe che parla; non si
capisce niente. Torototèla "fifòta' ossia piagnucola. Federico, per caso,
accosta l'occhio al buco della chiave e vede la padrona entrare tutta blanda e
sorridente. Proprio in quel momento il padrone si alza spiritato, tira una
scampanellata fissando qualche cosa in un angolo dello studio. Federico fa un
giro, entra dall'altro uscio, dietro la padrona. «Comandi?» «Un sorze!» La
padrona che solo teme Iddio e i topi, volta silenziosamente le spalle e via.
«Un sorze, signor?» esclama Federico. «Ma sì, un sorze, un sorze!» Il marchese,
tutto tremante, si fa una barricata della sedia. «La scusi, don Giuseppe! La
scusi, don Giuseppe!» Don Giuseppe al vedere quella baraonda per un topo, resta
di stucco. Federico non riesce a veder topi. Il marchese non si rassicura,
vuole continuare le ricerche: «La scusi, don Giuseppe! La scusi, don Giuseppe!
Mi rincresce!». E tanto dice e tanto ripete «mi rincresce, mi rincresce» che il
povero don Giuseppe, mogio mogio, se ne va. Trova la marchesa nell'anticamera,
discorrono.
A questa placida svolta del
racconto si udirono gli eroi del maestro Bragozzo delirare di passione con lo
strepito più indiavolato, e un signore grosso uscì sulla terrazza, si accostò
al gruppo. «Mi son sordo» disse egli. Poi raccontò ch'era arrivato Zaneto
Scremin con un frac del
quarantotto e una cravatta bianca che pareva una salvietta.
La venuta di Zaneto aguzzò
l'appetito curioso degli uditori e il racconto fu ripreso. Cosa si fossero
detto la marchesa e don Giuseppe non si sapeva. Certo la marchesa, nel congedar
il prete, aveva sospirato: «Ga d'esser anca i sorzi!», quasi quasi
compassionando Domeneddio per questa debolezza di aver inventato i topi. Quanto
poi al fondo della cosa...
«Mi so tuto!» interruppe il signore
ch'era diventato sordo. Era infatti abbastanza bene informato. A Zaneto, per
esser fatto senatore, occorreva regolare i propri affari, unificare i debiti
con un grosso mutuo per ridurne l'interesse e per non avere intorno tante
lingue inquiete, tanti occhi attenti di creditori. Un'operazione col Credito
fondiario della Cassa di risparmio di Milano non si era potuta concludere, per
difetto di cauzione. L'avvocato di Zaneto aveva proposto a Carlo Dessalle un
mutuo di settecentomila lire al quattro per cento. Dessalle per il momento non
aveva fondi e a ogni modo voleva il quattro e mezzo.
Saputo ciò, la marchesa,
piuttosto di vedere suo marito legato ai Dessalle, aveva deciso di sacrificarsi
e di cedergli una larga parte dei propri beni, però a condizione di far sapere
in alto che non si aspirava più al senato, di trasferirsi a Brescia, di viverci
quietamente con il genero. Don Flores era l'ambasciatore. «Ma Zaneto duro; e
fra lu e el sorze i ga mandà a monte tuto.» Nel dialetto del paese "sorze'
si dice un uomo astuto e a questo fondamento filologico il cavalier faceto
appoggiò la rispettabile ipotesi che gridando "un sorze!' il buon Zaneto
avesse voluto designare non un topo ma se stesso.
Intanto Jeanne aveva presentato
il marchese a donna Laura, li aveva avviati entrambi, senza parere, alla
terrazza di ponente dove potevano discorrere in pace. All'orologio del
Santuario suonavano le dieci e mezzo. Jeanne scivolò nella sala da pranzo, si
affacciò a una finestra aperta sulla valle del Silenzio, guardando i colli
foschi, le nere nuvole pesanti, immaginando la terrazza lontana, alta sopra le
acque oscure, la passiflora morta, il suono delle grandi campane, il cuore a
lei caro, pieno di memorie, di rimpianti, di terrori, di desideri indistinti
che lo contendevano a lei. Si slanciò mentalmente colà dov'egli era e sentendo
che non avrebbe osato serrarlo nelle sue braccia per timore di riuscirgli
sgradita, tutta dentro si rammollì di pianto e lasciò la finestra.
