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Gli Scremin, don Giuseppe Flores
e Maironi alloggiavano in un piccolo albergo vicino allo Stabilimento. Dopo la
visita del professore, che trovò la febbre ancora piuttosto alta, una penosa
inquietudine e il cuore depresso ma nessun pericolo imminente, don Giuseppe e
Zaneto si ritirarono. La marchesa si accinse a passar la notte nella camera di
sua figlia con la suora. Piero rimase nel salotto attiguo, sdraiato sul canapè,
solo, al buio. Era stanco, aveva il capo grave di sopore e tuttavia non si era
voluto allontanare di lì. Si addormentò verso le due, sognò un caos di figure
assurde, di avvenimenti impossibili, tanto complicati e lenti che allo
svegliarsi credette aver dormito un secolo. Si rizzò, quasi atterrito, a sedere
sul canapè, chiedendosi dove fosse. Nel vano della finestra spalancata luceva
un grande pianeta. Tese l'orecchio. Dalla camera dell'ammalata non il più lieve
rumore; dalla finestra fievoli vocii confusi come di una moltitudine discorde.
Andò ad ascoltare: grida, urla delle agitate, da una casa lontana. Ora si
udivan forte, ora, col mutar dell'aria, venivano meno. La campagna scura,
immensa, era silenziosa come il cielo. Nessun segno di vita. Piero aveva
dormito mezz'ora. Gli venne languida in mente l'idea che le medesime stelle
lucevano sui pascoli, sui boschi di Vena; e passò. Gl'infiniti occhi delle
stelle parevano conoscere la domanda dell'inferma: «Hai perduta la religione?»
e guardar tutti a lui tristamente. Cosa volevano da lui? Egli pure guardò fiso
il pianeta, pensando, senza volontà, pensieri che avevano un ordine in sé ma
gli venivano disordinati nella coscienza e misti ad impressioni dei sensi,
come, insieme a qualche curioso, si affrettano confusi gli invitati di ogni
grado al convegno d'un corteo predisposto in ogni sua parte, giusta norme fisse
di precedenza.
"Potevo dire: ho la
religione della giustizia.' Dio, se a Vena fosse successa quella cosa! Che
orrore, poi, esser baciato, esser abbracciato da te, povera creatura! "Che
vile, che vile, che vile!'
In questo violento disprezzo di
sé gli occulti pensieri gli salivano stridenti sulle labbra. Poi ridiscesero.
"Che sarebbe successo di me?
- Tutto sarebbe caduto. Che vile! - Niente niente niente; la religione della
giustizia non mi ha difeso niente. - È stato il caso: Bassanelli. Proprio un
caso? - Jeanne è tanto migliore di me, con tutto il suo scetticismo. Se Jeanne
credesse in Dio sarebbe tutta sua. - E i miei presentimenti? Dove finivano i
miei presentimenti? - Tutto un giuoco, tutto un caso? - Dio mio, Dio mio, se io
perdessi la mente, se io dovessi proprio star per sempre qui dentro, finire
come queste che urlano! - Padre mio, sei tu in quel pianeta? - No no no, padre
mio, padre mio, credo, sai, credo in Dio, credo, credo, ho creduto sempre,
forse vengo anch'io dove sei tu, dov'è la mamma! L'Elisa viene da voi ma forse
un giorno vengo anch'io!'
Represse a forza l'onda dei
singhiozzi irrompenti dalla gola. Si strinse sul petto le braccia incrociate,
si morse il labbro inferiore, le grosse lagrime gocciarono silenziose.
Quando infine poté dischiuder le
labbra e, ansando, asciugarsi il pianto, ripeté più volte, con infinita
dolcezza interna ma piuttosto ancora macchinalmente che con deliberato
consenso, che con deliberato proposito, le parole di Elisa: «Del Signore - del
Signore - del Signore». I singhiozzi ritornavano, li soffocò, alzò il viso al
grande spettrale pianeta, alle stelle. Ah, la morte d'Elisa era scritta negli
infiniti occhi tristi del cielo! Pensò, pensò, pensò, gli attraversò i
pensieri, lenta, la visione di Praglia, del grande monastero abbandonato, delle
logge dove fanciullo aveva creduto sentire un appello arcano. La visione passò,
il pensiero gli venne meno in una nebbia interna, le stelle gli si oscurarono,
non ebbe più senso che del proprio smarrimento, della frescura umida e delle
grida, degli urli, dei pianti dal riparto delle agitate.
Trasalì, una mano gli si era
posata sulla spalla, lievemente. Si voltò; la marchesa. Era entrata, aveva
acceso il lume senza ch'egli se ne avvedesse. Elisa desiderava don Giuseppe.
Niente di nuovo. Era un desiderio, così; voleva dirgli qualche cosa, temeva
forse di scordarsene. «Che bellezza di notte!» soggiunse dolcemente la vecchia
signora, uditi i gridii lontani delle pazze; e chiuse la finestra. Dopo aver
veduto Piero ginocchioni al letto della sua figliuola in quell'atto di amore e
di dolore, ella gli parlava come un forte a un debole, con una profonda vena di
tenerezza, con la più delicata cura di non allarmarlo, di non affliggerlo. Gli
disse di andar a chiamare don Giuseppe, di restare poi all'albergo, di dormire
un paio d'ore, almeno.
