L'uscio si aperse un poco, pian piano, la fantesca porse il capo nella
camera e chiamò Franco che pregava inginocchiato a una seggiola, presso il
letto della morta. Franco non udì e fu Luisa che si alzò. Andò ad ascoltar la
sommessa richiesta della donna, le rispose qualche cosa e, ritrattasi colei,
stette lì ad aspettare. Non comparendo nessuno, spinse l'uscio e disse forte:
«Venga, venga dentro». Un singhiozzo violento le rispose. Luisa stese ambedue
le mani e il professor Gilardoni gliele afferrò. Stettero così alquanto tempo,
immobili, lottando, a labbra serrate, con l'emozione, lui più di lei. Luisa si
mosse la prima, ritirò dolcemente una mano e trasse con l'altra il professore
nella camera della morta.
La signora Teresa era spirata in salotto, sulla poltrona che non aveva più
potuto lasciare dopo la notte del matrimonio. L'avevano poi adagiata sul divano
disposto a letto funebre. Il dolce viso era là nella luce di quattro candele,
cereo, sul guanciale, con un sorriso trasparente dalle palpebre chiuse, con la
bocca semiaperta. Il letto e l'abito erano sparsi di fiori d'autunno,
ciclamini, dalie, crisantemi. «Guardi com'è bella», disse Luisa con voce tenera
e serena da spezzar il cuore. Il professore s'appoggiò singhiozzando a una
sedia lontana dal letto.
«Lo senti, mamma», disse Luisa sottovoce, «come ti vogliono bene?»
S'inginocchiò, e presa la mano della morta, si mise a baciarla, ad
accarezzarla, a dirle dolcezze, piano; poi tacque, posò la mano, si alzò, baciò
la fronte, contemplò a mani giunte il viso. Pensò ai rimproveri che la mamma le
aveva fatti negli anni andati, dall'infanzia in poi, di cui ella si era
risentita amaramente. S'inginocchiò da capo, impresse da capo le labbra sulla
mano di ghiaccio con un più ardente spasimo d'amore che se avesse ricordate le
carezze. Poi tolse un ciclamino dalla spalla della morta, si alzò, lo porse al
professore. Questi lo prese piangendo, s'accostò a Franco che rivedeva per la
prima volta dopo quella notte, l'abbracciò e ne fu abbracciato con una
commozione silenziosa, e uscì, in punta di piedi, dalla camera.
Suonarono le otto. La signora Teresa era morta alle sei della sera
precedente; in ventisei ore Luisa non aveva mai riposato un momento, non era
uscita che quattro o cinque volte, per pochi minuti. Chi usciva spesso e stava
fuori anche a lungo, era Franco.
Avvertito segretamente, era giunto a Castello, appena in tempo di trovar
viva la povera mamma, e tutti i tristi uffici che la morte impone eran toccati
a lui, perché lo zio Piero, malgrado i suoi molti anni, non aveva la menoma esperienza
di queste cose e vi si trovava impacciatissimo.
Adesso, udite suonar le otto, si avvicinò a sua moglie, la pregò dolcemente
di andar a riposare un poco, ma Luisa gli rispose subito in modo da levargli il
coraggio d'insistere. Il funerale doveva seguire l'indomani mattina alle nove.
Ell'aveva desiderato che si differisse il più possibile e voleva star con la
mamma fino all'ultimo. Vi era nella sua sottile persona una indomita vigoria,
eguale a ben altre prove. Per lei la mamma era tutta lì su quel lettuccio, tra
i fiori. Non pensava che una parte di lei fosse altrove, non la cercava per la
finestra di ponente nelle stelline che tremolavano sopra i monti di Carona.
