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Il treno diretto diurno di Milano
giunse a Rovato, sabato, con venti minuti di ritardo, perché a Treviglio s'era
dovuto aggiungere una carrozza. Jeanne aveva telegrafato a Maironi da Milano,
venerdì mattina, che sarebbe partita sabato con quel treno e che sperava
incontrarlo a Rovato dove il treno ch'egli avrebbe preso a Lecco arriva in
coincidenza col diretto per Venezia. Nessuna risposta era giunta. Per verità il
telegramma non richiedeva risposta; tuttavia le angoscie di Jeanne si erano
strette ora in una sola, nel dubbio di non trovare Maironi a Rovato. Ella era
venuta alla Stazione centrale assai per tempo e aveva preso posto in un coupé vuoto; ma prima della partenza vi eran salite
altre cinque persone, un cruccio! E il treno era zeppo; impossibile allogarsi
meglio. I suoi compagni di viaggio erano, per giunta, italiani, loquaci e
curiosi. Due signore noiose, molto eleganti, studiavano la sua toilette,
e un signore noiosissimo, elegantissimo, studiava lei. Ell'aveva preso un
angolo di sinistra, e appena il treno fischiò appressandosi alla stazione di
Rovato, si alzò in piedi, si affacciò, pallida, alla portiera. Ah, c'era, e la
cercava con gli occhi. La vide, ed ella gli accennò con un sorriso di venire;
gli disse che c'era posto. Nel sorriso, nel saluto ell'apparve padrona di sé
più assai che non lo fosse lui. Ma poi, dietro al dorso del facchino che gli
collocava la valigetta nella rete si trasfigurò in una larva di angoscia; gli
sussurrò presso al volto: «Pietà di me!».
L'angolo in faccia era occupato.
Piero le sedette accanto, scambiando alcune frasi indifferenti con il lei.
Ella lo fece meravigliare dicendo che aveva il biglietto per Venezia. Per
Venezia? Sì, certo. Jeanne sorrise, aperse un giornale, sussurrò dietro il
foglio «per riguardo a Lei», e gli occhi le si velarono di lagrime. Si morse le
labbra, si vinse subito, sorrise ancora, parlò della serata di villa Diedo
riuscita così bene, della graziosa fiaba di suo fratello. Piero non sapeva
ascoltare, neppure le domandò il soggetto della fiaba. Ed ella continuò a
discorrere. Carlino intendeva ritornare da Milano martedì. Giovedì, o al più
tardi sabato, sarebbe ripartito con lei. Per dove? Per Vena di Fonte Alta, un
bel nome di una bella montagna. Carlino s'era fatto analizzare una goccia di
sangue, aveva voluto che il dottore pungesse un dito anche a sua sorella, che
analizzasse ancora. E il dottore aveva trovato poveri di globuli rossi l'uno e
l'altro sangue, voleva mandare i fratelli a Recoaro. Jeanne non aveva voluto
saperne di Recoaro, né di Saint_Moritz né di altre acque; e così era stato
deciso di andare a Vena per una semplice cura climatica. Piero non sapeva dove
questa Vena fosse, quale via si dovesse tenere per andarvi. Ne parlarono
quietamente. Cinque ore dalla città, due di ferrovia e tre di vettura, mille
metri sul mare, boschi di abeti, boschi di faggi, solitudine, quiete. I
Dessalle avevano impegnate quattro stanze dell'unico, piccolo albergo. Altre
sei erano libere. Jeanne disse queste ultime parole quasi timidamente.
Piero non rispose, e la
conversazione cadde. Guardando l'uno e l'altra per lo stesso finestrino il
verde fuggente, luccicante di sole, sentendo che là, in una linea dei campi
parallela al corso del treno, i loro sguardi s'incontravano, si univano,
correvano insieme. Forse anche nel ritmico fragore che li portava con sé si
toccavano i loro segreti pensieri. Faceva molto caldo. A Brescia Piero offerse
una bevanda, che fu accettata, non per sete, con un sorriso di gratitudine,
tanto umile, tanto parlante che il viaggiatore seduto dirimpetto a Jeanne guardò
subito negli occhi l'uomo a cui la bellissima signora sorrideva così.
