2. Sulla soglia d'un'altra vita.
«Canaglia!», fremeva don Franco salendo la scala che conduceva alla sua camera.
«Pezzo d'asino d'un austriaco!». Si vendicava su Pasotti di non poter insultar
la nonna e le stesse consonanti della parola austriaco gli servivano tanto bene
per stritolarsi fra i denti la propria collera e spremerne, gustarne il sapore.
Quando fu in camera la collera gli svampò.
Si gittò in una poltrona, in faccia alla finestra spalancata, guardando il
lago triste nel pomeriggio nebbioso, e, al di là del lago, i monti deserti.
Mise un gran respiro. Ah come stava bene lì, solo, ah che pace, ah che aria
diversa da quella del salotto, che aria cara, piena de' suoi pensieri e de'
suoi amori! Aveva un gran bisogno di abbandonarsi ad essi ed essi lo ripresero
subito, gli cacciaron di mente le Carabelli, il Pasotti, la nonna, il bestione
del Ricevitore. Essi? No, era un pensiero solo, un pensiero fatto di amore e di
ragione, di ansia e di gioia, di tanti dolci ricordi e insieme di trepida
aspettazione, perché qualche cosa di solenne si avvicinava e sarebbe giunto
nelle ombre della notte. Franco guardò l'orologio. Erano le quattro meno un
quarto. Ancora sette ore. Si alzò, si buttò a braccia conserte sul davanzale
della finestra.
Ancora sette ore e comincerebbe per lui un'altra vita. Fuori delle
pochissime persone che dovevano prender parte all'avvenimento, nemmanco l'aria
sapeva che quella sera stessa, verso le undici, don Franco Maironi avrebbe
sposato la signorina Luisa Rigey.
La signora Teresa Rigey, madre di Luisa, aveva un tempo lealmente pregato
Franco di piegare al volere della nonna, di astenersi dal visitar la sua casa,
di non pensare più a Luisa, la quale, dal canto suo, era stata contenta che per
la dignità della famiglia, per il decoro di sua madre, si troncassero le
relazioni ufficiali, ma non dubitava della fede di Franco né d'essergli già
legata per sempre. Egli studiava ora leggi, privatamente, all'insaputa della
nonna, per dedicarsi a una professione e aver modo di bastare a sé. Ma la
signora Teresa contrasse da tante agitazioni una malattia di cuore che nel
1851, in fine d'agosto, si aggravò subitamente. Franco le scrisse chiedendole
almeno il permesso di vederla poiché non poteva compiere «il suo dovere
d'assisterla». La signora non credette di consentire e il giovine se ne
disperò, le fece intendere che considerava Luisa come sua fidanzata davanti a
Dio e che sarebbe morto prima di abbandonarla. Allora la povera donna,
sentendosi mancar la vita ogni giorno, accorandosi di veder la sua cara
figliuola in uno stato così incerto e considerando la ferma volontà del
giovine, concepì il desiderio intenso che le nozze, poiché dovevan seguire,
seguissero al più presto. Tutto fu combinato frettolosamente con l'aiuto del
curato di Castello e del fratello della signora Rigey, l'ingegnere Ribera di
Oria, addetto all'Imperiale R. Ufficio delle Pubbliche Costruzioni in Como. Le
intelligenze furono queste. Le nozze si farebbero segretamente; Franco
resterebbe presso la nonna e Luisa presso la madre, sino a che venisse il
momento opportuno di confessar tutto alla marchesa. Franco sperava
nell'appoggio di monsignor Benaglia, vescovo di Lodi, vecchio amico della
famiglia, ma occorreva il fatto compiuto. Se il cuore della marchesa si
indurisse, com'era probabile, gli sposi e la signora Teresa prenderebbero
stanza nella casa che l'ingegnere Ribera possedeva in Oria. Il Ribera, celibe,
manteneva ora del proprio la famiglia di sua sorella; terrebbe poi anche Franco
in luogo di figliuolo.