Nel voltarsi vide Bassanelli
fermo davanti a lei. «Sono indiscreto?» diss'egli. «Ho pensato che forse questa
sera avrete tempo e orecchi anche per gli amici. Vorrei dirvi una parola.»
Jeanne non si sdegnò
dell'allusione all'assenza di Maironi, avvezza com'era da un pezzo alle punture
gelose del povero Bassanelli, per il quale aveva molta stima e anche simpatia.
«E la mia società?» diss'ella.
«Ci pensa Bragozzo» rispose
Bassanelli. «Sentite; ieri l'altro, a Venezia, ho veduto vostro marito.»
Jeanne ebbe un sussulto di
appassionato disprezzo. «Ebbene!» diss'ella. «Che me ne importa?»
Bassanelli non pretendeva che le
ne importasse molto, ma in fin dei conti l'uomo gli aveva fatto pietà. Era in
pessime condizioni di salute, pareva mutato, conscio delle sue abbiezioni
passate, soffriva, soffriva molto, anche di certe voci arrivate sino a lui.
«Di quali voci?»
«Eh, mia cara!»
«Bassanelli! Siete venuto per
dirmi questo?» fece Jeanne, fieramente.
«No, ma insomma trovo che stasera
vi si legge troppo nel viso l'assenza di qualcuno, e trovo che non è necessario
di mettersi poi anche a sospirare alla finestra!»
«Bassanelli, vi ho permesso
finora di maltrattarmi circa questo punto perché siete un vecchio amico, ma
badate di non farmi pentire! Del resto, non è vero che si legga. Non si legge
niente. E poi, quando anche si leggesse? Io non faccio il male!»
Bassanelli la fissò negli occhi,
pallido, in silenzio, l'afferrò bruscamente al polso, le alzò il braccio. «Non
fate il male?» diss'egli. «Sentite! Sono sempre stato un asino da quando ho
sofferto la fame e mi sono fatto storpiare per questa maledetta Italia. Sono un
asino anche in questo momento e il perché lo so io; ma vi giuro che quando
penso al povero Franco Maironi, al padre, un cuor di leone, puro, per D...,
come il cuor d'un santo, e mi figuro quel che soffrirebbe se vedesse, se
sapesse, preferisco esser io che voi!»
Così dicendo liberò e scosse da
sé il polso prigioniero. Nello stesso momento si udì un sonoro applauso salutar
l'ultima battuta dell'opera di Bragozzo.
«Zitto!» disse Jeanne, quasi
atterrita, pallida quanto lui. «Voi siete un cattivo geloso e niente altro!»
Ella corse nella sala d'Ifigenia;
e Bassanelli la seguì fremente, mezzo contento, mezzo malcontento di essersi
sfogato.
Donna Laura e il marchese Scremin
conversavano ancora sulla terrazza di ponente quando tutta la società si
rovesciò a coppie sulla terrazza di levante, scese la gradinata, si avviò per
il giardino alla porta lucente della Foresteria. Alcune coppie aristocratiche
si sbandarono per aggrupparsi poi fra loro secondo un'intesa, desiderando pigliar
posto nella sala a parte dagli altri. Subito ne corse per le ombre qualche
femminino dispettoso sussurro. Sussurri correvano pure nel gruppo eletto;
sussurri sull'assenza di Maironi, sussurri sulle toilettes delle due gran dame forestiere, che parevano
insolentemente semplici. Una signora che aveva trovato modo, stando seduta
presso un uscio della sala di musica, di farsi vento con la destra e di
saggiare occultamente, con la sinistra, la stoffa delle toilettes che passavano, era fuori di sé contro certe
sue amiche avare. Un'altra signora si compiacque di osservare alle due
fanatiche adoratrici di Jeanne, perché non si illudessero circa gli affetti di
lei, che l'assenza di Maironi la rendeva persino brutta.
Jeanne entrò l'ultima nella sala
della conferenza con il professore Dane, che un bello spirito indigeno aveva
già battezzato, per i calzoni laici e per certa femminilità del vecchio viso
imberbe, pretoides brachyfera. Quando essi entravano, Carlino, addossato
al quadrato bianco delle proiezioni, stava spiegando al pubblico che il suo
discorso, di soggetto fantastico, richiedeva una introduzione musicale. Pregò
di non applaudire la musica quantunque di un grande maestro e ben eseguita. Le
lampade elettriche mancarono a un punto, sul quadrato bianco apparvero nuvole
notturne soffuse di albori lunari e un'orchestrina invisibile attaccò le prime
battute del Sogno di una notte d'estate
di Mendelssohn. Donna Bice, la buona signora Colomba Raselli, la
Gonnellina, suo padre, Dane, Bessanesi, il maestro Bragozzo fecero: «Oh!».
