Il sole calava dietro al ciglio del monte Brè e l'ombra oscurava rapidamente
la costa precipitosa e le case di Oria, imprimeva, violacea e cupa, il profilo
del monte sul verde luminoso delle onde che correvano oblique a ponente, grandi
ancora ma senza spuma, nella breva stanca. Casa Ribera si era oscurata
l'ultima. Addossata ai ripidi vigneti della montagna, sparsi d'ulivi, essa
cavalca la viottola che costeggia il lago, e pianta nell'onda viva una fronte
modesta, fiancheggiata a ponente, verso il villaggio, da un giardinetto pensile
a due ripiani, a levante, verso la chiesa, da una piccola terrazza gittata su
pilastri che inquadrano un pezzo di sagrato. Entra in quella fronte una piccola
darsena dove allora si dondolava, fra lo schiamazzar delle onde, il battello di
Franco e Luisa. Sopra l'arco della darsena una galleria sottile lega il
giardinetto pensile di ponente alla terrazza di levante e guarda il lago per
tre finestre. La chiamavan loggia, forse perché lo era stata in antico. La
vecchia casa portava incrostati qua e là parecchi di questi venerandi nomi
fossili che vivevano per la tradizione e figuravano, nella loro apparente
assurdità, i misteri nella religione delle mura domestiche. Dietro alla loggia
vi ha una sala spaziosa e dietro alla sala due stanze: a ponente il salottino
da pranzo tappezzato di piccoli uomini illustri di carta, ciascuno sotto il
proprio vetro e dentro la propria cornice, ciascuno atteggiato dignitosamente a
modo degl'illustri di carne e d'ossa, come se i colleghi nemmanco esistessero e
il mondo non guardasse che a lui; a levante la camera dell'alcova dove accanto
agli sposi dormiva nel proprio letticciuolo la signorina Maria Maironi nata
nell'agosto del 1852.
Dai cassettoni rococò delle camere da letto alla madia della cucina, dal
nero pendolo del salottino da pranzo al canapè della loggia con la sua stoffa
color marrone cosparsa di cavalieri turchi gialli e rossi, dalle seggiole
impagliate a certi seggioloni dai bracciuoli spropositatamente alti, i mobili
della casa appartenevano all'epoca degli uomini illustri, la maggior parte dei
quali portava parrucca e codino. Se parevano discesi dal granaio, parevan pure
aver ripreso nell'aria e nella luce della nuova dimora certe perdute abitudini
di pulizia, un notevole interesse alla vita, una dignità di onesta vecchiaia.
Così un'accozzaglia di vocaboli disusati potrebbe oggi comporsi, nel soffio
d'un attempato poeta conservatore, e rifletterne la serena ed elegante
senilità. Sotto il regime matematico e burocratico dello zio Piero, seggiole e
seggioloni, tavole e tavolini avevano vissuto in perfetta simmetria e il
privilegio della inamovibilità era stato accordato persino agli stoini. Il nome
di «mobile» non lo aveva meritato che un cuscino grigio e celeste, un aborto di
materasso, che l'ingegnere durante i suoi brevi soggiorni a Oria si portava con
sé quando mutava seggiolone. Assente lui, il custode rispettava tanto le
suppellettili da non osar di toccarne confidenzialmente, di spolverarne le
parti meno visibili. Ciò faceva andar sulle furie la governante, regolarmente,
ad ogni ritorno in Valsolda. Il padrone, irritato che per un po' di polvere si
gridasse tanto contro un povero diavolo di contadino, se la pigliava con lei e
le suggeriva di spolverare ella stessa; e quando la donna scattò a domandargli,
in via di sdegnosa replica, se dovesse ammazzarsi a spolverare tutta la casa
ogni volta che veniva, le rispose bonariamente: «Mazzèv ona volta sola ch'el
sarà assée».
Egli abbandonava poi del tutto al capriccio del custode la coltivazione del
giardinetto come quella di un orto che possedeva a levante del sagrato, in riva
al lago. Solo una volta, due anni prima del matrimonio di Luisa, arrivando a
Oria in principio di settembre e trovando nel secondo ripiano del giardinetto
sei piante di granturco, si permise di dire al custode: «Sent on poo: quii ses
gamb de carlon, podarisset propi minga fann a men?».
