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Da tre giorni la gracile spoglia
dello spirito asceso alla Vita posava dentro il piccolo cimitero bianco fra le
viti, gli ulivi e gli allori della terra gentile, poco sopra lo specchio del
lago. La notte cadente era inquieta. Raffiche alternate a lunghi silenzi delle
cose suonavano sul lago, per le rive, per gli oleandri e i rosai dell'orto
Maironi, chini sulle onde; rombavano nel pino a ombrello sopra la panca dove
Piero e don Giuseppe stavano a colloquio, curvavano le sottili aste nere dei
cipressi allineati a monte dell'orto, lungo il muro di cinta. Il chiarore della
luna traspariva per un latteo drappo di nuvole, teso dai profili morbidi della
Galbiga e del Bisgnago alle rupi selvagge del picco di Cressogno e alla fronte
uniforme del Boglia; e talvolta ne traspariva un momento la stessa velata
immagine dell'astro, imbiancando la neve degli oleandri in fiore, fogliami e
rose, la ghiaia del viale, l'alto fianco della chiesetta di Oria, il vecchio
rustico campanile imminente all'orto. Era una notte inquieta nel cielo come
sulla terra; e anche il colloquio sotto il pino era interrotto da silenzi pieni
di aspettazione, agitato da repentini soffi dello Spirito, illuminato da
qualche cosa di nascosto che ora traspariva ora si ritraeva. Don Giuseppe di
tratto in tratto pareva accasciato sotto un gran peso, oscurato nell'anima; di
tratto in tratto si trasfigurava, si rialzava tutto acceso la gran fronte, gli
occhi, l'accento, il gesto. Il contegno di Piero era invece costantemente
grave; il fuoco de' suoi occhi ardenti pareva più interno, le parole avevano un
che di pacato e di fermo, affatto nuovo in lui. Sempre, quando tacevan le cose,
don Giuseppe era il primo a rompere il silenzio in cui egli e Piero si
accordavano quando esse rumoreggiavan più forte nel vento. E allora era quasi
sempre una specie di soliloquio che gli usciva di bocca, un cruccioso ritorno
del pensiero alle difficoltà di certo còmpito accettato irrevocabilmente,
oramai. Cinque ore prima, mediante un atto rogato dal notaio di Porlezza, Piero
gli aveva ceduto tutti i suoi beni; e la intelligenza fra loro era che don
Giuseppe si sarebbe associate certe persone già designategli, le quali lo
avrebbero aiutato a istituire una specie di Cooperativa di produzione agraria,
capace di estendersi e aperta, entro certi limiti, ai volonterosi, nella quale
la terra, considerata come uno strumento di produzione, finirebbe col diventare
proprietà sociale e le norme statutarie avrebbero un carattere cristiano,
cosicché il fine cristiano dell'associazione compenetrerebbe in sé,
dominandolo, il fine economico. Se l'esperimento non venisse approvato dai
consiglieri di don Giuseppe o non riuscisse, la sostanza mobile e stabile
verrebbe divisa in lotti, che si assegnerebbero prima in usufrutto e, dopo un
certo periodo di prova, in proprietà, a famiglie scelte di contadini.
Quest'ultima disposizione era stata suggerita da don Giuseppe che solamente
così si era indotto ad accettare la cessione e l'incarico di un esperimento nel
quale non aveva fiducia. Se Piero non lo aveva ben fatto persuaso della
opportunità di creare un tipo di associazione aperta, dentro i limiti del
possibile, dove il capitale sociale fosse essenzialmente la terra, lo aveva
però fatto persuaso, col tranquillo vigore del ragionare e con la gravità del
contegno, che l'intelletto suo era ben solido e fermo.
Gliene aveva dimostrato l'acume
sereno anche con lo scrupolo espressogli che questo suo disporre dei beni
ceduti per date opere fosse un trattenerne indebitamente la proprietà ideale;
ciò che in coscienza don Giuseppe non aveva potuto ammettere.
«Mi perdoni» uscì a dire il
vecchio prete «se ardisco farle una domanda indiscreta. Nella Sua visione,
c'era questa idea?»
Mai non si era accennato fra loro
alla visione dopo il giorno doloroso e solenne. Né don Giuseppe si era più
avventurato a parlarne, né Piero vi aveva alluso.
