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Pensate un cornuto arcavolo
mostruoso degli elefanti, invadente a muso basso l'ampia sua via, pôrto
l'occipite nel sole di sotto la soma d'una piramide enorme, affondati i fianchi
rigonfi nell'ombra. Così, fra le due strette valli incise dai fendenti di un
dio, lo sperone che porta Vena di Fonte Alta si protende dalle radici di Picco
Astore a fronteggiar con due corna il gran cavo di Villascura. Lassù nella loro
cintura di abissi ondulano supini al cielo i pineti e i faggeti di Vena,
macchiati di smeraldo chiaro dove il prato li rompe e dilaga, picchiettati di
rosso e di bianco dove stormi di casucce si annidano. Chi li contempla
dall'alto dell'obliquo alato Picco Astore o delle grandi montagne nubifere di
Val di Rovese e di Val Posina, non legge il loro minuto poema squisito. Ma il viandante
vagabondo per i sinuosi lor grembi si domanda se ivi non siansi amate un
momento, sull'aurora del mondo, meste Intelligenze delle montagne e gaie
Intelligenze dell'aria; se la terra obbediente ai loro mobili sensi non siasi
composta e ricomposta intorno ad esse continuamente in talami oscuri, in alti
seggi di riposo meditabondo, in scene di malinconia e di riso, di alti pensieri
e di scherzi, che poi fermate al repentino sparir degli amanti abbian serbato
per sempre l'ultima forma. Ogni cosa vi ha l'impronta di un sentimento, di una
personale idea di bellezza, che ci movono a sospirare per un triste,
indefinibile senso dell'assenza di qualcuno che ivi passò e che avremmo amato.
All'erboso velluto di un pratolino appuntato nel faggeto fra due curve ali di
scaglioni petrigni dove grandi abeti montarono, scena di preludi amorosi,
segue, sotto le dense, distorte braccia dei faggi, un dedalo cadente di muscosi
giacigli cavi nell'ombra chiara e verde come acqua immobile di lago in un
vallone del fondo. Il sentiero che gira l'omero ignudo di un colle a scoprir
lontane conche di pascoli, lontane guardie di acuti abeti allineati su alture
terminali di quel paradiso, sdrucciola di là verso l'orlo di una coppa vuota
incavata nel prato quasi dal roteare di un vortice, ove fu dolce a qualcuno
giacer sul fondo, contemplar il cratere imminente in giro, le felci pendule,
gli ellebori, i ciclami, e sopra, nel bianco disco di cielo, il veleggiar
eterno delle nubi. Il viandante ode tratto tratto nel vento vagabondo le diverse
voci degli alberi diversi, le umili e le superbe, le tenere e le gravi. Vede
sparsi nel bosco sedili di pietre candide, radi sedili di contemplatori
solitari, adunati sedili di assemblee, scolpiti di geroglifici indecifrabili
come i colloqui degli alberi, forse lavoro di uditori antichi, note di canti
aerei fermate nel sasso, forse ricordo ai venturi di chi passò. Ma sopra il
verde lucente dei faggi, sopra le conche dei pascoli e gli omeri ignudi dei
colli ricompare uniforme ad ogni passo il pensiero dominante del poema,
l'obliquo alato Picco Astore; e in giro alle alte sue tristi nudità
ricompaiono, dovunque i sentieri cavalcano un dorso prominente, assise nei loro
manti come gli amici di Job, le grandi montagne nubifere di Val di Rovese e di
Val Posina. E in un selvaggio burrato dell'Astore che si cercano piangendo nel
nascere le polle divise dell'Acqua Barbarena, la Fonte Alta, e tosto si
appagano nel vaso di pietra onde corrono quindi, ridivise, a dolersi dolcemente
ancora negli sparsi casali di Vena e nel giardino della signora che a villa
Diedo, fra la conferenza di Carlino e il ballo, apprese con inquietudine pia il
progetto di Jeanne, il pericolo, se Maironi la seguisse, d'una infezione
mondana nella sua casta solitudine alpestre.
Presso la chiesa, sull'orlo di
Val di Rovese, è un piccolo albergo non posto dalle Intelligenze delle montagne
né da quelle dell'aria, rustico al pian terreno dove il vino fermenta la
domenica in canzoni e vocii, borghesemente lindo le scale sonore di abete, le
stanze dall'impiantito di abete, che assiti di abete dividono, odorate di
abete, dov'è gradevole, forse per la funebre somiglianza, sentirsi vivere.