Destemps disse forte: «Bene!». Tutti gli altri, signore e signori, stettero
duri, con l'aria di gente avvezza e difficile. La Raselli si attentò di
domandar sottovoce a una maestosa vicina impassibile: «Cossa xeli, contessa,
quei spegazzi?».
La vicina rispose maestosamente:
«Mi no so.»
Una vispa signorina seduta presso
la Raselli mormorò:
«El sarà el caldiero de le strie
che fuma.»
"Al manco' pensò la Raselli
"che le strie me trovasse el me fiocheto'. Appena finita la musica, le nuvole
notturne tremolarono e sparvero, le lampade elettriche mandarono una fioca luce
crepuscolare e Carlino salì sopra una piccola tribuna che tagliava l'angolo
della sala fra il quadrato delle proiezioni e l'uscio aperto della stanza
battezzata da lui per le decorazioni tiepolesche La Cina dei mostri,
dove stavano i musicisti.
«La baraca de Purincinèla»
mormorò l'uomo acido.
«Porta dei sogni» incominciò
Carlino, senza enfasi, con quel nervoso accento toscano che agli orecchi veneti
suonava già singolare e magico. «Porta delle Sfingi, janua clara!
Apparisci!»
Le lampade si spensero, tremò sul
quadrato luminoso e vi si fermò la immagine di una elegantissima porta fine
Quattrocento. La base del pilastro destro recava sul plinto:
JANUA CLARA.
Qualcuno riconobbe il motto e le
sfingi dell'architrave, mormorò il nome di un palazzo della città.
«Degna» continuò Carlino «del
palagio di Atlante, io ti scelgo per esordio. Sanguigne, informi, dall'utero di
un'alpe selvaggia cavò le tue membra il nerbo di braccia violente; e l'anima
tua pura balenava intanto nell'anima dell'antico artefice come favilla in
fiamma e nel faticoso congiungimento dello spirito con la pietra lento ascese e
declinò l'arco tuo, simile al corso di una vita florida e piena, alla via della
bellezza nel tempo, della speranza in un cuor sapiente.»
«Vardè l'orologio» mormorò l'uomo
acido al suo vicino «ca vedemo quanto che se ghe mete a passar sta porta.»
«Come ora» proseguì nell'ombra la
voce di Carlino «nel dì sacro al Tonante, tu cingi di un pago sorriso le turbe
che per te affluiscono, recando incensi, all'interna Dea...»
Qui la porta tremò e disparve.
Scattò al suo posto, fra gli oh, le risa e gli applausi, il busto
splendido di una dama presente, dal profilo imperatorio, dal grande occhio nero,
dall'omero potente e squisito. «Somiglia un poco a donna Laura» disse il
professore Dane. Jeanne trasalì. Donna Laura e il marchese Scremin erano in
sala? Sarebbero stati dimenticati sulla terrazza? Mentre si applaudiva e si
rideva, mentre la dama si schermiva dai complimenti degli amici e Carlino
attendeva di poter ripigliare la sua stiracchiata similitudine dell'adorna
porta con l'adorno esordio di una favola romantica, Jeanne uscì lesta e
incontrò in giardino donna Laura, sola. Il marchese (Dio, che senatore
meschinetto!) era partito lasciando molte scuse. E dunque? Dunque Scremin si
era impegnato a far lavorare suo genero per la elezione di Brescia. Siccome
Jeanne, udito questo, fece un piccolo "hm!' dubitativo, donna Laura si
arrischiò a dire, sorridendo: «Basta che tu voglia!». Era forse più facile, al
buio, di osare così.
«Te l'ha detto Scremin, questo?»
fece Jeanne.
«No, lo penso io.»
«Bene, non è vero.»
E che non fosse vero, Jeanne,
affermandolo, era convinta.
«Dei suoi imbarazzi non ti avrà
mica parlato?» soggiunse.
«No, gliene ho parlato io.»
«Tu?»
Già, donna Laura era famosa per
le sue prudenze di educatrice e per le sue audacie di maleducata.
«Quando si vuole un fine
straordinario» diss'ella «bisogna gittare i riguardi ordinari.»