«E l'elezione?» diss'ella. Sulle
prime Piero non intese. Ah, sì! Il suocero gli aveva scritto e telegrafato a
Brescia supplicandolo di lavorare o almeno di far lavorare. Lettera e telegramma
gli erano stati trasmessi in Valsolda. Proprio per questo, neppure voleva
fermarsi a Brescia fra un treno e l'altro. Nella galleria di Lonato Jeanne gli
prese una mano, se ne recò il polso scoperto alle labbra e poi agli occhi
umidi. La mano si arrendeva senza resistere né secondare. Usciti dalla
galleria, guardavano entrambi in silenzio, per il finestrino, i poggi ridenti,
ma un lieve ansare li tradiva. Quando apparvero le sfumate montagne grandi e il
marino azzurro del Garda, Jeanne domandò: «Com'era il Suo lago, stamattina?».
Piero rispose ch'era drammatico, tutto un tremolio di brillanti a levante nei
vapori azzurrini, tutto verde cupo a ponente sotto nere minacce di nuvoloni.
Descrisse le battaglie della luce e dell'ombra sulle montagne che cingono il
lago, con molto calore, con abbondanza di parole, come rifacendosi del silenzio
serbato riguardo ad altre battaglie. Jeanne si fece coraggio. «Quella persona,
come l'ha lasciata?» E accennò impercettibilmente del capo a lui stesso. Piero
sospirò e rispose con un atto silenzioso di sconsolata incertezza. «Dio!» fece
ancora lei, come tra sé, dolorosamente, ma pure rianimata nell'intimo. «È una
cosa tanto diversa!» Piero la interrogò con gli occhi ed ella gli chiese quanti
minuti di fermata si avessero a... Venti minuti. Piero intese, si affrettò a
dire che aveva colà un convegno col dottor... e gli era necessario di
trattenersi, durante la fermata, con lui. Jeanne conosceva il nome del
dottor... e il suo ufficio presso la Demente. Approvò di cuore, mostrando che
posponeva il desiderio proprio e se stessa all'interesse doveroso di lui per
sua moglie.
«Sì, sì, fa bene.»
E cercò da capo lo sguardo,
l'anima cara là fuori, sulle acque serene del Garda. Aveva temuto il peggio,
adesso le pareva di sentire indecisa quell'anima, e sperava, sperava
appassionatamente, pronta ad incontrar con gioia ogni sacrificio, a vederlo
meno, a interdirsi la dolcezza delle carezze, la dolcezza del tu, s'egli
lo avesse chiesto, pur di non perdere il suo amore, pur di non esserne
abbandonata. Sperava con timore e tremore, coprendo di triste soavità,
chiudendosi nel cuore la sua fragile speranza. In fatto Piero fluttuava
tuttavia. Nello scrivere a Jeanne lo aveva agitato un tempestoso ritorno della
sua giovinezza credente, un assalto di dolore e di amore, un inenarrabile
anelare dello spirito a Dio.