Capitano colà l'estate dal piano modesti clienti, visini anemici, stomacuzzi
inerti, piccole borse di artisti e di poeti, uno dei quali ultimi, innamorato
di Vena, dell'Acqua Barbarena e di Picco Astore, ci viene tutti gli anni e ha
imposto a ciascun sasso, a ciascuna zolla dell'altipiano, nomi che nessuna
carta topografica riproduce e che tuttavia trovano favore. Così si spiega lo
sbalordimento di un ingegnere del Catasto, che recatosi all'Hôtel Astore in cerca di Carlino, una domenica, quindici
giorni dopo l'arrivo dei Dessalle a Vena, si udì rispondere dalla cameriera che
il signore non era in casa e che forse lo avrebbe trovato nel Covile del
Cinghiale.
Il Covile del Cinghiale si cela
tra gli anfratti di una costa selvosa a pochi passi dall'albergo e dal villino
dei Faggi dove la signora Cerri, la confidente del candido maestro Bragozzo,
stava con la sua famiglia da dodici giorni. Fra una lama scoperta di ripido
prato e una profonda coppa, la "Pentola degli Stregoni', onde sopra minute
plebi di arbusti salgono abeti a glorificarsi presso le nuvole, tre macigni si
porgono dal pendio come tre scarnati menti di vecchioni. Nel mediano il poeta
fantastico raffigurò un grugno di cinghiale. Dal destro e dal sinistro pendono
i due capi della breve semicorona di faggi che forma il Covile. Due giovani
abeti ne fiancheggiano la stretta bocca, altri due si disegnano nell'intervallo
dei tronchi un finestrino che guarda, oltre la lama verde, una muraglia di
tozzi faggi fogliuti e bassi.
Nell'ombra mobile del Covile,
sforacchiata di sole, stavano a conversare, seduti, Carlino Dessalle, la
signora Cerri, il maestro Bragozzo, ospite dei Cerri, Bassanelli sfuggito per
due giorni alle cure del Governo, il poeta fantastico e il notaio di Vena, un
savio, lento di gambe e di parola. I cinque bambini della signora Cerri
facevano il chiasso nella "Pentola degli Stregoni'.
La signora lodava l'aria di Vena,
così penetrata di spirito puro e anche ilare. Soggiunse timidamente, arrossendo
nel dubbio di fare un discorso pretenzioso, alcune parole sulla purezza ilare
di certi Santi, di certe anime elette che tuttavia s'incontrano qualche volta
nel mondo. Allora il candido maestro la guardò con una faccia illuminata di
ricordi sottintesi e le disse, pensando alla conversazione di villa Diedo, che
nell'aria di Vena non c'era odore di quei tali pasticci.
«A pian!» fece il notaio, esperto
dei costumi venaschi. Non poté metter fuori la sua esperienza perché Bassanelli
saltò in mezzo a dire che l'odor di pasticcio a lui non dispiaceva e che invece
l'aria di Vena era salubre perché non vi era mai odore di abiti neri né a coda
né senza coda; «né de velade né de veladoni!» La signora Cerri osservò,
approvando la chiusa del discorso Bassanelli e deplorando in cuor suo
l'esordio, che già nel paese degli abiti neri una punta di putrido c'era sempre
nell'aria.
Allora Carlino ribatté che si
doveva dire molto maturo invece
di putrido e che questo odore di
avanzata maturità non era un difetto ma una squisitezza perché conteneva in sé
l'idea della perfezione più che perfetta. Perciò gli faceva molto piacere di
apprendere dal signor notaio che fra l'aria di Vena e l'aria della città,
riguardo a certi odori, non ci fosse differenza. «A pian, a pian!» esclamò il
notaio. E subito la signora invocò il poeta. Che ne pensava il poeta?
Il poeta, che solo appariva tale
nella zazzera e nella cravatta male composta, che si chiudeva, quando la gente
pareva curarsi poco di lui, in accigliati silenzi e invece quando gli si
mostrava deferente sfrenava subito la sua parola incomposta quanto la cravatta
e la zazzera, cominciava a rodersi che nessuno lo introducesse ossequiosamente
nella discussione; per cui lodò molto in cuor suo la intelligenza superiore
della signora Cerri e prese le parti di lei con tutto il fervore delle sue
opinioni e del suo irritabile amor proprio, mescolati insieme, spumanti.
