La mattina seguente, Pasotti, preso il caffè e latte e meditato il piano di
caccia fino alle dieci e mezzo, fece venire la signora Barborin, che dormiva in
un'altra camera perché al Controllore, ella lo chiamava umilmente così, dava
noia il suo russare. «El ga reson», diceva la povera sorda, «l'è on gran
malarbetto vizi che goo.» Ella era più vecchia di suo marito, lo aveva sposato
in seconde nozze, per tenerezza di cuore, portandogli alcuni quattrini cui egli
aveva mirato da un pezzo e che ora si godeva. Il Controllore le voleva bene a
modo suo, la costringeva a visite, a gite in barca, a passeggiate sui monti,
ch'erano un supplizio per lei, si burlava della sua sordità, la mandava fuori
coperta di seta e di piume e in casa la faceva lavorare come una fantesca.
Malgrado tutto ella riveriva e serviva «el Controlòr» come una schiava, con gran
timore eppure non senza affetto. Quando non lo chiamava «el Controlòr» lo
chiamava «Pasott». Mai non si permise appellativi più familiari.
Pasotti le ordinò a gesti, con una faccia dura da satrapo, di levar dal
cassettone una camicia di bucato, dall'armadio un abito di mezza gala, da un
canterano un paio di stivali; e quando sua moglie, frugando di qua e di là,
trepidando, voltandosi ogni momento per seguir gli occhi e i gesti del padrone,
pigliandosi spesso della bestia e spalancando allora la bocca per cercar di
udire la parola veduta, ebbe approntato ogni cosa, Pasotti cacciò le gambe dal
letto e disse:
«Togli».
La signora Barborin gli s'inginocchiò davanti e cominciò a tirargli su le calze,
mentre il Controllore, allungata la mano al tavolino da notte, si pigliò la
tabacchiera e, apertala, continuò, con due dita affondate nel tabacco, le
meditazioni di prima. Intendeva di fare alcune visite di esplorazione, ma in
quale ordine? A quanto gliene aveva detto il suo mezzadro, pareva che la
Marianna del signor Giacomo Puttini e forse il signor Giacomo stesso dovessero
saper qualche cosa di don Franco; e qualche cosa certo se ne doveva sapere a
Castello. Mentre la signora Barborin gli allacciava il secondo legaccio,
Pasotti si ricordò ch'era martedì. Il signor Giacomo andava ogni martedì con
altri amici al mercato di Lugano e più propriamente alla trattoria del Lordo,
con lo scopo di interpolare un bicchiere settimanale di vin pretto al vin Grimelli
quotidiano; e ritornava spesso a casa in una disposizione affettuosa e sincera.
Conveniva dunque andare da lui sul tardi, fra le quattro e le cinque. Pasotti
si figurava già di tenerselo fra le unghie, di maneggiarlo a sua posta. Alzò le
dita dalla tabacchiera con un sorriso maligno, e scosso giù, a colpettini
misurati, il soverchio della presa, se la fiutò a suo grande agio, si fece dar
il fazzoletto dalla moglie e la ricompensò borbottando con una faccia benigna,
nel raggomitolar il fazzoletto: «Povera donna! Povera diavola!»
Infilato e abbottonato l'abito dopo mezz'ora di lavoro, esclamò sul serio:
«Corpo, che fatica!», e andò allo specchio. Sua moglie osò di allora
svignarsela alla sorda, sì, ma non alla muta, e disse timidamente:
«Vado, neh?»
Pasotti si voltò accigliato, imperioso, le accennò col dito di venir da lui
e le disegnò sopra e intorno alla persona, con quattro colpi di mimica, un
cappello e uno scialle. Ella lo guardava a bocca aperta, non capiva; gli puntò
l'indice al petto, interrogandolo con gli occhi, con le sopracciglia inarcate,
come se dubitasse che questa roba occorresse a lui; al che Pasotti rispose allo
stesso modo con tre puntate d'indice: «tu, tu, tu». Poi, menando in taglio la
mano distesa, le significò che doveva uscir di casa con lui. Ella ebbe due o
tre sussulti di sorpresa e di protesta, allargò gli occhi smisuratamente e
domandò con quella voce che pareva venire dalla cantina:
«Dove?»
Il Controllore non rispose che con un'occhiata fulminea e un gesto: marche!
Non voleva dare altre spiegazioni.
La signora Barborin si dibatté ancora un poco.
«Non ho ancora fatto colazione», diss'ella. Suo marito la prese per le
spalle e, tiratala a sé, le gridò in bocca:
«La farai dopo».
Solo ad Albogasio Inferiore, sul sagrato dell'Annunziata, le fece sapere,
indicando il luogo con la mazza, che andavano a Cadate, alla deserta vecchia
casa signorile piantata nel lago fra Casarico ed Albogasio e detta popolarmente
«el Palazz» dove vivevano solitari, nelle stanzette dell'ultimo piano, il prete
don Giuseppe Costabarbieri e la sua serva Maria, detta la Maria del Palazz.