Passata la prima violenza di
quest'onda, egli si era posto in difesa contro se stesso, contro le proprie
tendenze mistiche, contro tutto che potesse condurlo ad abbandonare la sua
prefissa via di un apostolato per la giustizia sociale, senza odio alla Chiesa
cattolica, ma del tutto indipendente da essa; la via che avrebbe dovuto sognare
per lui sua madre quando non credeva che nella idea di giustizia, non adorava
che l'idea di giustizia. Egli riconosceva in se stesso il sangue di lei e il
sangue del padre, il loro fatale conflitto rinascente. Gli venne il sospetto
che la sottomissione di sua madre fosse stata piuttosto amorosa e pietosa che
sincera. Subito pensò a quella gran lealtà di lei, a quella fierezza. Come
avrebbe mentito? Malgrado tutto, il sospetto ritornava. Gli era tuttavia duro
il lottare contro il sangue di suo padre. Gli balenavano nel cuore incerto
immagini di vita solitaria, contemplativa, consolata di pratiche religiose, nella
casa de' suoi vecchi, gli balenava nella memoria il consiglio di don Giuseppe
Flores. E tosto rompeva con questi sogni. A poco a poco si venne formando in
lui la convinzione che il cimento fosse decisivo, che se gli riuscisse di
vincere, sarebbe poi rimasto fermo per sempre nel concetto più razionale della
vita e del suo fine; che in lui, sciolto da vincoli di dogmi e di Chiese, ma
interamente sacro a una causa di giustizia, il sangue di suo padre si sarebbe
alfine pacificato; molto più se sapesse prendere certa risoluzione coraggiosa,
compiere certo grande sacrificio alla giustizia di cui aveva trovato, e non
riferito a Jeanne, la ragione e la proposta nel portafogli. Ma quando anche
Jeanne, da lontano, gli avesse letto nell'animo questa vittoriosa riscossa
dell'elemento razionale sul mistico, non ci sarebbe stato, per lei, da
rallegrarsene molto. Poteva il suo amore accordarsi con i doveri di un
apostolato sociale quale Piero lo concepiva? Non era da sacrificare questa
debole passione per una donna che non sapeva comprendere la grandezza, la
bellezza della sua idea? Non ne sarebbe pure contenta sua madre, se sapesse?
Doveva essere austera, sua madre, doveva essere inesorabile per chi, cedendo
alla passione, rompe, anche solo momentaneamente, una fede giurata e stringe
legami non confessabili, legami che non si coprono senza mentire.
Seduto, nel pomeriggio del
venerdì, sul muricciuolo dell'orto fra le rose piantate da suo padre, che gli
parevano tanto più soavemente spirituali di quelle voluttuose e orgogliose di
villa Diedo, egli stava pensando che, se Jeanne non gli avesse resistito, non
sarebbe stato possibile di lasciarla mai più, quando gli portarono il
telegramma di lei da Milano. Molesto, quel telegramma. Gli garbava poco
d'incontrarsi con Jeanne così presto, prima di aver fermata dentro di sé la via
da tenere. Riflettendo su questa impressione sgradevole, si domandò:
"L'amo io ancora?'. E subito sentì dentro di sé il freddo della risposta,
lo sgomento di una propria possibile ipocrisia. Altre volte, però, nel contatto
dello scetticismo di lei, del suo spirito di contraddizione, gli era parso di
non amarla più ed erano state freddezze passeggere.
Partire o non partire, l'indomani
mattina? Finì col dirsi ch'era meglio affrontare presto questo incontro quasi
temuto. Rientrando pensoso in casa dove un giardiniere di Lugano lo attendeva
per intendersi circa i rampicanti da sostituire alla passiflora morta, non poté
a meno di paragonare il sentimento proprio, anche nel passato, a quello di
Jeanne, di riconoscerlo tanto minore di forze e di nobiltà, di dubitare che se
non fossero state, nel principio, le appassionate audacie di lei, se non fosse
stato in lui un cieco desiderio di libertà, di vita e di amore, il primo
incontro in ferrovia non avrebbe avuto alcun seguito.