Fra sette ore, dunque.
La finestra guardava sulla lista di giardino che fronteggiava la villa verso
il lago, e sulla riva di approdo. Nei primi tempi del suo amore Franco stava lì
a spiar il venire e l'approdare d'una certa barca, l'uscirne d'una personcina
snella, leggere come l'aria, che mai mai non guardava su alla finestra. Ma poi
un giorno egli era discesi ad incontrarla ed ella aveva aspettato un momento ad
uscire per accettare l'aiuto, ben inutile, della sua mano. Lì sotto, nel
giardino, egli le aveva dato per la prima volta un fiore, un profumato fiore di
mandevilia suaveolens. Lì sotto si era un'altra volta ferito con un temperino,
abbastanza seriamente, tagliando per lei un ramoscello di rosaio, ed ella gli
aveva dato col suo turbamento un delizioso segno del suo amore. Quante gite con
lei e altri amici, prima che la nonna sapesse, alle rive solitarie del monte
Bisgnago là in faccia, quante colazioni e merende a quella cantina del Doi! Con
quanta dolcezza viva nel cuore di sguardi incontrati Franco tornava a casa e si
chiudeva nella sua stanza a richiamarseli, a esaltarsene nella memoria! Queste
prime emozioni dell'amore gli ritornavano adesso in mente, non ad una ad una ma
tutte insieme, dalle acque e dalle rive tristi dove gli occhi suoi fisi
parevano smarrirsi piuttosto nelle ombre del passato che nelle nebbie del
presente. Vicino alla mèta, egli pensava i primi passi della lunga via, le
vicende inattese, l'aspetto della sospirata unione così diverso nel vero da
quel ch'era apparso nei sogni, al tempo della mandevilia e delle rose, delle
gite sul lago e sui monti. Non sospettava certo, allora, di dovervi arrivare
così, di nascosto, fra tante difficoltà, fra tante angustie. Pure, pensava
adesso, se il matrimonio si fosse fatto pubblicamente, pacificamente, col
solito proemio di cerimonie ufficiali, di contratti, di congratulazioni, di
visite, di pranzi, tanto tedio sarebbe riuscito più ripugnante all'amore che
questi contrasti.
Lo scosse la voce del prefetto che lo chiamava dal giardino per annunciargli
la partenza delle Carabelli. Franco pensò che se scendeva avrebbe dovuto fare
delle scuse e preferì non lasciarsi vedere. «Doveva romperglielo sulla faccia
il piatto!», gli stridette su il prefetto tra le mani accostate alle guance.
«Doveva romperglielo sulla faccia!»
Poi se n'andò e Franco vide il barcaiuolo delle Carabelli scendere ad apparecchiar
la barca. Lasciò allora la finestra e seguendo i pensieri di prima, aperse il
cassettone, stette lì a contemplare, come distratto, uno sparato di camicia
ricamata, dove lucevano già certi bottoncini di brillanti che suo padre aveva
portati alle nozze proprie. Gli dispiaceva andar all'altare senza un segno di
festa, ma questo segno, si capisce bene, non doveva essere facilmente visibile.
Nel cassettone profumato d'ireos tutto era disposto con la particolare
eleganza dell'ordine fatto da uno spirito intelligente, e nessuno vi metteva le
mani tranne lui. Invece le sedie, lo scrittoio, il piano erano tanto
disordinatamente ingombri che pareva esser passato per le due finestre della
camera un uragano di libri e di carte. Certi volumi di giurisprudenza dormivano
sotto un dito di polvere, e non una foglia della piccola gardenia in vaso, sul
davanzale della finestra di levante, ne aveva un atomo solo. Questi eran già
sufficienti indizi, là dentro, del bizzarro governo d'un poeta. Un'occhiata ai
libri e alle carte ne avrebbe fornite le prove.