Pasotti che li conosceva pronti ambedue a tender gli orecchi ma cauti assai nel
parlare, desiderava tastarli uno per volta, senza parere, e, se trovasse molle,
dare una strizzatina. Aveva preso seco la moglie perché gli giovasse in questa
delicata bisogna dell'uno per volta; e lei, povera innocentona, gli
trotterellava dietro a passettini corti giù pei centoventinove scalini che
chiamano la Calcinera, senza sospetto della perfida parte che avrebbe fatto.
Il lago era quieto come un olio e don Giuseppe, un bel pretazzuolo, piccolo,
grosso, dai capelli bianchi e dalla faccia vermiglia, dagli occhietti lucenti,
se ne stava presso al fico del suo giardino con un cappello di paglia nero in
capo e un fazzoletto bianco al collo, a pescare i cavedini, certi cavedinacci
di libbra, vecchioni e furbacchioni, che si vedevano aggirarsi lì sotto per
amor de' fichi, lenti lenti, curiosi e cauti come il prete e la serva. Costei,
chi sa dove fosse. Pasotti, trovata aperta la porta di strada, entrò, chiamò
don Giuseppe, chiamò Maria. Poiché nessuno rispondeva, piantò sua moglie sopra
una seggiola e discese in giardino, andò diritto al fico dove don Giuseppe, al
vederlo, fu preso da un accesso di convulsioni cerimoniose. Buttò via la canna
da pescare e gli andò incontro vociferando: «Oh Signor, oh Signor! Oh poer a
mi! In sto stat chì! Car el me scior Controlòr! Andem sü! Andem sü! Car el me scior Controlòr!
In sto stat chì! Ch'el scüsa tant, neh? Ch'el scüsa tant!». Ma Pasotti
non voleva saperne di «andar su»; voleva a forza restar lì. Don Giuseppe si
mise a vociare: «Maria! Maria!». Ecco il faccione della Maria ad un finestrino
dell'ultimo piano.
Don Giuseppe le gridò di portar giù una seggiola. Allora il signor
Controllore rivelò la presenza di sua moglie, onde il faccione scomparve e don
Giuseppe ebbe un altro accesso.
«Comè? Comè? La sciora Barborin? L'è chì? Ah Signor! Andem sü!» E si mosse con un impeto di
ossequio, ma Pasotti lo ridusse all'obbedienza, prima trattenendolo addirittura
per le braccia e poi protestando di volergli veder prendere due o tre di quei
mostri di cavedini; e don Giuseppe, per quanto protestasse alla sua volta: «Oh
dess! Se ciapa nient! Hin baloss! Hin caveden! ga veden!», dovette gittar
l'amo. Pasotti finse sulle prime di star attento e poi gittò egli pure il suo.
Cominciò con domandare a don Giuseppe da quanto tempo non fosse andato a
Castello. Udito che vi era stato il giorno prima a salutar l'amico curato
Introini, il buon Tartufo, che non poteva soffrire l'Introini, si mise a farne
il panegirico. Che perla quel curato di Castello! Che cuor d'oro! E a casa
Rigey c'era andato, don Giuseppe? No, la signora Teresa stava troppo male.
Altri panegirici, della signora Teresa e di Luisa. Che rare creature! Che
saggezza, che nobiltà, che sentimento! E l'affare Maironi? Andava avanti, non è
vero? Molto avanti?
«So nient so nient so nient!», fece bruscamente don Giuseppe.
A quel precipitoso negare, gli occhi di Pasotti brillarono. Egli fece un
passo avanti. Era impossibile che don Giuseppe non sapesse niente, diavolo! Era
impossibile che non avesse parlato di ciò con l'Introini! Non lo sapeva
l'Introini, che don Franco aveva passato la notte in casa Rigey?
«So nient», ripeté don Giuseppe.
Pasotti sentenziò allora che il voler nascondere certe cose note era un far
pensar male. Diamine! Don Franco era certamente andato in casa Rigey con fini
onestissimi e...
«Pécia, pécia, pécia!», fece sottovoce, frettolosamente, don Giuseppe
curvandosi tutto sul parapetto, stringendo la canna della lenza e ficcando gli
occhi nell'acqua come se un pesce fosse per abboccare. «Pécia!»
Pasotti guardò anche lui nell'acqua, seccato, e disse che non vedeva niente.
«El se l'è cavada, el pütasca, ma el gaveva propri su el müson; l'avarà
sentì a spongg», fece sospirando e raddrizzandosi don Giuseppe che intanto,
avendo sentito egli pure il punger dell'amo, cercava di cavarsela come il
pesce.
L'altro ritornò all'assalto, ma invano. Don Giuseppe non aveva veduto
niente, non aveva udito niente, non aveva parlato di niente, non sapeva niente.