Il sabato mattina, venuta l'ora
della partenza voci pie di memorie, voci tenere di cose gli ammollirono l'anima
come nella sera memorabile. L'arancio, il mandarino del giardinetto, le
finestre aperte della sua povera casetta vuota, le rose, il bel pino dell'orto
gli parevan guardare a lui mentr'egli passava sul battello, con il dolce
sguardo accorato dei dolenti che non han voce. A misura che si allontanava, i
richiami del presente più e più potevano contro i richiami del passato, del
romito asilo di pace; ma correndo in ferrovia Val Porlezza, lo riprese
improvviso nella memoria il senso del turbamento premonitorio che, giorni
prima, passando di là e durante tutto il viaggio, aveva provato. Era egli
dunque stato tratto in Valsolda da una energia soprannaturale? O forse il primo
impulso n'era venuto da un sogno dimenticato? Forse gli eccitamenti di Jeanne e
l'abitudine di recarsi sul lago in primavera erano stati causa del sogno?
Passata Grandola, all'apparire dell'orientale seno di cielo che oltre il
sottile colle di Bellagio si sprofonda fra due ali di montagne in fuga più giù
verso Lecco, trasalì come se già gli fosse apparsa Jeanne, non pensò più che
lei e il prossimo incontro. A Rovato, passeggiando in attesa del treno di
Milano, il cuore gli batteva forte. Al primo vederla si sentì più tranquillo.
Gli fu gradito di non trovarla sola. Il mormorato "pietà di me', benché
giungesse previsto in quella o in una simile forma, gli strinse il cuore. Ella
era bellissima nel suo abito di crêpe crème, guernito di velluto nero,
col suo cappello Rembrandt a piume nere, con i guanti neri e due larghi cerchi
d'oro liscio ai polsi. L'umido fuoco dolce de' grandi occhi aveva una mestizia
implorante, e se il braccio si scostava timido da un lieve contatto col braccio
di lui, era con un visibile palpito del seno, con un commento di soavità
infinita. Quando ella, nelle tenebre, gli prese e gli baciò il polso, se ne
sfiorò gli occhi umidi, egli non ne provò alcuna dolcezza voluttuosa, ma
piuttosto una tenerezza riverente. Chi lo avrebbe amato di un amore tanto umile
e grande? Non era esso degno di riverenza quanto ogni altra cosa al mondo? E
che succederebbe s'ella ora gli dicesse: "Non sono più scettica, mi sono
convertita agli ideali tuoi, ne ardo come te, e, nonché impedirti nell'azione,
ti resisterei se tu posponessi il tuo dovere all'amore'?
Alla stazione di... che precede
di pochi minuti quella dove Piero aveva dato convegno al medico, il viaggiatore
seduto dirimpetto a Jeanne discese e Piero si alzò per chiudere lo sportello.
Il medico era lì, lo vide, salì
nella carrozza, sedette a fianco di lui che, per non parere accompagnar la
signora, aveva preso il posto rimasto libero. Subito venne in mente a Piero che
forse il dottore, pensando essere tra sconosciuti, entrerebbe in argomento
senza riguardi e fu per presentarlo a Jeanne o per rivolgerle la parola; ma poi
non lo fece. Il dottore, non udendosi interrogare, si guardò attorno e solo
quando il treno si mosse, disse sottovoce:
«Qualche piccola novità; non
buona.»
Piero rispose, pure sottovoce:
«Parleremo.»
Gli occhi suoi e quelli di Jeanne
s'incontrarono, s'interrogarono, si sfuggirono. Alla prossima stazione il
medico e Maironi scesero, si perdettero nel viavai della gente. Maironi ritornò
alla carrozza cinque minuti prima che il treno ripartisse. Jeanne era sola ora.
Aveva mutato posto, si era seduta nell'angolo di destra, con le spalle alla
locomotiva, per la stessa ragione che le aveva consigliato di prolungare il suo
viaggio fino a Venezia, per non essere veduta, possibilmente, quando egli,
forse atteso da qualcuno, discenderebbe a sinistra. Era un riguardo per lui,
nuovo, tristemente nuovo.