Franco aveva la passione della poesia ed era poeta vero nelle squisite
delicatezze del cuore; come scrittore di versi non poteva dirsi che un buon
dilettante senza originalità. I suoi modelli prediletti erano il Foscolo e il
Giusti; li adorava veramente e li saccheggiava entrambi, perché l'ingegno suo,
entusiasta e satirico a un tempo, non era capace di crearsi una forma propria,
aveva bisogno d'imitare. Conviene anche dire, per giustizia, che a quel tempo i
giovani possedevano comunemente una cultura classica fattasi rara di poi; e che
dagli stessi classici venivano educati a onorare l'imitazione come una pratica
virtuosa e lodevole. Frugando fra le sue carte per cercarvi non so cosa, gli
vennero alle mani i seguenti versi dedicati a un tale di sua conoscenza e
nostra conoscenza, che rilesse con piacere e ch'io riferisco per saggio del suo
stile satirico:
Falso occhio mobile,
Mento pelato,
Lingua di vipera,
Cor di castrato,
Brache policrome,
Bisunto saio,
Maiuscolissimo
Cappello a staio.
Ecco l'immagine
Del vil Tartufo
Che l'uman genere
E il cielo ha stufo.
Il Giusti e la passione d'imitarlo erano quasi soli in colpa di tanta bile,
perché davvero Franco non ne aveva nel fegato una così gran dose. Aveva collere
pronte, impetuose, fugaci; non sapeva odiare e nemmanco risentirsi a lungo
contro alcuno. Un saggio dell'altra sua maniera poetica stava sul leggìo del
piano, in un foglietto tutto sgorbi e cancellature:
A Luisa
Ove l'aëreo tuo pensile nido
Una balza ventosa incoronando
Ride alla luna ed ai cadenti
clivi
Ch'educan uve a la tua mensa e
rose
Al capo tuo, purpurëi ciclami
A me, sogni e fragranze, o mia
Luisa,
Da l'orror di quest'ombre ti
figura
L'amoroso mio cor. Tacita siedi
E da l'alto balcon già non rimiri
Le bianche plaghe d'occidente, i
chiari
Monti ed il lago vitrëo, sereno,
Riscintillante a l'astro; ma
quest'una
Tenebra esplori, l'aura
interrogando
Vocal che va tra i mobili
oleandri
De la terrazza e freme il nome
mio.
Forse piaceva a Franco d'improvvisar sul piano con questi suoi versi davanti
agli occhi. Appassionato per la musica più ancora che per la poesia, se l'era
comperato lui, quel piano, per centocinquanta svanziche, dall'organista di
Loggio, perché il mediocre piano viennese della nonna, intabarrato e rispettato
come un gottoso di famiglia, non gli poteva servire. Lo strumento
dell'organista, corso e pesto da due generazioni di zampe incallite sulla
marra, non mandava più che una comica vocina nasale sopra un tintinnio sottile
come d'infiniti bicchierini minuti e fitti. Ciò era quasi indifferente, per
Franco; egli aveva appena posato le mani sullo strumento che la sua
immaginazione si accendeva, l'estro del compositore passava in lui e nel calore
della passione creatrice gli bastava un fil di suono per veder l'idea musicale
e inebbriarsene. Un Erard gli avrebbe dato soggezione, gli avrebbe lasciato
minor campo alla fantasia, gli sarebbe stato men caro, insomma, della sua
spinetta.
Franco aveva troppe diverse attitudini e inclinazioni, troppa foga, troppo
poca vanità e forse anche troppo poca energia di volere per sobbarcarsi a quel
noioso metodico lavoro manuale che si richiede a diventar pianisti. Però il
Viscontini era entusiasta del suo modo di suonare; Luisa, la sua fidanzata, non
divideva interamente il gusto classico di lui ma ne ammirava, senza fanatismi,
il tocco; quando, pregato, egli faceva mugghiare e gemere classicamente
l'organo di Cressogno, il buon popolo, intontito dalla musica e dall'onore, lo
guardava come avrebbe guardato un predicatore incomprensibile, con la bocca
aperta e gli occhi riverenti. Malgrado tutto questo, Franco non avrebbe potuto
cimentarsi, nei salotti cittadini, con tanti piccoli dilettanti incapaci
d'intendere e di amare la musica. Tutti o quasi tutti lo avrebbero vinto di
agilità e di precisione, avrebbero ottenuto maggiori applausi, quand'anche non
fosse riescito ad alcuno di far cantare il piano, come lo faceva cantar lui,
sopra tutto negli adagi di Bellini e di Beethoven, suonando con l'anima nella
gola, negli occhi, nei muscoli del viso, nei nervi delle mani che facevan
tutt'uno con le corde del piano.