Aveva fatto cenno al marchese di
altre difficoltà che il suo nome incontrava, difficoltà di carattere molto
positivo, forse per effetto di voci sicuramente false ma ch'era necessario di
ridurre subito al silenzio. Il marchese si era turbato alquanto, aveva risposto
con un tortuoso viluppo di frasi mal connesse, volendo far intendere che per
effetto di certe trattative i Dessalle conoscevano la solidità della sua
posizione economica e avrebbero potuto attestarne.
«È vero?» chiese donna Laura.
Jeanne credeva infatti che suo fratello fosse stato richiesto di un grosso
mutuo, che la cauzione offerta fosse non larga ma sufficiente, che l'affare
avesse naufragato per il saggio dell'interesse.
«Ecco» disse donna Laura «egli
vorrebbe che io inducessi il ministro a chiedere informazioni, circa questo
punto, al Prefetto o che al Prefetto ne parlaste voi. Del resto» soggiunse
«capisci bene che io non ci tengo. Io tengo alla elezione di Brescia.»
Jeanne non rispose. L'altra sentì
il gelo di quel silenzio e il pregio del momento fugace.
«Scusa» diss'ella «parliamo un
poco. Non voglio entrare nelle tue faccende, ma insomma credo che dovresti
aiutarmi.»
«Ancora?»
«Sì, ancora. Questa volta si fa
conoscere nel collegio lavorando per un altro; un'altra volta lavorerà per sé. E
lo aiuteremo.»
Questo parlare senza riguardi e
il tono di protezione irritarono Jeanne.
«Scusa, sai» diss'ella «t'inganni
molto e poi è un discorso inutile. Andiamo, io debbo rientrare.»
Donna Laura, delusa, pensò: che
si sieno guastati? E si propose di saperne qualcosa la sera stessa.
Intanto il successo di Carlino
andava crescendo. Egli aveva imbastita la più assurda delle fiabe e intorno
alla bocca dell'uomo acido il muscolo orbiculare, il buccinatorio e il risorio
facevano insieme, a ragione, una tregenda furiosa. Ma le proiezioni levavano il
pubblico a rumore. Il soggetto della fiaba era questo. Una bella, gentile e
nobile giovinetta della città, presente nella sala e realmente fidanzata a un
signore straniero, figurava già sposa in un castello superbo sul Reno presso
allo scoglio della Lorelei, felice ma non senza qualche ombra di mestizia per
il ricordo della patria lontana. La Lorelei, impietosita da quei sospiretti, le
recava in dono e le piantava in giardino la svelta vecchia torre all'ombra della
quale era nata, la Torre di città. Seguiva la desolazione dei cittadini per la
scomparsa della loro Torre. Qui c'era un anacronismo. Maironi usciva sul bianco
quadrato con la sciarpa da sindaco, nell'atto di andar cercando, con una
lanterna in mano, la Torre. Jeanne si crucciò di quest'apparizione, che fece
ridere assai, e del silenzio serbatone con lei da Carlino che pure le aveva
prima raccontata la fiaba. Si vide l'arresto di un noto signore altissimo
sospettato di aver inghiottito la Torre, lo svenire di un altro signore erudito
che aveva pubblicato una Biografia documentata della Torre di città, il
suicidio di alcuni patrizi amici di Carlino che saltavano capofitti nel
profondo buco aperto al posto del patrio monumento. Seguiva un concilio di Fate
protettrici della città. Mai, nel racconto che le proiezioni commentavano, il
conferenziere, fedele al titolo della sua cicalata, non aveva pronunziato nomi.
I nomi li proclamava il pubblico davanti alle figure dei Numi. Anche la Lorelei
era una bella signora di Rolandseck, accasata nella città della Torre. La
galanteria e insieme la prudenza di Carlino furono particolarmente ammirate
nella descrizione, detta e figurata, di questo concilio dove il potere magico
era conferito alle più belle e illustri dame della città, le quali, descritte
una per una con frasi ampollose ma enigmatiche, comparvero sul quadrato pure in
una forma enigmatica, col viso in tutto o in parte velato, e ne balenarono via
rapidamente né vi ricomparvero malgrado i richiami del pubblico.
