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Piero recò subito alla suocera le
notizie della figliuola, un po' attenuate nella parte più triste. Ella lo
accolse affettuosamente, serena come sempre, ascoltò il suo racconto, e poi,
placida, quasi sorridente, disse una parola di fede: «Mi digo che el Signor ne
fa la grazia», come se avesse udito solamente le parole più gradite e non le
altre. Negli occhi le tremavano due lagrime: due lagrime dolci per la
consolazione di quell'atto di suo genero, di quella gravità commossa ch'egli aveva
mostrato parlando: due lagrime anche pregne di affanno per le parole cui pareva
non avere udite. Lo pregò di restare a pranzo, ma egli si scusò non garbandogli
la compagnia del suocero che avrebbe tirato in campo le elezioni di Brescia e
provando un gran desiderio di solitudine. Allora la marchesa volle chiamare il
marito perché udisse le notizie dell'Elisa dalla viva voce di Piero. Il suo
studio, parlando col genero, era sempre stato di guidarlo, con un roseo
lumicino in mano, nelle viscere di Zaneto, indicandogli una per una le finezze,
le squisitezze di pensiero e d'intenzione cui la gente non poteva vedere in
certi atti, in certe parole di lui, cui vi scorgeva lei e che in fatto erano
molto spesso infuse al vetro della lanterna. «Tuto el resto» soggiunse nel suo
linguaggio ellittico, intendendo chi sa che, forse anche il lavoro per il
Senato, «no xe che per distrarse.» Zaneto venne, fece a suo genero molte
dimostrazioni affettuose e, udite le notizie, si mise a singhiozzare
rumorosamente. Quando Piero se n'andò, lo accompagnò fuori e sul pianerottolo
della scala, gli domandò, con voce ancora lagrimosa, se avesse ricevuto una
lettera dell'avvocato Marchiaro. Piero non l'aveva ricevuta. Allora Zaneto si
diede a masticare, a masticare, tentennando fra il desiderio di parlare della
lettera e il senso del momento inopportuno. «Bene» diss'egli troncando il
masticare. «Insomma, l'avrai.» E passò all'argomento Brescia. Aveva Piero fatto
qualche cosa? Piero rispose «scusa, no» risolutamente, pronto a rendere ragione
della risposta. Ma Zaneto non la chiese. Voltò le spalle e trottò via curvo con
un trotto conforme di «ben, ben, ben.»
Dopo pranzo, mentre Piero stava
leggendo le lettere rimandategli da Brescia durante il suo soggiorno in
Valsolda, capitò da lui la marchesa. Le prime parole che disse, con l'aria di
annunciare una novità interessante e di metterci anche della fretta, furono:
«El papà ga pianto tanto, dopo,
poro omo.»
Piero capì subito, seccandosi di questi
avvolgimenti eterni della vecchia signora, ch'ella non era venuta per
apprendergli un tale avvenimento. Per verità ell'aveva indovinate le occulte
cagioni dell'uscita di Zaneto sul pianerottolo della scala, temeva che di
queste importunità fuori di luogo e di tempo il genero serbasse una impressione
sinistra e voleva passarvi sopra la sua spugna ottimista, inzuppata di lagrime
del marchese. Ma c'era di più. Pranzando, o piuttosto simulando di pranzare,
perché non toccò cibo, aveva escogitato uno de' suoi sapienti artifici per
allontanare Piero, adesso che le sue disposizioni parevan buone, da villa
Diedo.
Detto delle lagrime, soggiunse,
nel consueto stile, che Zaneto avrebbe voluto andare ma ch'era meglio di no.
«Dove andare?» fece Piero, non
senza malignità. «A Brescia?»
«Eh no, no! A cossa xelo, a...»
La signora nominò il luogo
doloroso. Piero non parlò ed ella, dopo un lungo silenzio imbarazzato, fece:
«Ecco.»
Piero la sentiva impigliata nelle
spine di un esordio e non aveva voglia di aiutarla. Tuttavia, essendo entrato
il domestico per accendere il gas, lo licenziò. Era quasi un invito a parlare.
Infatti la suocera gli domandò se fosse contento.
«Di che, mamma?»
«Del servitor.»
Una risposta indifferente e
un'altra pausa. Piero, tanto per fare qualche cosa, gettò nel cestino alcune
buste lacerate. Allora la marchesa fece questa osservazione acuta: «Lettere.
Ghe n'ò avudo una anca mi».
Ella si mise a parlare
confusamente di una lettera scrittale dalla villa dov'era venuta apprestando un
quartiere per la sua figliuola, quando uscisse dal manicomio. I bambini del
gastaldo avevano il morbillo. «Dunque mi digo che no convien.» Questo primo
piccolo garbuglio uscì alla luce dalla occulta matassa dei suoi pensieri.
«Che cosa non conviene, mamma?»