Pasotti tacque e il prete non tardò molto a metter fuori anche lui una punta di
timida malizia:
«Bochen propi minga, incoeu, non boccano; gh'è come vent in aria».
Intanto, in casa, il dialogo fra la Maria e la signora Barborin, dopo il
primo affettuoso scambio di saluti riuscito benissimo, procedeva malissimo. La
Maria propose, a gesti, di scendere in giardino, ma la Pasotti implorò a mani
giunte d'esser lasciata sulla sua seggiola. Allora la grossa Maria prese
un'altra seggiola, le si pose accanto, cercò rivolgerle qualche parola, e non
arrivando, per quanto vociasse, a farsi intendere, vi rinunciò, si prese il suo
gattone in grembo e parlò a quello.
La povera signora Barborin, rassegnata, guardava il gatto con i suoi grandi
occhioni neri, velati di vecchiaia e tristezza. Ecco finalmente Pasotti, ecco
don Giuseppe che ricomincia a sbuffare:
«Ah Signor! Cara la mia sciora Barborin! Che la scüsa tant!» Avendo la Maria
confessato al «scior Controlòr» che sua moglie e lei non erano riuscite a
capirsi, il padrone le diede, per ossequio alla Pasotti, del «salamm» e poiché
ella voleva pur difendersi, la fece prudentemente chetare con un imperioso
agitar di mano e un «ta ta ta ta!». Poi le accennò misteriosamente del capo ed
ella uscì. Pasotti le tenne dietro e le disse che sua moglie, dovendo recarsi a
visitare i Rigey e non sapendo, per le voci che correvano, come regolarsi,
desiderava qualche informazione dalla Maria, perché «la Maria sa sempre tutto».
«Quante chiacchiere!», fece la Maria, lusingata. «Io non so mai niente. Sa
da chi deve andare la Sua "sciora"? Dal signor Giacomo Puttini. È il
signor Giacomo che le sa tutte.»
«Bene!», pensò Pasotti collegando questo discorso con quello del mezzadro e
fiutando una buona traccia. Fece in pari tempo una spallata d'incredulità. Il
signor Giacomo sapeva forse le cose che succedevano nel mondo della luna, ma
basta; altro non sapeva mai! La Maria insistette, il volpone cominciò a lavorar
di domande, alla lontana, con cautela, ma trovò duro, capì ch'era fatica
gittata e che doveva accontentarsi di quell'accenno. Allora tacque, ritornò,
tra soddisfatto e preoccupato, nella stanza dove don Giuseppe stava spiegando
alla signora Barborin, con gesti appropriati, che la Maria le avrebbe portato
qualche cosa da mangiare. La donna comparve infatti con un certo vaso quadrato
di vetro, pieno di ciliege allo spirito, speciale e celebrata cura di don
Giuseppe che soleva presentarlo agli ospiti con solennità, parlando il suo
particolare italiano: «Posso fare un poco di sporgimento? Quattro delle mie
ciliege? Magara con un tocchello di pane? Maria, tajee giò on poo de pan».
La signora Barborin pigliò solamente il pane per consiglio del mefistofelico
marito che pigliò solamente le ciliege. Poi se ne andarono insieme ed ella ebbe
licenza di ritornare ad Albogasio mentre il Controllore prese la via di casa
Gilardoni.
«L'è on bargnìf, el scior Pasotti», disse la Maria quand'ebbe dato il
chiavistello all'uscio di strada.
«L'è on bargnifòn, minga on bargnìf», esclamò don Giuseppe, pensando
all'amo. E con quell'appellativo di «bargnìf» che designa il diavolo
considerato nella sua astuzia, le due mansuete creature si sfogarono, si
ripagarono di tanta roba data malvolentieri, cerimonie, sorrisi e ciliege.
Il professor Gilardoni stava leggendo sul suo belvedere dell'orto, quando
vide Pasotti che veniva dietro il Pinella, fra le rape e le barbabietole. Non
sentiva simpatia per il Controllore col quale aveva scambiato un paio di visite
in tutto e che aveva fama di «tedescone». Però, essendo inclinato a pensar bene
di tutti coloro che conosceva poco, non gli pesava usare anche con lui la
cortesia cordiale ch'era solito usar con tutti. Gli andò incontro col suo berretto
di velluto in mano, e dopo una scaramuccia di complimenti in cui Pasotti ebbe
facilmente la meglio, ritornò insieme a costui sul belvedere.