Pensava soltanto che la mamma cara, vissuta da tanti anni per lei sola, non
d'altro sollecita in terra che della felicità sua, dormirebbe fra poche ore e
per sempre sotto i grandi noci di Looch, nella solitudine ombrosa dove tace il
piccolo cimitero di Castello, mentre ella si godrebbe la vita, il sole,
l'amore. Aveva risposto a Franco quasi aspramente come se l'affetto del vivo
offendesse in qualche modo l'affetto della morta. Poi le parve averlo
mortificato, si pentì, gli diede un bacio e sapendo di far cosa a lui grata, di
far cosa che la mamma si era certo attesa da lei, volle pregare. Si mise a
recitar macchinalmente dei Pater, degli Ave e dei Requiem, senza provarne
soddisfazione alcuna, sentendo anzi una segreta contrarietà, uno sgradito
disseccarsi del dolore. Ell'aveva praticato sempre ma, spenti i fervori della
prima comunione, non aveva più partecipato con l'anima al culto. Sua madre era
vissuta piuttosto per il mondo futuro che per questo, si era governata in ogni
azione, in ogni parola, in ogni pensiero secondo quel fine. Le idee e i
sentimenti di Luisa, nel suo precoce sviluppo intellettuale, avevano preso un
altro corso con la risolutezza vigorosa ch'era del carattere di lei; ella li
copriva però di certa dissimulazione, parte conscia, parte inconscia, sia per
amore della mamma, sia per la resistenza di germi religiosi seminati dalla
parola materna, coltivati dall'esempio, rinvigoriti dall'abitudine. Dai
quattordici anni in poi s'era venuta inclinando a non guardare oltre la vita
presente, e insieme a non guardare a sé, a vivere per gli altri, per il bene
terreno degli altri, però secondo un forte e fiero senso di giustizia. Andava
in chiesa, compiva gli atti esterni del culto, senza incredulità e senza
persuadersi che facessero piacere a Dio. Aveva confusamente il concetto di un
Dio talmente alto e grande che non vi potesse essere contatto immediato fra gli
uomini e Lui. Se dubitava qualche volta d'ingannarsi, il suo errore le pareva
tale da non poterlo un Dio infinitamente buono punire. Come fosse venuta a
pensare così, non lo sapeva ella stessa.
L'uscio si aperse ancora, pian piano, una voce sommessa chiamò «il signor
don Franco». Luisa, rimasta sola, cessò di pregare, piegò il capo sul guanciale
della mamma, le posò le labbra sulla spalla, chiuse gli occhi raccogliendo in
sé la corrente di memorie che veniva da quel tocco, da un odor noto di lavanda.
L'abito della mamma era di seta, il suo migliore, un dono dello zio Piero. Ella
lo aveva portato una volta sola, qualche anno addietro, andando a visitare la
marchesa Maironi. Anche questo pensiero venne coll'odor di lavanda, vennero
lagrime brucianti, acri di tenerezza e di un sentimento che non era
propriamente odio, che non era propriamente collera, ma che aveva un amaro
dell'uno e dell'altra.
Franco, quando s'intese chiamare, trasalì, ne indovinò subito la cagione. Lo
zio Piero aveva scritto, la mattina per tempo, alla marchesa, annunciandole, in
termini semplici ma pieni di ossequio, la morte di sua sorella; e Franco stesso
aveva aggiunto alla lettera dello zio un biglietto con queste parole:
Cara nonna, mi manca il tempo di scriverti perché son qui; te lo dirò a voce
domani sera e confido che tu mi ascolterai come mi avrebbero ascoltato mio
padre e mia madre.
Nessuna risposta era ancora venuta da Cressogno. Adesso un uomo di Cressogno
aveva portato una lettera. Dov'è quest'uomo? «Partito; non s'è voluto fermare
un momento.» Franco prese la lettera, ne lesse l'indirizzo: "Al preg.
signor ingegnere Pietro Ribera", e conobbe la mano della figlia del
fattore. Salì subito dallo zio Piero che, stanco, era andato a letto.
Lo zio Piero, quando Franco gli recò la lettera, non fece atto di sorpresa
né di curiosità; disse placidamente:
«Apri».
Franco posò il lume sul cassettone e aperse la lettera voltando le spalle al
letto. Parve pietrificato; non fiatò, non si mosse.
«Dunque?», chiese lo zio.
Silenzio.
«Ho capito», fece il vecchio. Allora Franco lasciò cader la lettera, alzò le
mani in aria, mise un «ah!» lungo, profondo e fioco, pieno di stupore e
d'orrore.
«Insomma», riprese lo zio, «si può sapere?»
Franco si scosse, si precipitò ad abbracciarlo, reprimendo a stento i
singhiozzi.