Un'altra passione di Franco erano i quadri antichi. Le pareti della sua
camera ne avevano parecchi, la più parte croste. Scarso di esperienza perché
non aveva viaggiato, pronto a pigliar fuoco nella fantasia, costretto ad
accordar i desideri molti con i quattrini pochi, credeva facilmente le asserite
fortune di altri cercatori tapini, n'era spesso infocato, accecato e
precipitato su certi cenci sporchi, che, se costavano poco, valevano meno. Non
possedeva di passabile che una testa d'uomo della maniera del Morone e una
Madonna col Bambino della maniera del Dolci. Egli battezzava, del resto, i due
quadretti per Morone e Dolci, senz'altro.
Com'ebbe rilette e rigustate le strofe ispirategli dal Tartufo Pasotti,
tornò a frugare nel caos dello scrittoio e ne cavò un foglietto di carta Bath
per scrivere a monsignor Benaglia, la sola persona che gli potesse giovare in
avvenire presso la nonna. Gli parve doverlo mettere a parte dell'atto che stava
per compiere, delle ragioni che avevano consigliato la sua fidanzata e lui di
addivenirvi in questo modo penoso, della speranza che avevano d'essere aiutati
da lui quando venisse il momento d'aprir tutto alla nonna. Stava ancora
pensando con la penna in mano, davanti alla carta bianca, quando la barca delle
Carabelli passò sotto la sua finestra. Poco dopo udì partire la gondola del
marchese e la barca del Pin. Suppose che la nonna, rimasta sola, lo facesse
chiamare, ma non ne fu nulla. Passato un po' di tempo in quest'aspettazione, si
rimise a pensare alla sua lettera e ci pensò tanto, rifece l'esordio tante
volte e procedette anche poi tanto adagio, con tanti pentimenti, che la lettera
non era ancora finita quando gli convenne accendere il lume.
La chiusa gli riuscì più facile. Egli vi raccomandava la sua Luisa e sé alle
preghiere del vecchio vescovo e vi esprimeva una fiducia in Dio così candida e
piena che avrebbe toccato il cuore più incredulo.
Focoso e impetuoso com'era, Franco aveva tuttavia la semplice tranquilla
fede d'un bambino. Punto orgoglioso, alieno dalle meditazioni filosofiche, ignorava
la sete di libertà intellettuale che tormenta i giovani quando la loro ragione
ed i loro sensi cominciano a trovarsi a disagio nel duro freno di una credenza
positiva. Non aveva dubitato un istante della sua religione, ne eseguiva
scrupolosamente le pratiche senza domandarsi mai se fosse ragionevole di
credere e di operare così. Non teneva però affatto del mistico né dell'asceta.
Spirito caldo e poetico, ma nello stesso tempo chiaro ed esatto, appassionato
per la natura e per l'arte, preso da tutti gli aspetti piacevoli della vita,
rifuggiva naturalmente dal misticismo. Non s'era conquistata la fede e non
aveva mai vôlti lungamente a lei tutti i suoi pensieri, non aveva potuto
esserne penetrato in tutti i suoi sentimenti. La religione era per lui come la
scienza per uno scolaro diligente che ha la scuola in cima de' suoi pensieri e
vi è assiduo, non trova pace se non ha fatto i suoi compiti, se non si è
preparato alle ripetizioni, ma poi quando ha compiuto il proprio dovere, non
pensa più al professore né ai libri, non sente il bisogno di regolarsi ancora
secondo fini scientifici o programmi scolastici. Perciò egli pareva spesso non
seguire altro nella vita che il suo generoso cuore ardente, le sue inclinazioni
appassionate, le impressioni vivaci, gli impeti della sua natura leale, ferita
da ogni viltà, da ogni menzogna, intollerante d'ogni contraddizione e incapace
di infingersi.