Pasotti, dal canto suo, sentiva per il professore Gilardoni un'antipatia
profonda, non tanto perché lo sapesse liberale, quanto perché il Gilardoni,
quantunque non andasse a messa come lui, viveva da puritano, non amava la
tavola né la bottiglia né il tabacco né certi discorsi liberi, e non giuocava a
tarocchi. Discorrendo una sera nell'orto con don Franco delle solenni
scorpacciate e trincate che Pasotti e gli amici suoi facevano spesso alle
cantine di Bisgnago, il professore aveva detta una parola severa ed era stato
udito dal curatone, uno dei mangiatori, che passava in barca rasente i muri,
piano piano, pescando. «Villanaccio!», aveva esclamato, all'udirselo riferire,
il Controllore gentilissimo con una faccia da «bargnìf» bilioso; aveva poi
fatto tener dietro alla parola un ringhio spregiativo e uno sputo. Ciò non
gl'impedì però adesso di stemperarsi in iscuse per aver indebitamente ritardata
la sua visita, come non gl'impedì di sbirciar subito il volume posato sul
tavolino rustico del belvedere. Il Gilardoni notò quell'occhiata e siccome si
trattava di un libro proibito dal Governo, appena avviata la conversazione, lo
prese quasi per istinto e se lo tenne sulle ginocchia in modo che colui non
potesse leggerne il titolo. Questa precauzione turbò Pasotti che stava
magnificando la villetta e l'orto in tutte le loro parti col tono appropriato a
ciascuna, le barbabietole con amabile familiarità, le agavi con ammirazione
grave e accigliata. Un lampo di sdegno gli brillò negli occhi e si spense
subito.
«Fortunato Lei!», diss'egli sospirando. «Se i miei affari lo permettessero,
vorrei vivere anch'io in Valsolda.»
«È un paese di pace», fece il professore.
«Sì, è un paese di pace; e poi adesso, nelle città, chi ha servito il
Governo, è inutile, non si trova bene. La gente non sa distinguere fra un buon
impiegato che si occupi solamente del proprio ufficio come ho fatto io, e un
poliziotto. Siamo esposti a certi sospetti, a certe umiliazioni...»
Il professore diventò rosso e si pentì d'aver levato il libro dal tavolino.
Davvero Pasotti, malgrado le sue smancerie di umiltà, era troppo orgoglioso per
far mai la spia, e sia per questo, sia per qualche buona fibra del suo cuore,
mai non la fece. Vi fu dunque nelle sue parole un grammo di sincerità, un
grammo d'oro che bastò a dar loro il suono del buon metallo. Il Gilardoni ne fu
tocco, offerse al suo visitatore un bicchier di birra e si affrettò a scendere
in cerca di Pinella onde aver un pretesto di lasciar il volume sul tavolino.
Appena partito il professore, Pasotti ghermì il libro, gli diede una curiosa
occhiata, lo rimise a posto e si piantò in capo alla scala con la tabacchiera
aperta in mano, frugando nel tabacco e sorridendo, tra l'ammirazione e la
beatitudine, ai monti, al lago, al cielo. Il libro era un Giusti, stampato
colla falsa data di Bruxelles, anzi di Brusselle e con il titolo Poesie
italiane tratte da una stampa a penna. In un angolo del frontespizio si leggeva
scritto per isghembo: «Mariano Fornic». Non occorreva l'acume di Pasotti per
indovinar subito in quel nome eteroclito l'anagramma di Franco Maironi.
«Che bellezza! Che paradiso!», diss'egli a mezza voce mentre il professore
saliva la scala seguito dal Pinella con la birra.
Confessò poi, tra un sorso e l'altro, che la sua visita era un pochino
interessata. Si disse innamorato della muraglia fiorita che sosteneva l'orto
Gilardoni a fronte del lago, e desideroso di imitarla ad Albogasio Superiore
dove, se il lago mancava, i muri nudi eran troppi. Come s'era procurato il
professore quelle agavi, quei capperi, quelle rose?
«Ma!», rispose candidamente il professore. «Me li ha donati Maironi.»
«Don Franco?», esclamò Pasotti. «Benissimo. Allora, siccome don Franco ha
molta bontà per me, mi rivolgerò a lui.»
E trasse la tabacchiera. «Povero don Franco!», diss'egli, guardando il
tabacco e palpandolo con la tenerezza di un bargnìf commosso. «Povero
figliuolo! Qualche volta si riscalda ma è un gran buon figliuolo! Gran bel
cuore! Povero figliuolo! Lei lo vede spesso?»
«Sì, abbastanza.»
«Almeno potesse riuscire nei suoi desideri, povero figliuolo! Lo dico per
lui e anche per lei! Non sarà mica una cosa sfumata?»
Pasotti disse questa interrogazione da grande artista, con interesse
affettuoso ma discreto, senza esprimere più curiosità che non convenisse,
volendo ungere e ammollire un poco il cuore chiuso del Gilardoni onde si
aprisse, poco a poco, da sé. Ma il cuore del Gilardoni, invece di aprirsi a
quel tocco delicato, si contrasse, si rinchiuse.
«Non lo so», rispose il professore sentendosi, con dispetto, diventar rosso;
e diventò scarlatto. Pasotti notò subito nel suo taccuino mentale la risposta
imbarazzata e il colore. «Farebbe male», diss'egli, «ad abbandonare la partita.
La marchesa si capisce che abbia delle difficoltà, ma poi è buona, gli vuole un
gran bene. Ha preso una paura, l'altra notte, povera donna!»