Mediocre artista, si diceva piccolo a parole, si teneva grande nel cuore. Gli
pareva esser male apprezzato nel paese degli abiti neri mentre negli alberi e
nei macigni di Vena aveva trovato sempre, quando parlava a voce alta, nei suoi
vagabondaggi solitari, un'attenzione piena di stima e di simpatia. Egli disse
che realmente quest'odor di putrido l'aria cittadina lo aveva ma ch'era un
odore gradito al suo naso e non per le considerazioni estetiche dell'amico
Dessalle. Gli era gradito come l'annuncio ufficiale che tante cose odiose e
fastidiose marcivano e che una salutare fase della evoluzione nuova era
prossima; perché il poeta era un trasformista fanatico e non sapeva, quasi,
ordinarsi il pranzo senz'arringare il cameriere con l'evoluzione. Puzzava di
putrido nel paese degli abiti neri l'accattonaggio universale, quello lurido
delle strade, quello poco pulito delle anticamere, quello schifoso dei
gabinetti. Il puzzo annunciava che gli attuali ordini economici, gli ordini
amministrativi, gli ordini parlamentari erano marci e si sarebbero presto
sfasciati. Puzzavano i partiti politici; il partito socialista con le sue
camicie sporche plebee e i suoi capi unti di grasso borghese; il partito
liberale con la sua rettorica ammuffita della bocca e la sua feccia scettica,
egoista, del cuore (qui il notaio fece invano «a pian!»), il partito clericale
con la sua religione guasta, mal conservata nell'aceto. Il triplice puzzo
annunciava una prossima trasformazione pure di questi organismi. Puzzavano di
putrido le classi ricche con i loro titoli morti, con i loro fumi di vanità,
con le loro corruzioni eleganti del corpo e dello spirito. Il poeta aveva
tartassato i socialisti ma in fondo parlava come un socialista e la
conversazione passò dai malanni sociali alle medicine socialiste. Anche il buon
maestro volle dire la sua: se tutte le note musicali volessero essere il la perché il la comanda, addio musica! La signora batteva il
chiodo della giustizia, dei torti che le sono pur fatti nella società del
nostro tempo; e Carlino, dopo avere rimbeccato il poeta mettendo avanti che
praticamente l'avvenire non esiste ma esiste soltanto una serie di presenti,
sostenendo quindi che vera scienza della vita è il godimento e la
interpretazione ottimista del presente, uscì a dire che in fin de' conti esistono
infiniti concetti individuali della giustizia, ma proprio la giustizia non
esiste.
«A pian!» fece il giureconsulto.
Era destino ch'egli non potesse mai passare oltre il suo consueto esordio.
Jeanne si affacciò all'entrata del Covile con Maironi.
La signora Cerri arrossì. Ella
non sapeva che Maironi fosse a Vena. Non vedendolo comparire aveva sperato e
osservato Jeanne. Jeanne assisteva, ogni domenica, alla messa parrocchiale e vi
teneva un'attitudine perfetta. Veniva quasi tutti i giorni da lei, le mostrava
tale simpatia da potersi dire affezione, e ne ricercava la confidenza, si era
amicata i bambini, s'intratteneva volentieri col signor Cerri di agricoltura e
di politica, si compiaceva visibilmente di un ambiente nuovo per lei, semplice
nella larghezza degli agi, gaio dentro le frontiere severamente custodite della
morale e dell'ortodossia cattolica, cristiano e moderno. La giovine signora non
intendeva quanto potesse ella stessa sull'animo di Jeanne Dessalle con il suo
alto candore rilucente nella dolcezza dell'aspetto, con la sua religiosità
penetrante in tutti gli atti della vita, pura di piccinerie ascetiche e di
piccinerie morali. Era lieta e quasi sorpresa della serietà, delle buone
inclinazioni, dei sentimenti elevati che veniva scoprendo in lei. Non le pareva
possibile, nella sua rettitudine, nella sua inesperienza delle cose umane, che
una persona impigliata in relazioni colpevoli mostrasse tanta bontà; e
fantasticava di un pentimento dell'amica, di una rottura già successa. Perciò
quando vide Maironi alle spalle di Jeanne non poté nascondere il proprio
turbamento doloroso.
Jeanne aveva negli occhi quella
luce indicibile che la presenza dell'amato vi metteva sempre.
«Certo» diss'ella, prima di
mettere il piede sull'entrata del Covile «certo che la giustizia è un'opinione!
Chi è l'avversario di mio fratello?»