«No» diss'egli «quest'idea è
frutto di un lungo lavoro mentale e si è ora come rinvigorita in me di
sentimento cristiano perché io penso che realmente la confisca della terra a
beneficio di pochi sia una cosa ingiusta e che se si formassero dei nuclei così
ordinati sarebbero elementi di risanamento sociale. Ma per me si tratta
solamente di dare il mio ai poveri non a caso, di darlo secondo un'idea di
giustizia. Ho avuto in mente un mese fa di spogliarmi, senza sentimento
religioso, per una giustizia particolare, come Le ho raccontato. Adesso
comprendo che non era ragionevole e che faccio meglio a spogliarmi per una
giustizia generale. La visione non riguarda che il mio avvenire dopo la
rinuncia.»
«Mi pare» osservò don Giuseppe,
timidamente «ch'Ella mi accennasse a due parti distinte della visione.»
«Sì» rispose Piero «ma nella
seconda parte...»
Rumori di remi e di voci. Una
barca si appressava, passò lenta sotto il muro dell'orto. Ritornato il
silenzio, Piero cinse d'un braccio il collo a don Giuseppe.
«Mi perdoni» diss'egli
«preferisco non parlarne. Intendo della mia visione. Me ne sento anche
indegno!»
«Una sola parola: Ella persiste a
crederla soprannaturale?»
«Quello che m'appare oggi è che
la visione sia soprannaturale in quanto si accorda con certe voci misteriose
che mi hanno parlato di tempo in tempo, una volta; e in quanto mi addita una
via di povertà, di penitenza e di preghiera. La credo anche soprannaturale in
quanto mi addita un'azione futura, esterna. In quanto invece mi preannuncia
dati avvenimenti, io non presumo niente, accetterò dalla mano di Dio quel
ch'Egli vorrà. Ho però creduto debito mio di scrivere la visione. Sta già in un
plico suggellato ch'Ella custodirà perché si apra dopo la mia morte.»
Don Giuseppe sorrise, fece un
gesto come per dire ch'egli morrebbe certamente prima.
«Ella sceglierà, in ogni caso»
soggiunse Piero «la persona fidata che lo apra.»
Le ombre che il nome della morte
sempre vapora, le ombre di un immaginato avvenire, solenne e tragico, avvolsero
i seduti. Don Giuseppe venne ripensando e comparando certe parole dettegli da
Piero subito dopo la visione, certe parole del colloquio presente. A quale
missione nella Chiesa di Dio poteva essere chiamato quel giovane? Gli sorgevano
nella mente profonda tante supposizioni diverse, vi si levavano tanti dubbiosi
desideri antichi circa una riforma cattolica della Chiesa, non espressi mai
chiaramente ad alcuno, forse neppure chiaramente concepiti, anche per
impedimenti di ossequio e di umiltà. Uno stormir fischiante corse per la costa,
uno strepito per le rive, una veloce ombra nera sul lago, cui l'alto fragore
del pino rispose; e in pari tempo uscì la luna curiosa, irradiando le nevi
degli oleandri in fiore, fogliami e rose, la ghiaia dei viali, l'alto fianco
della chiesa, il rustico campanile imminente all'orto.
Nel pensiero profondo di don
Giuseppe disposto alle intime comunioni con la natura come alle intime
comunioni con Dio, il dramma del vento, della luna e delle onde, il dramma di
quell'anima, prima oscurata dalle passioni, ora misteriosamente illuminata
dallo Spirito, si confondevano, si compenetravano in uno solo.
Qualcuno entrò nell'orto. Il
custode veniva a dire che le chiavi del camposanto, richieste dal signor
padrone, erano state portate in casa e che vi era pure stato portato per lui da
S. Mamette un pacco postale.
Passando, nell'avviarsi verso
casa, presso il vecchio rosaio dalle rose incarnatine, Piero si fermò.
«Le lascerò scritto anche questo»
diss'egli «ma Le raccomando pure a voce che le suore abbiano ogni cura degli
oleandri che sono ancora quelli piantati da mio padre, delle rose e
particolarmente dell'arancio e del mandarino, nel giardinetto.»
La villetta dove Franco e Luisa
avevano tanto amato e sofferto, dove la epica bontà, la serenità magnanima
dello zio Piero eran passate beneficando, dove la piccola Ombretta era morta,
avrebbe accolto le suore convalescenti di un Ordine scelto da don Giuseppe, con
una scuola di lavoro e di economia domestica per le giovinette del Comune di
Albogasio.
«Ella potrà tenersene informato»
suggerì don Giuseppe. Il giovane, per tutta risposta, si chinò, posò le labbra
sopra una rosa.
«Ah, don Giuseppe» diss'egli
uscendo dall'orto «quanto posso dire al Signore: quaerens me sedisti lassus! Quante volte non mi ha richiamato e io mi
ostinavo a perdermi! Anche con la Sua cara ultima lettera! È stato perché tutto
io debba riconoscere da Lui e niente, proprio niente, da me.»
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