«Fai chiamare il papà verso le
sei» diss'ella, «e guarda che col caffè gli portino un po' di latte perché c'è
abituato.»
Piero le baciò la mano ch'ella
ritirò, in fretta, per troncare, per tornarsene subito dalla figliuola. Le
sarebbe caduto ginocchioni ai piedi perché sentiva che la povera donna non
sperava più, che la sua calma, la sua dolcezza, le sue vigili attenzioni erano
un miracolo di volontà santa. Andò all'albergo e ritornò con don Giuseppe.
Questi entrò dall'inferma; la marchesa e la suora vennero ad attendere nel
salottino, con Piero, che il colloquio finisse. La suora cercava stentatamente
qualche parola buona; la signora aveva preso bene questo, aveva preso bene
quello, aveva la sua fisionomia solita. Si stancava col continuo pregare,
poveretta. Dopo che ci era stato il signore, non aveva fatto che pregare.
Mentalmente, magari; ma si vedeva lo sforzo, povera creatura.
La marchesa osservò che in
complesso la notte non era stata cattiva. Avrebbe voluto poter pigliare una
messa, la mattina. La chiesa del villaggio era a due passi. A che ora si diceva
la prima messa? Meglio non andare a quella di don Giuseppe, per non trovarsi
fuori nello stesso tempo. La prima messa si diceva alle quattro e mezzo.
Nessuno trovava parole più, e si
fece un silenzio penoso perché ciascuno sentiva che il colloquio dell'inferma
con don Giuseppe pareva lungo a tutti. La finestra, mal chiusa, si aperse a un
soffio di vento, furono uditi i gridii confusi.
In quel momento il vecchio prete
rientrò. Subito la suora si avviò a ripigliare il suo posto e la marchesa non
poté trattenere un «dunque, don Giuseppe?», non poté interamente dissimulare,
sul suo povero vecchio viso stanco, l'ansia dell'aspettazione. Don Giuseppe
rispose tranquillo:
«Niente, poveretta. Cose di
pietà.»
«E che Le pare?»
«Oh, nessun cambiamento. Forse
forse un po' di maggiore debolezza. Vorrebbe avere l'Estrema Unzione fra le sei
e le sette, dice, perché a quell'ora si sente sempre meglio. Questo non può che
giovare, le ho detto di sì.»
La marchesa fece sommessamente
«sì». Nei grandi occhi gravi si dipinsero la riverenza del sacramento e la
rassegnazione. Non disse più nulla, rimase per qualche momento immobile,
accasciata; poi, per la prima volta, si asciugò gli occhi. Mosse in pari tempo
verso quell'uscio e le sue spalle curve, il suo capo basso esprimevano il
piegar mansueto di un dolore immenso ai voleri di Dio.
Rimasto solo con Piero, don
Giuseppe lo fissò silenziosamente in volto. Piero non se ne accorse, prima;
quindi credette che gli si volesse leggere nel pensiero. Poi nel vederlo
mutato, più triste, più solenne, gli balenò che, parlando alla marchesa, le
avesse taciuto qualche cosa. Lo interrogò ansioso con gli occhi.
«Ha il presentimento» disse piano
don Giuseppe «di morire stasera; indica persino l'ora.»
Piero chinò il viso.
«Lo so» diss'egli.
«Lo sa? Ma poi c'è un'altra
cosa.»
Silenzio. Parve che il vecchio
non osasse dire, che il giovine non osasse chiedere. Finalmente don Giuseppe si
fece animo.
«Prega» diss'egli «di venir
sepolta in Valsolda.»
Piero giunse le mani, sbalordito.
«In Valsolda? In Valsolda?»
«In Valsolda, per due ragioni.
Per il rimorso di non aver secondato il Suo affetto a quel paese, di aver
mancato, in certo modo, anche verso la memoria de' Suoi genitori che sono
sepolti là; e poi perché dice di sentirsi ora tanto unita ad essi nel domandare
al Signore una grande grazia. Sì, sì - m'ha detto - preghi Piero che mi lasci
andar con loro...»
La voce del vecchio discese a un
soffio, a un lieve alito.
«... come una figlia.»
Piero lo abbracciò stretto
singhiozzando.
«Credo... che la grazia...» E più
non poté dire.
Rimasero così abbracciati, a
lungo. Finalmente il giovane rialzò il viso, mormorò:
«E mia suocera, poveretta? Cosa
dirà? Non sarà un altro dolore?»
«Ne ho detto una parola anch'io
alla Sua signora. Mi ha risposto: "Oh, la mamma è una santa'. E adesso
zitto che non ci sentano.»
Le campane della chiesetta vicina
suonano l'Ave Maria dell'alba,
l'inferma chiede che ore sono, chiede di vedere il cielo, dice alla sua mamma
che ha dormito, che ha sognato di stare in paradiso con il suo Piero, con lei,
con il suo papà, e anche, soggiunge sorridendo alla suora, con suor Eletta; che
la mamma e suor Eletta erano tanto luminose ma Piero molto più ancora. La mamma
dice «va là, va là» con bonaria placidezza. Essa le risponde di prepararsi e
che sarà presto presto e che n'è tanto contenta.
La mamma tace, le campane suonano,
suor Eletta apre un poco le imposte, l'inferma vede l'oriente imbiancarsi per
lei l'ultima volta.
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