«Io» rispose la signora Cerri con
voce fredda di celato rimprovero. Jeanne non l'aveva veduta e la intese sino al
fondo. Appena scambiati i saluti, si dolse di Carlino che non l'avesse avvertita
prima di uscire, si dolse di non aver saputo dove raggiungere la comitiva e
vantò la propria intuizione. Al fremente Bassanelli sfuggì un ironico
«famosa!». Carlino, seccato della parte di distratto affibbiatagli dalla
sorella per coprire l'ottenuto suo intento di restar sola con Maironi, mise il
broncio. La Cerri si alzò, ricordò al maestro ch'era vicina l'ora della lezione
alle bambine e prese commiato. Il buon Bragozzo, scandalizzato dalle tesi di
Carlino, dalla simpatia di Bassanelli per i pasticci, dal discorso del poeta
sui clericali e dalla comparsa di Piero in quella compagnia, si sfogò, appena
passata la Pentola degli Stregoni, con la signora e le confessò che a lui quel
così detto Covile del Cinghiale
era parso un bel porcile: «El staloto del mas'cio».
Intanto Jeanne cercava di
riaccendere la discussione. Bassanelli dichiarò ruvidamente che se altri voleva
la giustizia non assoluta, a lui bastavano i carabinieri assoluti e che
intendeva ritornare all'albergo col notaio per bere un'assoluta porcheria
qualsiasi che gli facesse digerire la metafisica. Zoppicò giù per il sentiero
con tanta sdegnosa fretta che il povero notaio, non potendo tenergli dietro e
volendo pure comunicargli una sua riflessione, frutto prezioso del silenzio, lo
richiamò.
«A pian! La diga! A pian! Per
quela signora xe relativi anca i marii.» E spruzzate sull'arguzia due risate
grosse e corte, descrisse con un cipiglio severissimo lo scandalo dato da
"quella signora', che all'arrivo di Maironi, la sera precedente, si era tradita
per modo davanti alla gente dell'albergo da imbarazzare visibilmente il suo
stesso amante. «Che amante!» fece Bassanelli. L'altro si scusò. Aveva detto
quello che tutti dicevano.
Maironi non desiderando, nel suo
stato d'animo, né parlare né udir parlare accademicamente di giustizia quasi
per passatempo, lasciò in asso il poeta, che combatteva i fratelli Dessalle
guardando spesso lui come uno sperato sostegno, e uscì a considerare la
Pentola. Jeanne lo raggiunse.
«Ripigliamo il nostro discorso»
diss'ella sottovoce, movendo un passo di tacito invito ad allontanarsi di lì.
«Se ciascuno di noi andasse a ricercare le origini del proprio avere, non crede
che si troverebbe tutti della roba mal venuta? Scusi, non vi sarebbe qui un po'
di romanticismo? Può far tanto più bene Lei, colla Sua ricchezza, che
l'Ospitale Maggiore di Milano!»
Invece di rispondere, Piero la
interrogò fremente:
«Come si può dire che la
giustizia è un'opinione?»
«Eh, sicuro!» diss'ella, pure
concitata. «Ed è proprio questo il caso! A Lei pare giustizia spogliarsi del
Suo contro una sentenza di giudici e a me pare giustizia di non sostituirmi ai
giudici. Opinione la Sua, opinione la mia, opinione quella dei giudici!»
Appena detto questo si raumiliò
al solito, chiese perdono con tenerezza affannata.
«Non so pensarla povero»
diss'ella, «non so pensare che Le manchino gli agi cui è abituato, sarei
contenta di vivere miserabilmente io in uno di questi abituri purché a Lei non
mancasse la pienezza della vita e il mezzo di essere generoso secondo il Suo
cuore e la Sua mente!»
Volle sapere come proprio si
fosse espresso l'avvocato. Piero le rispose freddo, col tono di chi non è più
disposto a discutere. Secondo l'avvocato, l'Ospitale Maggiore aveva perduto la
lite contro i Maironi per un puro vizio di forma nel testamento di un marchese
Reyna, cugino di Alessandro Maironi, bisavolo di Piero.
«Nessun socialista» diss'ella,
piano, «farebbe quello che vuol fare Lei e come socialista...»
Non si arrischiò a compiere la
frase, a dire che un socialista avrebbe ragione, come tale, di non agire
secondo un religioso rispetto dell'idea di proprietà, del diritto di testare,
che avrebbe ragione di non favorire Opere pie, istituzioni che attenuando i
guai prodotti da un sistema economico ingiusto, lo tengono in vita.
«Io non sono un socialista come
gli altri» disse Piero. «Certe teorie non comincio ad applicarle a mio
beneficio.»
Presso al fondo del valloncello
che va da settentrione a mezzodì, fra il Covile del Cinghiale e la chiesa,
sull'orlo di un pendio breve ma ripidissimo, Jeanne si fermò.
«Mi dia la mano!»
Afferrò la mano concessa,
sorrise, la strinse, discese, sussurrò: «Come sei forte!».