Aveva appena suggellata la lettera quando si bussò all'uscio. La signora
marchesa faceva dire a don Franco di scendere per il rosario. In casa Maironi
si recitava il rosario tutte le sere fra le sette e le otto, e i servi avevan
l'obbligo di assistervi. Lo intuonava la marchesa, troneggiando sul canapè,
girando gli occhi sonnolenti sulle schiene e sulle gambe dei fedeli prosternati
per diritto e per traverso, quale nella luce più opportuna ad un devoto
atteggiamento e quale nell'ombra più propizia ad un sonnellino proibito. Franco
entrò in sala mentre la voce nasale diceva le soavi parole «Ave Maria, gratia
plena» con quella flemma, con quella untuosità, che sempre gli mettevano in
corpo una tentazione indiavolata di farsi turco. Il giovane andò a cacciarsi in
un angolo scuro e non aperse mai bocca. Gli era impossibile di rispondere con
divozione a quella voce irritante. Non fece che immaginare un probabile
interrogatorio imminente, e masticare risposte sdegnose.
Finito il rosario, la marchesa aspettò un momento in silenzio e poi disse le
sacramentali parole:
«Carlotta, Friend!»
Carlotta, la vecchia cameriera, aveva l'incarico di pigliare, finito il
rosario, Friend in braccio e di portarlo a dormire.
«È qui, signora marchesa», disse Carlotta.
Ma Friend, se era lì, si trovò altrove quando colei, chinatasi, allungò le
mani. Era di buon umore, quella sera, il vecchio Friend, e gli piacque di
giuocare a non lasciarsi prendere, provocando Carlotta, sgusciandole sempre di
mano, scappando sotto il piano o sotto il tavolino a guardar con un ironico
scodinzolamento la povera donna che gli diceva «ven, cara, ven, cara», con la
bocca e «brütt moster» con il cuore.
«Friend!», fece la marchesa. «Andiamo! Friend! Da bravo!»
Franco bolliva. Venutogli tra le gambe l'antipatico mostricino infetto
dell'egoismo e della superbia della sua padrona, lo scosse da sé, lo fece
ruzzolare tra le unghie di Carlotta che gli diede per proprio conto una
rabbiosa stretta e se lo portò via rispondendo perfidamente ai suoi guaiti:
«Cossa t'han faa, poer Friend, cossa t'han faa, di' sü!»
La marchesa non disse parola né il suo viso marmoreo tradì il suo cuore.
Diede al cameriere l'ordine di dire al prefetto della Caravina, se venisse, e
anche a qualsiasi altro, che la padrona era andata a letto. Franco si mosse per
uscire anche lui dietro ai servi, ma si trattenne subito onde non aver l'aria
di fuggire. Prese sulla caminiera un numero della I. R. Gazzetta di Milano,
sedette presso sua nonna e si mise a leggere, aspettando.
«Mi congratulo tanto», cominciò subito la voce sonnacchiosa, «della bella
educazione e dei bei sentimenti che ci avete fatto vedere oggi.»
«Accetto», rispose Franco senza levar gli occhi dal giornale.
«Bene, caro», replicò la nonna imperturbata. E soggiunse:
«Ho piacere che quella signorina vi abbia conosciuto; così, se mai sapeva di
qualche progetto, sarà ben contenta che non se ne parli più».
«Contenti tutt'e due», disse Franco.
«Voi non sapete niente affatto se sarete contento. Specialmente se avete
ancora le idee d'una volta.»
Udito questo, Franco posò il giornale e guardò la nonna in faccia.