L'uomo pacifico sopportò sulle prime in silenzio, senza commuoversi, questa
tempesta. Poi cominciò a difendersene chiedendo la lettera: «Da qua, da qua, da
qua». E pensava: «Cosa diavolo avrà scritto questa benedetta donna?». Franco
prese il lume e la lettera, gliela porse. La nonna non aveva scritto niente,
neppure una sillaba; aveva semplicemente rimandata la lettera dell'ingegnere e
il biglietto di Franco. Lo zio ci mise un pezzo a capirla: non capiva mai le cose
prontamente e questa era per lui tanto inconcepibile! Quando l'ebbe capita non
poté fare a meno di dire: «Già, l'è un po' grossa». Ma poi, veduto Franco tanto
fuori di sé, esclamò col vocione solenne che usava per giudicar toto corde le
cose umane: «Senti. L'è, dirò così», (e cercava la parola in un suo particolar
modo, gonfiando le gote e mettendo una specie di rantolo), «... una iniquità;
ma tutte queste meraviglie che fai tu, io non le faccio per niente affatto.
Tutti i torti, caro, non sono dalla parte sua; e allora? Del resto, me ne
rincresce per voialtri che mangerete di magro e dovrete vivere in questo
miserabile paese; ma per me? Per me ci guadagno e son pronto dirò così a
ringraziare tua nonna. Vedi bene, io non ho fatto famiglia, ho sempre contato
su questa. Adesso la mia povera sorella è morta; se la nonna vi apriva le
braccia io restavo come un torso di cavolo. Dunque!».
Franco si guardò dal raccontar la cosa a sua moglie, ed ella, benché sapesse
delle lettere spedite a Cressogno, non domandò che dopo il funerale, parecchie
ore dopo, se la nonna avesse risposto. Il piccolo salotto, la piccola terrazza,
la piccola cucina erano stati pieni di gente tutto il giorno, dalle nove della
mattina alle nove della sera. Alle dieci Luisa e Franco uscirono di casa senza
lanterna, presero a destra, attraversarono pian piano, silenziosamente, le
tenebre del villaggio, toccarono la svolta chiara e ventosa cui sale il fragor
profondo del fiume di S. Mamette, entrarono nelle ombre, nel forte odore dei
noci di Looch. Poco prima di giungere al cimitero, Luisa domandò sottovoce a
suo marito: «Sai niente di Cressogno?». Egli avrebbe pur voluto nasconderle
almeno in parte il vero e non lo poté. Disse che il suo biglietto gli era stato
rimandato e Luisa volle sapere se almeno la nonna avesse scritto allo zio una
parola di condoglianza. Il «no» di Franco fu così incerto, quasi trepidante,
che, non subito, ma pochi passi dopo, Luisa ebbe un lampo di sospetto e si
fermò di colpo, afferrò il braccio di suo marito. Franco, prima ch'ella aprisse
bocca, intese, l'abbracciò come aveva abbracciato lo zio, con impeto ancor
maggiore, le disse di prender il suo cuore, l'anima sua, la sua vita, di non
cercar altro al mondo, se la sentì tremar tutta fra le braccia. Né allora né
poi una sola parola ne fu più detta fra loro. Al cancello del cimitero
s'inginocchiarono insieme. Franco pregò con impeto di fede. Luisa trapassò con
gli occhi avidi la terra smossa presso all'entrata, trapassò la bara, si
affissò mentalmente nel volto mansueto e grave della mamma; mentalmente ancora
ma con tanto gagliardo impulso da scuotere le sbarre del cancello, si chinò, si
chinò, fisse le labbra sulle labbra della morta, v'impresse una violenza
d'amore più forte che tutti gli insulti, che tutte le bassezze odiose del
mondo.
Si staccò a stento di là verso le undici. Discendendo adagio a fianco di suo
marito lo sdrucciolevole ciottolato del sentiero, le sorse improvvisa in mente
la visione di un incontro futuro con la marchesa. Si fermò, si eresse,
stringendo i pugni; e il suo bel viso intelligente spirò una fierezza tale che
se la vecchia signora di marmo l'avesse realmente veduta, realmente incontrata
in quel punto, si sarebbe senz'altro, piegata no, impaurita no, ma posta in
difesa.
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