Guardò il professore che taceva inquieto, accigliato, e pensò: non parli?
allora sai. «Capisce!», riprese. «Non dire dove si va! Non Le pare?»
«Ma io non so niente, io non capisco niente!», esclamò il Gilardoni, sempre
più accigliato, sempre più inquieto.
Qui Pasotti sapendo che il professore aveva cessato da lungo tempo di
visitare le Rigey e ignorandone la cagione, arrischiò un passo avanti, da
bargnìf novizio.
«Bisognerebbe domandarne a Castello», diss'egli con un sorriso malignetto.
A questo punto il Gilardoni, che già bolliva, traboccò.
«Mi faccia il piacere», diss'egli impetuosamente, «lasciamo stare questo
discorso, lasciamo stare questo discorso!»
Pasotti si rabbuiò. Cerimonioso, adulatore, sdolcinato, non era però mai
disposto, nell'orgoglio suo, a prendersi pacificamente in faccia una parola
spiacevole, e s'impermaliva d'ogni ombra. Non parlò più, e passato un paio di
minuti prese congedo con dignitosa freddezza, si ritirò masticando rabbia
attraverso le barbabietole e le rape. Quando si trovò da capo nella contrada
dei Mal'ari, il bargnìf stette un pezzetto a pensare col mento in mano, poi si
avviò verso la riva di Casarico, a passi lenti, molto curvo, ma con gli occhi
brillanti del barbone che ha fiutato in aria l'indirizzo recondito di un
tartufo. Le spaventate difese di don Giuseppe, le difese ostinate della Maria,
l'imbarazzo e lo scatto del professore gli dicevano che il tartufo c'era e
grosso. Gli era venuta l'idea di andare a Loggio dove abitavano il Paolin e il
Paolon, gente bene informata; poi aveva pensato ch'era martedì e che
probabilmente non li avrebbe trovati. No, era meglio salir direttamente da
Casarico a Castello, fiutare e frugare nell'abitazione di certa signora Cecca,
ottima donna, tutta cuore, famosa per l'assidua vigilanza che esercitava dalle
sue finestre, per mezzo di un formidabile cannocchiale, sulla Valsolda intiera.
Ella poteva dire ogni giorno chi fosse andato a Lugano col barcaiuolo Pin o col
barcaiuolo Panighèt, notava i colloqui del povero Pinella con una certa Mochèt
sul sagrato di Albogasio, lontano un chilometro; sapeva in quanti giorni il
signor ingegnere Ribera avesse bevuto il bariletto di vino che la sua barca
riportava vuoto dalla casa d'Oria alla cantina di S. Margherita. Se Franco era
stato in casa Rigey, la signora Cecca doveva saperlo.
Nel sottoportico che da Casarico mette alla stradicciuola di Castello,
Pasotti si sentì venir dietro a precipizio qualcuno che gli passò accanto nel
buio, e credette di conoscere un tale detto «légora fügada (lepre cacciata)»
per la sua andatura sempre furiosa. Era costui un egregio galantuomo ancora più
curioso di Pasotti, un'ottima persona che amava di saper le cose semplicemente
per saperle, senz'altri fini, e andava sempre solo, si trovava dappertutto,
compariva e scompariva in un baleno, quando in un luogo quando nell'altro, come
certi insettoni alati che danno un guizzo, un frullo, un colpo e poi, zitti,
non si odono, non si vedono più sino a un altro guizzo, a un altro frullo, a un
altro colpo. Egli aveva scorti i Pasotti entrare al «Palazz» e si era
insospettito di qualche cosa per l'ora insolita. Appiattato in un campicello
aveva visto la signora Barborin ritornare e il Controllore avviarsi a Casarico,
quindi, seguito costui alla lontana, s'era appostato, durante la sua visita al
Gilardoni, dietro un pilastro del portico di Casarico; e ora gli era scivolato
accanto approfittando dell'oscurità per correre a Castello e aspettarlo,
sorvegliarlo da qualche buon posto di osservazione. Lo vide infatti entrare
dalla signora Cecca.
La vecchia e gozzuta signora stava nel suo salotto tenendosi in collo un
marmocchio col braccio sinistro e reggendo con la mano libera uno sperticato
tubo di cartone infilato per isghembo nella finestra, come una spingarda, con
la mira giù al lago scintillante, a una vela bianca, gonfia di breva.
All'entrar di Pasotti che veniva avanti con la persona inclinata, con il
cappello in mano, con un viso ilare ilare, dolce dolce, la buona ospitale donna
posò in fretta quel lungo naso mostruoso di cartone che le piaceva metter nelle
faccende più lontane degli altri, dove il suo proprio naso di cartapecora,
benché smisurato, non arrivava. Ell'accolse il Controllore, come avrebbe
accolto un Santo taumaturgo che fosse venuto a portarle via il gozzo.
