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Era una lunga via dallo studio
del Direttore al piccolo quartiere appartato dove la povera Elisa aveva così
lungamente sofferto e ora stava morendo. C'erano scale da scendere e salire,
lunghi corridoi da percorrere, cortili da attraversare. Vi passeggiavano
persone tranquille di aspetto assai civile, molte delle quali salutarono
rispettosamente don Giuseppe. Una di queste, un vecchio signore dall'aria
distinta, riconobbe Maironi per essergli stato presentato una volta dal
Direttore e lo fermò.
«Come sta la Sua signora? Soffre
tanto, eh, poverina. Già la fedeltà è femmina, non può essere mascolina. Qui ci
dicono matti ma si sa tutto di tutti. C'è qualcuno che veramente non ha
prudenza nel parlare. Bisogna compatire! Grazie a Dio, se sono stato anch'io
così, adesso non lo sono più. Vedo che Lei è con lo Spirito Santo; dicano,
dicano al signor Direttore come ragiono bene, e ch'è un delitto di tenermi
ancora qui!»
Il signor Direttore era poco
lontano, udì, promise amorevolmente a colui di licenziarlo presto, gli
consigliò di andare intanto a pigliar il suo caffè e latte. L'infelice obbedì
silenziosamente, dominato, come un essere inferiore, da un senso, fra pauroso e
sdegnoso, dell'autorità. Il Direttore si unì ai due, parlò allo smarrito Piero,
con la sua filosofia serena, di Amleto, che stava leggendo, delle
geniali divinazioni di Shakespeare nel rappresentare le frenosi, di quel
curiosissimo Amleto che simula la pazzia e non si accorge di essere davvero non
solamente un nevrastenico ma proprio un deficiente.
Sulla piccola scala del
quartierino abitato dalla inferma incontrarono la marchesa Nene, che accolse il
genero con un sorriso tranquillo, con un che di risoluto nel viso e nella voce,
non riuscendo però a reprimere e nascondere quella sovreccitazione nervosa che
la teneva continuamente in moto. Gli accennò di affrettarsi. L'Elisa desiderava
vederlo almeno un momento prima di essere visitata dal professore di Bologna.
Presto! Si capiva che la marchesa non voleva parole affettuose né lagrime, che
resisteva eroicamente all'angoscia perché intorno all'ammalata tutto fosse
tranquillo, nessuno perdesse la testa. Aveva mandato il piagnoloso Zaneto a
riposare. Resistette al genero che voleva abbracciarla. «Vieni, vieni!» diss'ella.
«Sii forte, forte!» come se parlasse al più innamorato dei mariti.
Ella lo precedette nella stanza
sacra del dolore, calda, scura, silenziosa. Mormorò con tenerezza sorridente:
«È qui Piero, sai; un momento, un momento solo!» e si fece da parte. Egli entrò,
scorse appena, nell'ombra, il biancor fioco del letto, la figura fosca della
suora infermiera, che si era levata in piedi, udì una debole voce dolce dire:
«Apra un poco» e mentre la marchesa diceva piano: «un pochetto, sa suora, un
pochetto solo» si appressò in punta di piedi al letto, la vide.
Erano quasi tre anni che non la
vedeva così da presso e gli parve trasfigurata. Il viso, da bianco e roseo
ch'era stato, mostrava ora sotto le accensioni della febbre il pallore caldo
dell'avorio, il naso si era venuto affilando, gli occhi parevan tanto più
grandi, più scuri e più lucenti.
Mai quel viso non era stato così
bello, così penetrato d'anima.
Gli tese le braccia, gli prese il
capo, lo raccolse a sé, gli sussurrò sulla bocca «grazie» ed egli la baciò appena,
quasi non osando.
«Che ti veda!» diss'ella a
stento, tanto il respiro era affannoso; e ravviandogli lentamente con la mano i
capelli sulla fronte ch'egli aveva rialzata, lo guardò, lo guardò con i grandi
occhi scuri fissi, dove scattavano, alternandosi, scintille di dolore,
scintille di tenerezza, sorrisi di pace.
«Basta, Elisa, basta» mormorò la
mamma.
L'inferma piegò il viso a destra,
posò le labbra sul braccio del marito.
«Addio!» diss'ella. «Dopo, vero,
torni? Ho tante cose!»
Piero si chinò a baciarle
l'orecchio scoperto, vi mormorò: «Per sempre tuo, sai».
Ella chiuse gli occhi, beata, e
rispose:
«Del Signore.»
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