Erano dodici. Delle trentasei
signore presenti trentacinque sperarono essere del numero, fidando anche le
vecchie nei titoli, nei palazzi, nella cortesia cavalleresca dell'oratore e nel
velo completo. La sola carissima signora Colomba Raselli era umilmente persuasa
di non potersi consolare con tali speranze del perduto «fiocheto». Le fate
congiuravano nel palazzo della janua clara e con incantesimi riportavano la Torre dal
Reno a casa, conducevano la giovine sposa e lo sposo a dimorarvi presso,
facevan prigione la Lorelei e graziosamente l'assumevano a loro compagna e
sorella. Il racconto e lo spettacolo finivano con un frenetico ballo pubblico
intorno alla Torre rimessa in posto.
Cancaneggiavano con la folla il sindaco, il
signore altissimo, il signore erudito e anche i patrizi suicidi. Un inno alla
gentile città ospitale, soggiorno eletto di Grazie e Genii, fu la chiusa
gradita della conferenza. L'orchestrina intuonò un'aria popolare locale
allargandone il tempo a segno di renderla solenne, non riconoscibile a prima
vista; e sul quadrato uscì la immagine di Carlino stesso, inclinata verso il
pubblico in atto di riverenza, con le braccia conserte e una piccola Torre
stretta sul cuore. Tutte le lampade brillarono a un punto fra lo scrosciar
degli applausi.
La sala era già sgombra per il
ballo e poche persone vi passeggiavano, mentre gli altri invitati si pigiavano
ancora, fumando sigarette, sorbendo gelati, nelle stanze che fronteggiano la
valle del Silenzio, dipinte pure dal Tiepolo con l'estro più fantasioso e denominate
da Carlino la Cina dei mostri, la Georgica, la Galante, l'Olimpo,
la Darwiniana, l'Anacreontea. Il successo della fiaba era stato
così grande che soltanto le signorine parevano impazienti di ballare. Si faceva
un gran chiasso intorno a Carlino e intorno alle più sicure delle presunte
fate.
Ah
Lorelei
Rapir vorrei!
mormorò a Gonnelli il cupido
Bessanesi, molto ammirando lo scollato della signora tedesca. «Ah, Bessanesi,
Bessanesi, che dice mai?» fece alle sue spalle, battendolo col ventaglio, donna
Bice.
«Sì, lor e Lei - Rapir vorrei!» rispose il pittore, pronto.
Donna Laura prese a braccetto una
delle fate, una piccola fata irrequieta e nervosa, sua compagna di classe a
Poggio Imperiale, e col pretesto di vedere i Tiepolo si fece portare nell'Anacreontea,
il mirabile salottino dei putti, l'ultimo delle stanze verso levante, dove non
c'era nessuno. La interrogò sugli amori di Maironi e di Jeanne.
«Ma non se ne parla più!» rispose
la fata spensieratella, tutta scintillante per essersi fatta vedere a braccetto
della gran dama. «Me ne domandi perché non lo vedi qui? È a Brescia per affari.
È una cosa accettata, un matrimonio. Si trova che lei potrebbe qualche volta
dissimulare un po' meglio, fare come fa lui ch'è irreprensibile in questo, ma
poi in fondo si pensa: un marito senza moglie... una moglie senza marito... non
per loro colpa... giovani... scusa, siamo proprio sinceri, cosa tanto
difficile!... è una fortuna che si siano legati fra loro e non abbiano guastate
delle altre unioni. Se si è morali ma non ipocriti bisogna dire così! Qualcuno
critica Dessalle che dovrebbe fare, dovrebbe dire! Oh, è tanto simpatico
Dessalle! Come è simpatico! Ma qui si è severi, pedanti! Oh, non ne hai un'idea
come si è severi! Ma senza giustizia, però; a qualcuna si perdona tutto, ma
proprio tutto, e a qualcun'altra si perdona niente.»
Ell'aveva l'aria, così parlando,
d'insinuare un po' con risentimento, un po' con soddisfazione, che era esperta
particolarmente di tale severità e di tale ingiustizia. Infatti era di quelle
che accostano volentieri la mano al frutto vietato, ma nel punto di spiccarlo
si sentono forse, con un'ombra di rammarico, più oneste di quanto avrebbero
creduto e ritirano la mano.
Proprio in quel momento il
maestro Bragozzo e una giovine signora sua allieva, due pure cellule sane di
quel mobile tessuto umano, si confidavano certi loro ingenui comuni moti
religiosi e morali dell'animo. Il maestro era beato di non vedere
"quell'amigo' che egli, come buon cristiano, come buon marito e come buon
clericale, non poteva soffrire.