«De condurla là.»
Piero fece per domandare: chi? ma
comprese in tempo che si trattava dell'Elisa, certo. Silenzio.
«Che ghe sia malanni a cossa
xela?»
«Dove?»
«A Valsolda.»
L'inatteso nome, l'inattesa
proposta che balenava nei disordinati discorsi della marchesa, lo colpirono.
«Non lo so» rispose. E si vide
nel paese mistico, nella conscia casa, sulla terrazza dello zio Piero e di
Ombretta, cinto di solitudine, di silenzio insieme a sua moglie stupefatta,
come uscita da un sogno. Per un istante; il sogno, adesso, era la guarigione di
Elisa. La marchesa mise finalmente fuori la segreta sua idea: non potrebbe il
genero recarsi in Valsolda, disporvi la casa per un soggiorno anche invernale?
Ella, che non aveva mai veduto la Valsolda, si pose a discorrere come se
l'avesse familiare, mettendo assieme brandelli di cose udite e rimastele
malconce nella memoria, confondendo la casa di Oria con la casa di Cressogno,
il lago di Lugano con quello di Como, l'Italia con la Svizzera, ma tirando via
impavida a scovar tutte le perfezioni di quel paese per la congiuntura
presente, se le speranze si avverassero; a trovarvi ogni possibile accordo con
i gusti della sua figliuola, che in fatto ne aveva riportato una impressione
molto sfavorevole. Chiuse gli arruffati ragionamenti con pregare il genero di
allestire una camera in Valsolda anche per lei, ma non verso il lago; perché a
Venezia - ella disse così - il tremolìo dell'acqua le faceva venire il
capogiro. Il genero, durante un discorso tanto fantastico, era venuto pensando
altra cosa: e invece di rispondere alla povera vecchia signora, la interrogò:
«Senta, mamma. Per tutto questo
c'è tempo a pensarvi. Adesso Le vorrei domandare di una cosa molto antica. Nei
primi anni del Suo matrimonio, avrebbe Lei mai udito parlare in casa Scremin di
una grossa lite che i vecchi Maironi avrebbero vinta contro l'Ospitale Maggiore
di Milano?»
«Io?» fece la signora,
trasognata.
«Sì, Lei. Ci pensi bene.»
Ci pensò e rispose: «Non saprei.»
Appena ebbe risposto così,
ricordò di avere udito il suocero Scremin parlare delle ricchezze di casa
Maironi come di roba male acquistata, male sottratta a un Istituto pio.
«Aspetta» diss'ella. «Forse.»
Le balenò il sospetto di essere
stata imprudente e soggiunse: «No, non so».
Piero si tenne sicuro ch'ella
sapesse.
«Ho trovato qui una lettera
dell'avvocato Marchiaro» diss'egli. «Questo sì, lo sa?»
Questo non lo sapeva davvero.
«L'avvocato Marchiaro» riprese
Maironi «mi scrive che ha negoziato con Carlo Dessalle un mutuo per papà,
grossissimo; che per il momento le trattative sono interrotte e che vorrebbe
riprenderle offrendo la mia firma. Ora io non potrei dare oggi la mia firma
neppure se in massima vi fossi disposto, perché di questi giorni ho scoperto
certe cose gravi che riguardano la mia sostanza e che m'impediscono, almeno per
ora, di disporne. Lo dica Lei a papà.»
Alla povera donna cadde il cuore.
Un mutuo con i Dessalle! Ah, Zaneto, Zaneto! Non trovò niente a dire e si alzò,
angosciata, scura. Oltre al maggior dolore le cuoceva di non poter cavare a
difesa del marito i soliti arzigogoli d'interpretazioni benigne, di trovarsi,
davanti a Piero e per opera sua, così disfatta. Se ne andò silenziosa, seguita
rispettosamente da lui fino alla soglia del suo appartamento, dove lo congedò
con queste asciutte parole senza voltarsi:
«Mi no ghe digo gnente, sètu.»
Piero ritornò alle sue lettere.
Gli era venuta prima fra le mani una carta da visita di don Giuseppe Flores.
Ecco adesso anche una lettera sua. La guardò a lungo, invaso come quel giorno
in Duomo da redivive immagini e ombre della sua confessione al vecchio prete,
là nello stanzino della solitaria villa, dal senso molesto del giudizio che
quell'uomo doveva portare di lui. V'era tuttavia una differenza. In Duomo
l'incontro con don Giuseppe gli era stato sgradevole; adesso la vista dei suoi
caratteri lo turbava di un turbamento che non era senza mistura di un desiderio
e di una particolare commozione, perché sempre don Giuseppe gli aveva
ricondotto le immagini dei suoi genitori e ora gliele riconduceva tanto più
note e vive e parlanti all'anima sua parole di amore imperioso. Aperse la
lettera e lesse:
Caro signore e amico, ero
venuto da Lei per la silenziosa preghiera d'una poveretta che il Signore ha
creato augusta e, vorrei dire, sacra, con doni mirabili di dolore e di
sommessione al dolore. Essa non osò espressamente affidare a questo disutile,
cadente prete un messaggio per Lei, prezioso e grave di sapienza non umana.