«Oh che brao scior Controlòr! Oh che brao scior Controlòr! Oh che piasè! Oh che
piasè!»
E lo fece sedere, lo soffocò di offerte.
«On poo de torta! On poo de
crocant! Car el me scior Controlòr! On poo de vin! On poo de rosoli! -
Ch'el me scüsa neh», soggiunse perché il marmocchio s'era messo a miagolare.
«L'è el me nevodin. L'è el me biadeghin.»
Pasotti fece molte cerimonie, avendo già nello stomaco, oltre alle ciliege
di don Giuseppe, anche la birra del Gilardoni; ma dovette finire col
rassegnarsi a rosicchiare una dannata torta di mandorle, mentre il piccino si
attaccava al gozzo della nonna.
«Povera signora Cecca! Due volte madre!», disse pateticamente, a quella
vista, il sarcastico bargnìf, ridendo nello stomaco. Dopo averle chiesto
notizie del marito e dei discendenti fino alla terza generazione, mise in campo
la signora Teresa Rigey. Come stava quella povera donna? Male! Proprio tanto
male? Ma da quando? E c'era stata qualche cagione? Qualche commozione? Qualche
dispiacere? Gli antichi si conoscevano, ma ce n'erano stati dei nuovi? Forse
per la Luisina? Per quel matrimonio? E don Franco non veniva mai a Castello? Di
giorno, no, va bene; ma...?
Come quando il chirurgo va interrogando e tastando un paziente in cerca
dell'occulto posto doloroso, che il paziente risponde tanto più breve e trepido
quanto più la mano indagatrice si appressa al punto e, appena essa vi arriva,
trasalendo si sottrae; così la signora Cecca andò rispondendo al Pasotti sempre
più breve e cauta, e a quel ma, posto delicatamente dove le doleva, scattò:
«On poo de torta ancamò! Scior
Controlòr! L'è roba d'i tosann!»
Pasotti sacramentò in cuor suo contro i «tosann» e la loro torta di miele,
creta e olio di mandorle, ma credette utile d'ingoiarne un altro boccone e
tornò poi a toccare, anzi a premere, il tasto di prima.
«So de nagott, so de nagott, so de nagott!», esclamò la signora Cecca.
«Ch'el proeuva a ciamagh al Pütin! Al scior Giacom! E a mi ch'el me ciama pü
nient!» Ancora! Pasotti brillò in viso all'idea di avere il malcapitato sior
Zacomo nelle granfie. Così brillerebbero gli occhi di un falco allegro all'idea
di ghermir un ranocchio e di tenerselo fra gli artigli per giuoco e spasso.
Egli se ne andò poco dopo, contento di tutto fuorché della torta di creta che
aveva sullo stomaco.
Casa Puttini, simile nella sua piccola faccia signorile al piccolo vecchio padrone
che la governava in abito nero e cravattone bianco, stava poco più giù della
orgogliosa mole di casa Pasotti, sulla via di Albogasio Inferiore. Il falco vi
andò dopo pranzo, verso le cinque, con una faccia maligna. Bussò all'uscio e
stette in ascolto. C'era, c'era il ranocchio disgraziato, litigava, secondo il
solito, con la perfida servente. Pasotti bussò più forte. «Verzì!», disse il
signor Giacomo, ma la Marianna non voleva saperne di scendere ad aprire.
«Verzì! Verzì! Son paron mi!» Tutto inutile. Pasotti bussò da capo, picchiò
come una catapulta. «Chi xelo sto maledeto?», vociferò il Puttini; e venne giù
soffiando «apff! apff!» ad aprire. «Oh, Controllore gentilissimo!», diss'egli,
battendo le palpebre e alzando pateticamente le sopracciglia. «La perdona!
Quela fatal servente! No go più testa! No ghe digo gnente cossa che nasse in
sta casa.»
«L'è minga vera!», gridò Marianna dall'alto.
«Tasì!» E qui il signor Giacomo incominciò a raccontare i suoi guai,
rimbeccando a ogni tratto le proteste della serva invisibile.
«Stamatina, La s'imagina, vado a Lugan. Vegno a casa zirconzirca a le tre.
Su la porta, La varda qua, che xe de le giozze. Tasì! - No ghe bado, tiro
drito. Son sul pato de la scala per andar in cusina; ghe xe de le giozze. Zito!
- Cossa gala spanto? digo. Me sbasso, meto un deo in tera; tasto; xe onto;
snaso, el xe ogio. Alora ghe vado drio a le giozze. Tasto, snaso, tasto, snaso.
Tutto ogio, Controllore gentilissimo. O 'l xe vegnudo, digo, o 'l xe andà via.
Se el xe vegnudo lo gà portà el massaro e alora le giozze co semo fora dela
porta le gà d'andar in suso, se el xe andà via vol dir che quela
maledetissima... La tasa!... Lo gà portà a vender a San Mamette e alora le
giozze le gà d'andar in zoso. E mi torna in drio e vaghe drio a ste giozze e
drio e drio, e rivo a la porta; Controllore mio gentilissimo, le giozze le va
in zoso. Quela b...»