Era la prima volta che ritornava
al tu, dopo l'arrivo di Piero. All'ultimo passo, toccando il piano, si
abbandonò col petto sul dolce sostegno, avviluppò la persona cara con l'aura
odorosa e tepida della propria.
Aveva tanto tremato ch'egli
mancasse alla promessa! Gioiva tanto della sua presenza, sperava tanto!
Dirimpetto a loro, sul ciglio dell'alta costa, l'albergo biancheggiava fra gli
abeti. Piero, pallido e silenzioso, prendeva già quella via. «No!» diss'ella
con una voce, con una boccuccia di bimba viziata; e accennò del capo al
sentiero che risale il valloncello verso mezzodì. «All'albergo c'è Bassanelli,
c'è tanta gente! Lei mi deve dire cosa farà poi che avrà ceduto tutto il Suo.»
E non poté a meno di trasalire ancora all'idea di questa follia.
«Bene» disse Piero, risoluto a un
discorso definitivo. «Andiamo. Lei non ha ombrello?»
Un velo era sceso sullo smeraldo
dei prati, le ombre degli alberi si erano sciolte nel chiaror diffuso del sole
nascosto, il nebbione fumato su dalle valli, si riversava lento per gli alti
grembi di Vena, per le vette delle selve, affiochiva nei pascoli i suoni sparsi
dei campani, fasciava le pendici nereggianti di Picco Astore. A Jeanne pareva
che un bianco mantello umido venisse avvolgendo silenziosamente lei e Piero,
sul prato soffice, dentro le sue lane flosce, venisse dividendoli pian piano
dal mondo delle cure umane, dal passato, dall'avvenire, spirando loro il dolce
senso di essere anime d'un altro pianeta. Sentì che giungeva un'ora suprema,
che erano in giuoco non tanto la felicità propria e le proprie sorti, che
importavano mai?, quanto le sorti, la felicità dell'amato, illuso da funesti sogni.
Gli passò timidamente una mano sotto il braccio, mormorò: «Ti dispiace?». E
benché il «no» di lui sonasse freddo, gli serrò forte sul braccio la bella
persona. «Caro!» diss'ella.
In quel momento Piero si diceva: «Come
questa donna non comprende!». La resistenza dura di lei alle sue idee, il
tenace scetticismo, quelle fredde ragioni opposte al suo divisamento generoso e
che in fondo, pur non volendolo confessare a se stesso, trovava giuste, almeno
in parte; sopra tutto quel non avergli detto una sola parola di ammirazione,
finivano di staccarlo da lei, lo rendevano quasi sdegnoso, impaziente dei dolci
atti e dei dolci detti.
«Intanto» diss'egli ex abrupto,
per troncare le dolcezze, «non cederò tutto il mio. Conserverò una piccola
proprietà Maironi, antica, non venuta da casa Reyna, e conserverò la casa di
Oria che mia madre ha ereditato da mio zio Ribera. Sarà la povertà, ma non la
miseria. Appena stipulata la cessione andrò in Francia a studiare e forse anche
a lavorare con le mie mani. Sarà il primo passo per servire la mia opinione della giustizia, per diventare, in tutto,
l'uomo che l'anima grande, unica, di mia madre deve avere desiderato in me.
Perché oramai la mia stella è d'incarnare l'ideale di mia madre. Mia madre
sarebbe felice di vedermi abbandonare una classe sociale dove non si vuol
saperne della giustizia eterna per non sentirsene obbligati a sacrifici duri,
oppure se ne fa un Dio personale col quale non è poi tanto difficile di
accomodare i conti; una classe dove non si vuole che godere giorno per giorno,
non si vuole che...»
Non compiè la frase. Alle prime
parole crude Jeanne aveva lasciato il suo braccio; alle ultime, sentendosi
mancare, smorta socchiuse gli occhi, cercava con mano incerta, vagante, di
aggrapparsi a lui per non cadere.
Atterrito, egli le cinse la vita,
si guardò attorno, non vide nessuno, il nebbione era tanto denso! La sostenne,
la incuorò e la rimproverò insieme, affannato. Ella si provava di respingere il
suo braccio, mormorava quasi inintelligibilmente: «No, no, mi lasci, non son
degna, non son degna...». Cingendole sempre la vita, Piero si mosse pian piano
per ritornare all'albergo. La povera Jeanne aveva orrore dell'albergo. «No,
no!» Piero voleva farla sedere un momento, almeno, sul prato. «No, no, mi
conduca alla fontana, mi conduca alla fontana!» Pareva rianimarsi, la voce si
rialzava e si rinfrancava. Piero non sapeva dove questa fontana fosse e Jeanne
non riusciva a spiegarsi.