Altre mani erano da questo, io lo tolsi all'insaputa della persona che dico; e
adesso lodo Chi non permise che io lo portassi con la mia voce malviva, con la
mia parola rotta. Penso perciò di non ritornare a Lei, d'inviarle dove mi han
detto ch'Ella ora è il messaggio prezioso senza pronunciarlo, chiuso in un
ideale vaso suggellato ch'Ella facilmente aprirà se mi ascolta bene. Pensi anzi
tutto le confessioni dolorose che in un'ora di travagliata coscienza Ella venne
a portarmi nella mia solitudine con tale generoso abbandono, con tale generoso
impeto che in quel momento io mi sentii umiliato davanti a Dio di accettare da
Lei parole riverenti.
Pensi quindi la creatura
desolata che, non lontana da Lei, soffre nel suo cuore materno più di quanto il
mondo veda e creda o possa mai credere. La pensi ora se mai qualche volta
l'avesse, non del tutto involontariamente, dimenticata. Pensi quanto Ella è pur
troppo sola nel suo dolore immenso né dubiti che labbra crudeli non Le
sussurrino continuamente crudeli parole, non Le parlino di amare offese alla
sua diletta infelice. Pensi finalmente che la silenziosa preghiera mi viene da
Lei, e altro ad aprire il vaso chiuso, a leggere il messaggio ascoso non Le
bisogna. Prossimo al sepolcro, io sento con tremore e speranza venirmi incontro
anime care e sante che partirono prima di me. Stamani all'altare pregai la
Divina Misericordia che mi concedesse di partire alla mia volta con un altro
messaggio, con un messaggio dolcissimo per due di quelle anime ascese in Dio,
per due anime che nel loro cammino terreno santificarono a Lei, caro amico, una
simile casa fra due cipressi, in riva ad acque solitarie, accanto a una povera
chiesina che neppure io so dimenticare. Suo D.
Giuseppe Flores
Era una commovente lettera e
aveva in sé dolcezza di conforto che lo scrittore non aveva sospettata. Non era
Piero già disposto ad allontanarsi da Jeanne? Non era egli anche avviato a
compiere un grande atto di giustizia, il sacrificio di quella ricchezza che suo
padre e sua madre non avevano toccata, e non era questo pure un atto di figlio
degno, non era un messaggio di gioia da portare alle due anime ascose in Dio?
Vero, a suo padre ciò non sarebbe bastato. Forse neppure a sua madre. E neanche
poteva bastare a quel venerando don Giuseppe. Ma! Ah s'egli non avesse
conosciuto altri cattolici! Se non fosse vissuto, da bambino in poi, nel
contatto di tanta meschinità cattolica, intellettuale e morale! Come non
pensare che suo padre, don Giuseppe Flores e qualche altro cuore alto, qualche
altro intelletto forte, se la Chiesa cattolica ne possedeva, non si potevano
propriamente dire cattolici, che la loro era un'altra religione, una religione
superiore al comune gretto cattolicismo, pauroso della ragione, schiavo in
tutto dell'autorità dispotica deificata, tanto aspro a chi ne sta fuori, tanto
impastoiato negl'interessi terreni, antiquato nello spirito come nel
linguaggio! Egli aveva una volta discorso di religione, a villa Diedo, con un
certo scrittore francese, di grande ingegno, che si professava cattolico e
concepiva il dogma cattolico in modo così ardito e nuovo che Piero gli aveva
detto: «Ma Lei non è cattolico!». Colui aveva risposto: «Come il vocabolo è
comunemente inteso, no, non lo sono». Don Giuseppe Flores era prudentissimo, ma
si poteva giurare che non intendeva il cattolicismo alla maniera dei Quaiotto
né dei Záupa, né della teologia ufficiale, né dei temporalisti vaticani. E
allora perché gli uomini come lui, come quel francese, non parlano alto? Perché
non richiamano i loro fratelli al vero? Perché non tentano una riforma della
loro Chiesa, perché non si levano, se occorre, contro i despoti, almeno contro
quelli anonimi? Piero lo aveva detto a quel francese e il francese aveva
risposto: «Per far questo bisogna essere santi». E perché non lo sono, santi?
Perché non lo diventano? È tanto difficile spogliarsi degli averi e dei
piaceri?
Egli ebbe un momento di orgoglio
pensando che questo appunto stava per fare benché non fosse santo né legato, di
fatto, ad alcuna Chiesa, ad alcun Credo
ufficiale.
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