A questo punto la voce della serva scattò come la sveglia d'un orologio e
non ci fu più «tasì!» che valesse a fermare quello stridente getto continuo di
parole rabbiose. Ci si provò Pasotti e, non riuscendo, uscì dai gangheri anche
lui con un «O fiolonona!» e proseguì a tirarle improperi, a ciascuno dei quali
il signor Giacomo faceva un sommesso accompagnamento di gratitudine. «Sì,
linguazza, bravo, ghe son obligà. Sì, stria, bravo. Impiastro, sì signor. Ghe
son obligà, Controllore gentilissimo, ghe son propramente obligà.»
Quando la Marianna parve sopraffatta e chetata, Pasotti disse al signor
Giacomo che aveva bisogno di parlargli. «No go testa», rispose l'ometto. «La me
perdona, me sento mal.»
«Eh no go tescta, no go tescta!», vociò la Marianna rediviva. «Ch'el ghe
disa inscì ch'el coo el l'avarà perduu a andà de nott a trovà i tosann a
Castell!»
«Tasì!», urlò il Puttini; e Pasotti, con un ghigno diabolico: «Come come
come?». Visto ch'egli entrava in furore, lo afferrò per un braccio, con parole
di pace e d'affetto, lo trascinò via, se lo portò a casa, chiamò sua moglie; e
per chetare il povero ranocchio, per pigliarselo comodamente fra gli artigli,
intavolò un tarocchino in tre.
Se la signora Barborin giuocava male, il signor Giacomo, meditando,
ponderando e soffiando, giuocava peggio. Era un giuocatore timidissimo, non si
metteva mai solo contro gli altri due. Stavolta si trovò in mano, appena
seduto, carte così straordinarie che fu preso da un accesso di coraggio e, come
dice il linguaggio del giuoco, entrò. «Chi sa che giuocone ha!», brontolò
Pasotti.
«No digo... no digo... ghe xe dei frati che spasseza in pantofole.»
Il «no digo» del signor Giacomo significava ch'egli teneva in mano carte
miracolose; e i frati in pantofole erano, nel suo gergo, i quattro re del
giuoco. Mentre si accingeva a giuocare palpando ciascuna carta e aguzzandovi
gli occhi su, Pasotti colse il suo momento, sperando, per giunta, fargli
perdere il giuoco. «Dunque», diss'egli, «mi racconti un poco. Quando è andato a
Castello di notte?»
«Oh Dio, oh Dio, lassemo star», rispose il signor Giacomo, rosso rosso,
palpando le carte più che mai.
«Sì, sì, adesso giuochi. Parleremo dopo. Tanto, io so tutto.»
Povero signor Giacomo, sì, giuocare con quello spino in gola! Palpò, soffiò,
uscì dove non avrebbe dovuto, sbagliò a contare i tarocchi, perdette un paio di
frati con le relative pantofole, e malgrado il giuocone, lasciò alcune
marchette negli artigli di Pasotti che ghignava e nel piattino della signora
Barborin che ripeteva a mani giunte: «Cos'ha mai fatto, signor Giacomo, cos'ha
mai fatto?».
Pasotti raccolse le carte e si mise a scozzarle guardando con una faccia
sardonica il signor Giacomo che non sapeva dove guardare.
«Sicuro», diss'egli. «So tutto. La signora Cecca mi ha raccontato tutto. Del
resto, caro deputato politico, Lei ne renderà conto all'I. R. Commissario di
Porlezza.»
Così dicendo, Pasotti porse il mazzo al Puttini perché alzasse. Ma il
Puttini, udito quel nome minaccioso, si mise a gemere:
«Oh Dio, oh Dio, cossa disela, no so gnente... oh Dio... l'Imperial Regio
Commissario?... Digo... no savaria per cossa... apff!»
«Sicuro!», ripeté Pasotti. Aspettava una parola che gli facesse un po' di
lume; e significò a sua moglie, additando col pollice prima l'uscio e poi la
propria sua bocca, che andasse a pigliar da bere.
«Anca quel benedeto ingegner!», esclamò, quasi parlando tra sé, il signor
Giacomo.
Come un pescatore raccoglie stentatamente a sé la lunga lenza pesante,
scossa, egli crede, dal grosso pesce lungamente insidiato, e tira e tira e
finalmente scorge venir su dal fondo due grandi ombre di pesci invece d'una
sola, palpita, raddoppia di cautela e d'arte; così Pasotti, all'udir nominare
l'ingegnere, si meravigliò, palpitò e si dispose a estrarre con la più squisita
delicatezza di mano il segreto del signor Giacomo e del Ribera.
«Sicuro», diss'egli. «Ha fatto male.»
Silenzio del signor Giacomo.