Si provò di camminare, di
guidarlo. Questo le riusciva meno difficile che il parlare. Si avviò sorretta
da lui, vacillando, ansando, sostando a ogni passo. Avrebbe voluto anche
parlare, ma non poteva, e allora lo guardava in viso con il dolore di questa
impotenza, con uno sguardo indimenticabile. Ebbe anche, nel far sosta per lo
sfinimento mortale, un sorriso infinitamente triste. Una volta le parve udir
voci che le venissero incontro per la nebbia, si tolse dal sentiero,
sgomentata, con uno sforzo. Le voci si dileguarono. «Vuole aspettar un poco?»
diss'ella affranta dallo sgomento e dallo sforzo. Passarono certi casolari e
piegarono a destra in un picciol cavo ombreggiato di noci dove convergono altri
sentieri e chiama con fioca dolente voce una sottile polla dell'Acqua
Barbarena, cascando nella vasca disposta ivi per le mandre. Piero fece sedere
Jeanne sull'orlo della vasca. Non aveva tazza, raccolse l'acqua della polla con
le mani. Ella bevve, impresse la bocca nella commessura delle palme, ebbe un
singhiozzo arido e alla domanda di lui se desiderasse bere ancora, scosse il
capo senza levarlo. Egli disgiunse le mani adagio adagio, le ne sfiorò il viso
pietosamente ed ella subito se lo coperse con le proprie. Poi cavò il
fazzoletto e glielo porse tenendosi ancora l'altra mano sugli occhi, pregò di
bagnarlo, se ne deterse le ciglia, tacque col viso basso e le mani giunte in
grembo. Egli cercò una parola pia, le disse accorato che non aveva creduto di
farle tanto male.
«Mi permette» mormorò Jeanne «di
seguirla dove andrà, senza mai farmi vedere da Lei?»
Egli non rispose ed ella lo
interrogò da capo con l'oscuro fuoco dei grandi occhi aridi.
«Jeanne! Come può pensare a
questo se mi disapprova?»
Ella gli sarebbe caduta ai piedi
se Piero non l'avesse impedito a forza. Gli prese e raccolse i polsi, gli parlò
affannosa, porgendogli il viso, affissandosi in lui con la espressione di un
morente che cerchi negli occhi del medico la speranza:
«No, no, Dio, Dio mio, no, Lei
non sa, Lei non sa! Io ho nella mente delle oscurità disgraziate, io La
contraddico anche qualche volta per una specie di spirito maligno che mi
prende, che mi fa parlare per la mia sventura, ma L'ammiro tanto tanto tanto,
onoro tanto in Lei quella fede in un ideale che vorrei pur avere e non posso,
sento quanto è bello il Suo proposito, quanto è grande, darei tutto il mio
perché servisse ai Suoi studi, al trionfo delle Sue idee, di ciò ch'Ella chiama
la giustizia assoluta.
Non vi è sacrificio che non
farei! Non merito proprio, creda creda, ch'Ella mi dica quelle cose terribili,
non tengo alla ricchezza, non tengo ai godimenti, non tengo al mio ambiente, lo
domandi alla signora Cerri, non tengo neppure all'eleganza se non per Lei,
perché anche se Lei non mi vede, voglio sempre figurarmi di esserle presente.
Se Lei me lo permette, io lascio tutto. Cedo tutto a mio fratello e vengo a
servire Lei se vuole; se non vuole vengo a starle vicino, vivrò di lavoro e
forse Lei qualche volta avrà pietà di me!»
Ella s'interruppe, lasciò le mani
di Piero; i belli occhi parlanti si velarono di pianto. Maironi ebbe il senso
di un'anima che non avesse mai conosciuto bene, resistente per la sua potenza
di amore a una profonda infezione di scetticismo, lampeggiante dall'interno
delle sue nuvole una luce purissima.
«In principio» riprese Jeanne
«l'idea di lasciare mio fratello non mi avrebbe potuto venir in mente. Lei, per
le discordanze nostre, mi ha amato sempre meno e io l'ho amato sempre più,
perché io non avrei mai voluto ch'Ella diventasse come me, avrei voluto invece
diventar io come Lei!»
Tacque e dopo brevi momenti di silenzio
alzò gli occhi lagrimosi aspettando una risposta. Piero teneva i suoi fissi nel
vaporar lento della nebbia, nelle foglie dei noci, gravi di umidore. La
tristezza delle cose pareva conscia di quel silenzio doloroso. «Dio, Dio!»
gemette Jeanne, sottovoce. «Oggi» soggiunse dopo un'altra pausa «se quest'acqua
fosse veleno non Le chiederei se la dovrei bere.» Piero la guardò, attonito.