«Venga venga venga» diss'ella,
piano. E quando Piero le sedette accanto gli piegò la fronte sur una spalla,
gli prese una mano, se la strinse al petto, dimenticando adesso, secondo la
propria natura, ogni cautela, rispondendo alle prudenti rimostranze di lui con
voce piena d'affanno e di lagrime: «Non importa, non importa, non abbandonarmi,
non abbandonarmi, quanto male mi hai fatto, Dio, quanto male! Non senti che
cosa diversa è, non senti che il tuo matrimonio, la tua unione non è, non ha
mai potuto essere come quella di tuo padre e di tua madre, li amo tanto
anch'io, sai, caro, i tuoi morti, tanto tanto, ma perché devono desiderare la
mia disperazione, non importa, non c'è nessuno, lasciami dire, perché, perché?
Cosa ho fatto io a loro, povera creatura? È mia colpa se loro sono morti e se
io sono una povera creatura viva che ti ama tanto, non ama che te, non pensa
che te, non vive che di te, caro amore mio, amore amore amore?...»
S'interruppe, rialzò il capo un
momento, stava per cingere con un braccio il collo dell'amato, ma egli lo
impedì; qualcuno entrava. Jeanne si ricompose, il treno partì. Ella tacque, con
gli occhi lagrimosi, fino alla prima stazione. Allora mormorò:
«Quello era il medico?»
«Sì.»
«E cosa c'è di nuovo?»
«Qualche leggero, fugace segno di
intelligenza da capo e lagrime, molte lagrime, mentre in passato non ha mai
pianto; ma un grave deperimento fisico, progrediente.»
La sommessa voce di Piero suonò
accorata.
«Vorrei che guarisse, sa?» disse
Jeanne. «Non mi creda cattiva!»
Egli le strinse la mano così
forte ch'ella ne fremé di gioia. Per lungo tempo nessuna parola fu più
scambiata fra loro.
Jeanne ruppe la prima il
silenzio.
«Verrà bene a Vena?»
«Ma...»
«Sì sì sì sì!» Ella aveva preso
coraggio e insistette. «Me lo prometta! Che progetti ha, Lei, per l'estate?»
«Io? Un viaggio, ma non per
l'estate solo.
Il viaggio ch'Ella sa.»
Jeanne fece una boccuccia fra
crucciata e sdegnosa.
«Ancora quell'idea?» diss'ella in
uno de' suoi accessi inesplicabili di malignità contro gli altri e contro se
stessa, non sospettando fino a qual segno fosse disgraziata la sua uscita.
Piero si accese in viso, guardò l'altro viaggiatore, tenne deliberatamente,
ostinatamente volto il capo a quella parte mentre lei, pentita, si accusava,
chiedeva perdono, supplicava, scongiurava con una rapidità febbrile di parole
sommesse, concitate, tanto ch'egli alfine aperse rumorosamente un giornale e le
intimò: «Basta!».
Jeanne obbedì sull'atto e Piero
sentì di essere stato troppo aspro, n'ebbe rimorso.
«Non mi parli più così» diss'egli
con dolcezza. Ella non rispose; volto il viso al finestrino, piangeva. Piero
mormorò dietro il giornale: «Mi perdoni Lei adesso». Jeanne rispose quasi
inintelligibilmente «grazie» senza togliere il viso dal finestrino. Egli
riprese con dolcezza maggiore ancora: «Se può, non pensi più così». La risposta
fu: «Vorrei morire».
Egli non osò replicar parola.
Parvero assorti l'una e l'altro nel ritmico battito che durante il loro
silenzio mortale misurava precipitosamente la fuga degli angosciosi momenti.
Quando il treno rallentò e Piero
si alzò a raccogliere il proprio bagaglio, Jeanne trovò modo di chiedergli sottovoce,
a mani giunte, la promessa di salire a Vena. Lo guardò, perché egli esitava,
con una inesprimibile supplica negli occhi, ebbe la promessa, la volle
ripetuta, solenne, baciò con soavità umile di gratitudine la mano amata. Si
lasciarono così.
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