«Me par de respirar» diceva.
E la giovine signora, tutta
fremente di speranze sante:
«Crede, maestro, che ci sia un
principio di rottura?»
«Mi no so gnente. So che stasera
no se sente quel solito odorin de pastizzo vecio che a mi me rebalta el
stomego. Ghe xe un prete co le braghe, ghe xe tre o quattro vergognose de
signore che a meterghe un piè su la coa intanto che le camina se ghe tira zo
tuto, ma basta!» La giovane signora sorrise.
«Crede proprio, maestro, che qui
non ci siano altri pasticcetti stasera?»
«Ghe ne sarà, ma i xe in
credenza, e quell'altro, invece, el saria in tavola.»
Il maestro concluse che non
vedeva l'ora di essere a casa sua dove non c'erano pasticci né in tavola né in
credenza e dove le sue donne «siben che le ghi n'a puchi» benché avessero pochi
quattrini, vestivano più abbondantemente di queste.
Sopraggiunse Jeanne, sorrise al
maestro e disse alla giovine signora che forse avrebbe il piacere di passare
una parte dell'estate a Vena di Fonte Alta, vicino a lei che ci aveva una
villetta. Alla giovine signora balenò subito che ci sarebbe venuto anche
Maironi. Arrossì molto nel rispondere, intimidita, una parola gentile, tanto
quell'idea la turbava; benché Jeanne le ispirasse, con la soggezione, una
segreta simpatia, una idea vaga che quel cuore non fosse mondano quanto le
abitudini esterne, un senso pietoso delle tentazioni preparatele da sfortunati
casi, dal piccolo presidio cui probabilmente aveva trovato in una religione
male insegnata con la parola e punto con gli esempi.
Il ballo ferveva, il «fiolo de la
balia de Carleto» si copriva d'ignominia conducendo a rovina una quadriglia, e
intanto alcuni uomini serii, consiglieri del Comune, liberali, stavano a
fumare, a discorrere di elezioni sul terrazzo attiguo all'Anacreontea. Un
telegramma del deputato aveva loro appreso lo scioglimento del Consiglio e
l'avvocato Moretti era poco persuaso di una candidatura liberale Maironi che
taluno intendeva porre innanzi. «Che uomo è costui, in fatto?» si diceva
l'avvocato. «Lo si era visto sindaco clericale e come sindaco faceva bene, non
c'era che dire. S'innamora, fa benone, perché la Dessalle è una bellissima
donna e perché a trent'anni, quando si ha e non si ha moglie, non si può fare
che di peggio. Se la Dessalle fosse una signora del mondo clericale tutto
sarebbe passato in silenzio come una cosa di famiglia.
Così invece, per il fatto più
naturale del mondo, i clericali feroci, notate bene, i feroci e non gli altri,
hanno condotte le cose in modo da costringere quest'uomo a ritirarsi.
Quest'uomo si è ritirato e ammettiamo pure che abbia rotto col suo partito del
tutto e sinceramente, ma in fondo in fondo sarà egli proprio trasformato? Il
commercio che ha qui è affare di fisiologia e non conta. Si dice che ha smesso
le pratiche religiose, che si è dato al libero pensiero, alla filosofia
positiva o che so io. Son cose che non si sanno mai bene e sopra tutto non si
sa mai bene quanto possano durare certi eccessi. Per me dubito molto che un
uomo allevato nelle idee in cui fu allevato Maironi, e nutrito di esse per
ventotto anni o giù di lì, possa repentinamente diventare un altro uomo, e in
questo caso consiglierei il caute negotiari. Aspettiamo una prova più
lunga e più decisiva. Ecco.»
Il dottor Pinton non era di
questo parere. Secondo lui, appunto per il dubbio che i nuovi sentimenti di
Maironi non fossero solidi e duraturi, conveniva prenderlo subito e legarlo.
Prenderlo e legarlo, anche per impedire che lo prendessero i socialisti. A lui
constava che Maironi aveva tenuto discorsi molto sospetti, che quel pericolo
c'era, che il maggior freno era per Maironi una certa aristocrazia d'ingegno,
di cultura e di camicia pulita. Bisognava legarlo! I due non si poterono
accordare e alzarono la voce per modo che il terzo, l'avvocato Bonato, dovette
ammonirli, per prudenza. Qualcuno si affacciò in quel punto al terrazzo del
salottino, chiamò: «Cavaliere!». Tutti e tre gl'interlocutori si mossero a un
tempo. In fatto si voleva il più giovane, il cavaliere Moretti, per una coppia
di lanciers che mancava.