Pasotti insistette:
«Ha fatto malissimo.»
Ecco la signora Barborin che tutta sorridente porta vassoio, bottiglia e
bicchieri. Il vino è rosso cupo, con trasparenze di rubino in corpo e il signor
Giacomo gli fa un viso non ancora tenero ma benevolo. Il vino ha un aroma di
austera virtù ed il signor Giacomo lo fiuta amorosamente, lo guarda commosso,
lo torna a fiutare. Il vino ha una pastosa pienezza ch'empie palato e anima di
sapore, il vino è appunto quel giusto, virtuoso amarone che l'aroma annuncia e
il signor Giacomo lo sorseggia nel desiderio che non sia liquido e fuggevole,
lo mastica, lo pacchia, se lo spalma per la bocca; e quando di tanto in tanto
posa il bicchiere sul tavolino, non lo lascia però né con la mano né con gli occhi
imbambolati.
«Povero ingegnere!», esclamò Pasotti. «Povero Ribera! È un buon galantuomo,
ma...»
E tira e tira, il disgraziato signor Giacomo cominciò a venir su, dietro
all'amo e al filo.
«Mi propramente», diss'egli, «no volea. El me gà fato zo. "Vegnì",
el dise, "percossa mo no volìo vegner? Mal no se fa, la cossa xe
onesta." Sì, digo, me par anca a mi; ma sto secreto! "Ma! La
nona!" el dise. Capisso, digo, ma no me comoda. "Gnanca a mi",
el dise. Ma alora, digo, che figura fémoi, Ela e mi? "Quela del
m...", el dise con quel so far de bon omo a la vecia, "che cossa
vorla?, el xe propramente per el mio temperamento." Alora vegno, digo.»
Qui si fermò. Pasotti aspettò un poco e poi, con prudenza, tirò il filo. «Il
male si è», diss'egli, «che a Castello se ne sia parlato.»
«Sì signor; e me lo son imaginà. Tase la famegia, tase l'ingegner, taso mi
che s'intende, ma no taserà el piovan, no taserà el nonzolo.»
Il parroco? Il sacrestano? Adesso Pasotti capì. Trasecolò; non si aspettava
un affare così grosso. Versò da bere al malcapitato signor Giacomo, gli cavò
facilmente tutti i particolari del matrimonio e cercò di cavargli pure i
progetti degli sposi; ma questo non gli riusciva. Si mise a scozzar le carte
per continuar il giuoco e il signor Giacomo guardò l'orologio, trovò che
mancavano nove minuti alle sette, ora in cui era solito caricare il suo
pendolo. Tre minuti di strada, due minuti di scale, non aveva più che quattro
minuti per congedarsi. «Controllore gentilissimo, La ghe fazza el conto, la xe
cussì, no ghe xe ponto de dubio.»
La signora Barborin, vedendo un contrasto, ne domandò a suo marito. Pasotti
si accostò le mani alla bocca e le gridò sul viso: «El voeur andà a trovà la
morosa!». «Cossa mai! Cossa mai!», fece il povero signor Giacomo diventando di
tutti i colori; e la Pasotti che per un miracolo aveva udito, aperse una bocca
smisurata, non sapeva se dovesse credere o no. «La morosa? Oh! Quanti ciàcer!
Minga vera, sür Giacom, che hin ciàcer? El podarìss ben avèghela per quell,
disi minga, l'è minga vècc, ma insomma!» Capito che voleva proprio andarsene,
cercò trattenerlo, aveva dei marroni di Venegono che stavan cuocendo, li
offerse. Ma né i marroni né gl'improperi di Pasotti valsero a vincere il signor
Giacomo che partì con lo spettro dell'I. R. Commissario nel cuore e insieme con
una sensazione molesta nella coscienza, con un vago malcontento di sé ch'egli
non sapeva spiegare a se stesso, col dubbio istintivo che le ingiurie della
perfida servente fossero preferibili, in fin de' conti, alle moine di Pasotti.
Invece costui aveva gli occhi ancora più brillanti dell'usato. Pensava di
andar a Cressogno subito. Camminatore instancabile, contava di potervi arrivare
alle otto. L'idea di andare dalla marchesa con la sua grossa scoperta in
pectore, di fare il misterioso, di metter fuori un po' alla volta le paroline
più suggestive e di farsi strappare il resto, lo divertiva moltissimo. E
preparava già per il proprio piacere un discorsetto blando, ammolliente, da
posare poi sulla ferita della impassibile dama per modo ch'ella non potesse
dissimularla e che nessuno avesse a lagnarsi di lui, neppure Franco. Andò in
cucina, si fece accendere la lanterna perché la notte era molto scura, e partì.
Incontrò sulla porta il suo mezzadro ch'entrava. Il mezzadro lo salutò,
portò in cucina un gran canestro di frutta, aiutò la serva a metterle a posto,
sedette al fuoco e disse placidamente:
«È mort adess la sciora Teresa de Castell».
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