«Cosa succederebbe», diss'egli, «se avessi ancora le idee d'una volta?»
Non parlò stavolta in tono di sfida, ma con serietà tranquilla.
«Ecco, bravo», rispose la marchesa. «Spieghiamoci chiaro. Spero e credo bene
che un certo caso non succederà mai, ma, se succedesse, non state a credere che
alla mia morte ci sarà qualche cosa per voi, perché io ho già pensato in modo
che non ci sarà niente.»
«Figùrati!», fece il giovine, indifferente.
«Questi sono i conti che dovrete fare con me», proseguì la marchesa. «Poi ci
sarebbero quelli da fare con Dio.»
«Come?», esclamò Franco. «I conti con Dio li farò prima che con te e non
dopo!»
Quando la marchesa era côlta in fallo tirava sempre diritto nel suo discorso
come se niente fosse.
«E grossi», diss'ella.
«Ma prima!», insistette Franco.
«Perché», continuò la vecchia formidabile, «se si è cristiani si ha il
dovere d'obbedire a suo padre e a sua madre e io rappresento vostro padre e
vostra madre.»
Se l'una era tenace, l'altro non l'era meno.
«Ma Dio vien prima!», diss'egli.
La marchesa suonò il campanello e chiuse la discussione così:
«Adesso siamo intesi».
Si alzò dal canapè all'entrar della Carlotta e disse placidamente:
«Buona notte».
Franco rispose «buona notte» e riprese la Gazzetta di Milano.
Appena uscita la nonna, gittò via il foglio, strinse i pugni, si sfogò senza
parole, con un furibondo sbuffo, e saltò in piedi, dicendo forte:
«Ah, meglio, meglio, meglio! Meglio così», fremeva in sé «meglio non
condurla mai, la mia Luisa, in questa maledetta casa, meglio non farle soffrir
mai questo impero, questa superbia, questa voce, questo viso, meglio viver di
pane e d'acqua e aspettar il resto da qualunque lavoro cane, piuttosto che
dalle mani della nonna: meglio far l'ortolano, maledetto sia, far il
barcaiuolo, far il carbonaio!»
Salì nella sua camera, risoluto di romperla con tutti i riguardi. «I conti
con Dio?», esclamò sbattendosi l'uscio dietro. «I conti con Dio se sposo Luisa?
Ah vada tutto, cosa me ne importa, mi vedano, mi sentano, mi facciano la spia,
glielo dicano, glielo contino, gliela cantino che mi fanno un piacerone!»
Si vestì in fretta e in furia, urtando nelle seggiole, aprendo e chiudendo
il cassettone a colpi. Mise un abito nero, per sfida; discese le scale
rumorosamente, chiamò il vecchio domestico, gli disse che sarebbe stato fuori
tutta la notte, e senza badare alla faccia tra sbalordita e sgomenta del
pover'uomo, a lui molto devoto, si slanciò in istrada, si perdette nelle
tenebre.
Egli era fuori da due o tre minuti, quando la marchesa, già coricata, mandò
Carlotta a vedere chi fosse venuto giù correndo dalle scale. Carlotta riferì
ch'era stato don Franco e dovette subito ripartire con una seconda missione.
«Cosa voleva don Franco?». Stavolta la risposta fu che don Franco era uscito
per un momento. Questo momento fu pietosamente aggiunto dal vecchio servitore.
La marchesa ordinò a Carlotta di andarsene lasciando il lume acceso. «Ritornate
quando suonerò», diss'ella.
Dopo mezz'ora ecco il campanello.
La cameriera corre dalla padrona.
«È ancora fuori don Franco?»
«Sì, signora marchesa.»
«Spegnete il lume, prendete la calza, mettetevi in anticamera e quando sarà
rientrato venite a dirmelo.»
Ciò detto la marchesa si girò sul fianco verso la parete, voltando
all'attonita e malcontenta cameriera l'enigma bianco, uguale, impenetrabile del
suo berretto da notte.
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