«Tu non sai» disse il cavaliere
Pinton al cavaliere Bonato, appena uscito il cavaliere Moretti «perché si
riscaldava! Quaiotto deve aver detto che se i liberali non portano Maironi, i
clericali non combatteranno Moretti. Altrimenti lo combatteranno a oltranza, e
Moretti... insomma... ha paura.»
L'avvocato Bonato sapeva
perfettamente che il dottor Pinton alla sua volta era malcontento di Moretti,
membro della Commissione direttiva dell'Ospitale, perché aveva osteggiato la nomina
di un suo fratello a ragioniere dell'Opera Pia.
«Ho capito» diss'egli. «Vuol dire
che si potrebbe portare Maironi e non Moretti.»
Ciò non gl'impedì di dire più
tardi a Moretti che si sarebbe potuto rinviare la candidatura Maironi alle
prime elezioni suppletive, ossia portare Moretti e non Maironi. Egli non era
disonesto, ma filosofo e amico del quieto vivere. Non si accorse della
contraddizione che dopo esservi incappato e si liberò del brucior lieve della
coscienza con una ideale scrollatina di spalle e con un bicchiere di
Rüdesheimer centellinato nella Darwiniana. Il battesimo strano di quella stanza
era stato ispirato a Dessalle dalla scimmia che Tiepolo vi mostra aggrappata ai
balaustri di uno scalone e dal negro che ne sale faticosamente un altro. Le
pareti hanno quadretti deliziosi di costumi veneziani e chioggiotti.
"Bella cosa l'ascendere!'
pensò l'avvocato guardando l'aguzza nera barbetta di un sottile, nero Pantalone
dei Bisognosi che inarca ossequioso la flessibile spina dorsale davanti a sfarzose
dame.
"Ma se si deve faticar tanto
per arrivare poi a far la commedia mascherata, come la fa quel Pantalone lì o
come, in fondo, la facciamo tutti, io e gli altri, ho paura che quest'idea di
ascendere sia stata proprio l'idea di una bestia. Di buono c'è questo.'
Voleva dire il Rüdesheimer.
Anche donna Bice aveva trovato
un'amica, la moglie del maggiore di artiglieria Alberto D'Ambiveri, una giovane
signora romana, buona di cuore e, nei momenti gai, terribile di lingua. Seduta
accanto a Bice sur un divano della Cina, aveva un motto, un maligno sussurro
per ciascuna delle signore e per molti fra i cavalieri che sfilavano loro
davanti, entrando nella sala da ballo. Bice, naturalmente, non conosceva
nessuno e la D'Ambiveri le faceva sottovoce le presentazioni. «Signorina...
rapa - Conte... oca pomposa - Signorina... suor Preziosa, guardatemi e non
toccatemi - Contessa... suor Severa, toccatemi e non guardatemi. - Signora...
suor Tenera, guardatemi e toccatemi. - Contessa... sangue reale, imperatrice di
Ciampino - Tenente... uccellin bel verde - Signorina Carolina... Carlamagna -
Signorino e signorina... scoiattolo e scoiattola - Madama... la virtù in
gloria.» Quando passò Destemps che dava il braccio alla padrona di casa, non si
tenne dal mormorare: «Baciate il piede al successor di Piero». Donna Bice
sorrise di un sorriso profondo e si affrettò a informarsi di Maironi. Era
veramente interessante?
«Qui non piace» rispose la
D'Ambiveri. «Lo trovano troppo serio. Adesso questo amore lo ha riabilitato un
poco, ma non basta. Bisognerebbe che piantasse Jeanne e ne pigliasse un'altra.»
«Ti lasceresti pigliare, tu?»
«Io? Ma che dici? Povero Alberto!
Capisco Jeanne, del resto. Poiché poi Maironi ha una figura aristocraticissima
e non è bello, veste bene e non è un elegante né dev'essere di quelli che ti
schiccherano una dichiarazione due ore dopo averti conosciuta. Aggiungi che
quell'uomo lì, con la rapa di moglie che ha avuto, dicono, e, con la vita che
ha fatto, deve aver portato a Jeanne tesori intatti di passione. Insomma
capisco Jeanne e non farmi dire altre sciocchezze.»
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