Appena ella ebbe detto amaramente, come parlando a se stessa, «Neppure si
ricorda!» gli venne in mente Praglia, il bicchier d'acqua sparso.
«Sì» diss'egli, commosso. «Mi
ricordo. Neppure oggi Le direi di bere.»
Ella sospirò: «Per pietà, forse».
«Oh no!»
Jeanne ebbe un sussulto di
speranza, ma poi ripeté malinconicamente: «Sì, sì, per pietà».
Parole calde parvero salire alle
labbra di lui e arrestarsi. Non ne uscirono che queste: «Non lo dica!».
Jeanne si voltò sul fianco e con
la punta dell'indice tracciò sull'acqua la parola: pietà.
«Lei» disse con una tranquillità
nuova, guardando lo specchio dell'acqua ricomposta «ha perduto la poesia
dell'amore, ricadrà nelle tentazioni di prima, si cercherà delle amanti o
piuttosto se ne compererà.»
«Non ho perduto la poesia
dell'amore.»
Ricominciò un silenzio eterno.
Piero guardò l'orologio, osservò
sommessamente ch'erano quasi le tre e mezzo. Aveva ordinato che la vettura
fosse pronta per le quattro, volendo prendere a Villascura il treno delle sei.
Jeanne non lo sapeva, trasalì, ma si chetò subito. Però non si mosse e siccome
egli pareva stare in attesa, disse:
«Vada, io resto qui.»
A lui quella tranquillità parve
sospetta. Aveva udito parlare di precipizi vicini, vaghe apprensioni gli
salirono in cuore. Insistette perché Jeanne si alzasse, perché scendesse
all'albergo. Jeanne ripeteva: «Vada! vada!» senza muoversi.
«Ma non posso» diss'egli
«lasciarla così!» E soggiunse teneramente: «Vieni, vieni, forse un giorno...».
«Forse un giorno...?» diss'ella
in un lampo di dolcezza e di amore.
«Forse un giorno ci sarà fra noi
quella concordia di anime che può giustificare una unione stretta.»
Esprimeva egli il proprio intimo
pensiero oppure lo avevano quelle apprensioni vaghe tratto più in là? Jeanne
tornò a oscurarsi, mormorò scuotendo incredula il capo:
«Pietà.»
Egli si guardò attorno, si chinò,
le pose sui capelli un bacio e sussurrò:
«No, cara, speranza.»
Ella piegò la testa per prendere
quanto poteva del bacio, un fugace lume di beatitudine le si diffuse sul viso.
«Se è vero» disse «che lo speri,
resta fino a domani. Altrimenti penserò che non è vero.»
Egli aveva respirato i soffici,
morbidi, fragranti capelli, la dolce offerta, e gliene tremava il cuore.
Rispose con voce malferma:
«Resterò.»
Jeanne si alzò in piedi, fece
«grazie!», mise un lungo sospiro, guardò Piero come talora una madre guarda
scherzando il suo bambino, con un tenero, gioioso viso infantile; perché a lui
piaceva, in passato, di farsi guardare da lei così. Gli piaceva ancora! Ella
rise un breve sommesso riso, un riso inconsciamente voluttuoso che pareva dire:
«Riconosco la fiamma degli occhi tuoi, un giorno a me sgradita, adesso mi dai
un bacio, lo so, e non sui capelli». Infatti, lentamente lentamente, il viso
del giovane si accostò al suo che lentamente lentamente si disponeva, si
porgeva grave all'incontro.
Allora le due anime salite sulle
labbra si dissero tale una cosa che poi, quando le labbra si disgiunsero, gli
occhi non sostennero di guardarsi. Altre volte Jeanne e Piero si erano
incontrati senza parole in quel pensiero segreto, ma ostilmente. Ora non fu
così. Ora la donna sentiva che vi era un ripugnante modo di trattenere il suo
amore per sempre; l'uomo sentiva che vi era un dolce modo d'incatenarsi per
sempre e che lei non era più tanto ferma nella sua resistenza. Ambedue,
attratti e respinti, trepidavano.
Intanto si era levato un vento
molesto che soffiava loro la nebbia in viso. Campani di mucche scendenti
all'abbeveratoio suonaron vicino. Jeanne e Piero si avviarono verso Rio Freddo,
la prima breve passeggiata di tutti i visitatori di Vena, lei camminando
avanti, in silenzio, col senso dello sguardo fisso di lui, volgendosi con un
sorriso quando lo sentiva tanto forte da soffrirne. Poco a poco la nebbia si
aperse, apparve a destra, nero, imminente, il tragico Picco Astore, apparvero
in un chiarore di sole pallido pendenti grembi e molli dorsi di pascoli, alture
nere gremite di abeti, profili grandi delle creste di Val Posina. E presto
intorno ai due silenziosi ruppe il sereno da ogni parte, l'erbe imperlate
brillarono, lo smeraldo dei pascoli si ravvivò, le cervici calve di Picco
Astore diventaron fulve, gli umidi aromi della montagna odorarono. Jeanne
sedette sur un muricciuolo diroccato che troncava il sentiero dove si gitta dal
prato in una macchia. Pallida, spossata dall'ultima ripida salita, non poteva
parlare, sorrideva guardando lui. Lì presso era un cespuglio di nascenti faggi
misti ad abeti. Jeanne sospirò, guardandolo: «Che piacere vivere uniti qui,
sempre, sempre, dimenticare il mondo basso! Ah! che gioia, che gioia!». Attese
invano una parola di Piero, mormorò ancora, con gli occhi bassi: «Non dici niente?».
Piero non parlò.
Neppure parve udirla. Pareva
guardasse l'ombra del proprio capo sull'erba. Ella si alzò, si fece aiutare a
scavalcare il muricciuolo, si mise risolutamente, seguita da lui, nella
macchia. Pochi passi per intricati rami, su pietroni affondati nei muschi,
sconnessi dalle radici degli abeti e dei rododendri ed ecco, a destra e a
sinistra, l'orribile Profondo, la mostruosa cintura di scogli, lunata e
rientrante sotto le creste coronate di abeti, come una colossale onda che
frangendo si rovescia all'indietro; ecco Rio Freddo, il pauroso confine del
paradiso verde di Vena, la valle dell'Ombra della Morte. Jeanne mise il piede
sopra un lastrone sporgente fra gli abissi. Piero l'afferrò alla vita ed ella
si rovesciò indietro alle sue braccia, chiudendo gli occhi. La strinse a sé, la
coperse, tacendo sempre, di carezze così violente, che Jeanne, atterrita,
supplicò:
«No, no, no!»
Allora il giovine, di botto,
lottando con se stesso, ristette; ella gli sgusciò dalle braccia e scavalcato
il muricciuolo, saltò dalla macchia sul prato aperto.
Qualcuno saliva verso di lei e le
domandò da lontano del "signor conte'. Era il vetturale piantato in asso
da Piero. Il signor conte, partiva o non partiva? Perché lui doveva partire a
ogni modo. Piero cercò inutilmente di persuaderlo a restare fino all'indomani
mattina. Quegli, regolato il suo conto, se ne andò. Maironi guardò Jeanne.
«Dovevo partire stasera?»
diss'egli.
Ella chinò gli occhi e non
rispose.
Discesero in silenzio, ella
seria, egli triste. Ripassando presso la fontana dei noci Jeanne lo guardò alla
sfuggita come per dire: "Il principio è stato qui'. Poi non lo guardò più.
Raggiunto il posto dove, per andare al Covile del Cinghiale, conveniva prendere
a sinistra, esitò un momento. Prese invece il sentiero che sale verso il
villino dei Faggi e di là conduce all'albergo. Non una sola parola fu scambiata
fra loro fin presso al villino. Allora Piero domandò alla sua compagna se fosse
proprio in collera con lui.
«Non lo so» diss'ella, e lo
guardò teneramente, dubitando di averlo offeso. Lo vide così turbato che si
smentì subito, affannosamente:
«No no, caro, non sono in
collera, ti amo troppo!».
Nel villino si faceva musica.
Jeanne si fermò al cancello, ascoltando. Era un pezzo per violino e piano.
L'arco, impugnato da una mano potente, strappava dallo strumento, alternandole
a un fine cinguettio di sussurri, apostrofi grandiose che parvero a Jeanne di
tragico rimprovero e di scongiuro. Un attimo le bastò per pensare che la
signora Cerri, se sapesse, le parlerebbe così e che se lei, Jeanne, avesse
avuto la sorte di suggere col latte la fede religiosa e la rigidezza morale
come la signora Cerri, non avrebbe meritato, né sarebbe per meritare, un tale
rimprovero. I bambini giuocavano in giardino, la videro, corsero a lei battendo
le mani, gridandole di entrare. Ah, entrare lì, in quel momento! Ella fe' loro
cenno che tacessero e si allontanò con Piero mentre il violino riattaccava
l'apostrofe ardente che parve adesso quel che forse immaginò l'autore del
pezzo, il vecchio Tartini, un demoniaco, amaro grido di trionfo.
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