I poeti non conservatori Franco e Luisa avevano trasformata, col loro
soffio, la faccia delle cose. La poesia di Franco era più ardita, fervida e
appassionata, la poesia di Luisa era più prudente; così i sentimenti di Franco
gli fiammeggiavano sempre dagli occhi, dal viso, dalla parola e quelli di Luisa
non davano quasi mai fiamme ma solo coloravano il fondo del suo sguardo
penetrante e della sua voce morbida. Franco non era conservatore che in
religione e in arte; per le mura domestiche era un radicale ardente, immaginava
sempre trasformazioni di pareti, di soffitti, di pavimenti, di arredi. Luisa
incominciava con ammirar il suo genio, ma poiché i denari venivan quasi tutti
dallo zio e non ci era larghezza per imprese fantastiche, piano piano, un po' per
volta, lo persuadeva di lasciar a posto le pareti, i soffitti e anche i
pavimenti, di studiar come si sarebbero potuti disporre meglio gli arredi senza
trasformarli. E gli suggeriva delle idee senza averne l'aria, facendogli
credere che venivan da lui, perché alla paternità delle idee Franco ci teneva
molto e Luisa era invece del tutto indifferente a questa maternità. Così tra
l'uno e l'altra disposero la sala per la conversazione, la lettura e la musica,
la loggia per il giuoco, la terrazza per il caffè e per le contemplazioni
poetiche. Di quella terrazzina Franco fece la poesia lirica della casa. Era
piccina assai e parve a Luisa che vi si potesse concedere un po' di sfogo
all'estro di suo marito. Fu allora che cadde dal trono il re dei gelsi
valsoldesi, il famoso antico gelso del sagrato, un tiranno che toglieva alla
terrazza tutta la vista migliore. Franco si liberò da lui mediante pecunia,
disegnò e alzò sopra la terrazza un aereo contesto di sottili aste e bastoncini
di ferro che figuravan tre archi sormontati da una cupolina, vi mandò su due
passiflore eleganti che vi aprivan qua e là i loro grandi occhi celesti e
ricadevano da ogni parte in festoni e vilucchi. Un tavoluccio rotondo e alcune
sedie di ferro servivano per il caffè e per la contemplazione. Quanto al
giardinetto pensile, Luisa avrebbe potuto sopportare anche il granturco per una
tolleranza di spirito superiore che ama lasciar in pace gl'inferiori nelle loro
idee, nelle loro abitudini, nei loro affetti. Ella sentiva una certa rispettosa
pietà per gl'ideali orticoli del povero custode, per quell'insalata di rozzezze
e di gentilezze ch'egli aveva nel cuore, un gran cuore capace di accogliere
insieme reseda e zucche, begliuomini e carote. Invece Franco, generoso e
religioso com'era, non avrebbe tollerato nel suo giardino una zucca né una
carota per amore di qualsiasi prossimo. Ogni stupida volgarità lo irritava.
Quando l'infelice ortolano si sentì predicare dal signor don Franco che il
giardinetto era una porcheria, che bisognava cavar tutto, buttar via tutto,
rimase sbalordito, avvilito da far pietà; ma poi lavorando agli ordini suoi per
riformare le aiuole, per contornarle di tufi, per piantare arbusti e fiori,
vedendo come il padrone stesso sapesse lavorar di sua mano e quanti terribili
nomi latini e qual portentoso talento avesse in testa per immaginare
disposizioni nuove e belle, concepì poco a poco per lui un'ammirazione quasi
paurosa e quindi anche, malgrado i molti rabbuffi, una affezione devota.
Il giardinetto pensile fu trasformato a immagine e similitudine di Franco.
Un'olea fragrans vi diceva in un angolo la potenza delle cose gentili sul caldo
impetuoso spirito del poeta; un cipressino poco accetto a Luisa vi diceva in un
altro angolo la sua religiosità; un piccolo parapetto di mattoni a traforo, fra
il cipresso e l'olea, con due righe di tufi in testa che contenevano un ridente
popolo di verbene, petunie e portulache, accennava alla ingegnosità singolare
dell'autore; le molte rose sparse dappertutto parlavano del suo affetto alla
bellezza classica; il ficus repens che vestiva le muraglie verso il lago, i due
aranci nel mezzo dei due ripiani, un vigoroso, lucido carrubo rivelavano un
temperamento freddoloso, una fantasia volta sempre al mezzogiorno, insensibile
al fascino del nord.
Luisa aveva lavorato e lavorava assai più del marito; ma se questi si
compiaceva delle proprie fatiche e ne parlava volentieri, Luisa invece non ne
parlava mai e non ne traeva veramente alcuna vanità. Lavorava d'ago,
d'uncinetto, di ferri, di forbici, con una tranquilla rapidità prodigiosa, per
suo marito, per la sua bambina, per ornar la sua casa, per i poveri e per sé.
Tutte le stanze avevan lavori suoi, cortine, tappeti, cuscini, paralumi. Era
pure affar suo di collocare i fiori in sala e in loggia; non piante in vaso
perché Franco ne aveva poche e non gli garbava di chiuderle nelle stanze; non
fiori del giardinetto perché coglierne uno era come strapparglielo dal cuore.
Erano invece a disposizione di Luisa le dalie, le rose, i gladioli, gli astri
dell'orto. Ma poiché non le bastavano e poiché il villaggio, dopo Dio, Santa
Margherita e S. Sebastiano, adorava la «sciora Lüisa», così ad un cenno suo i
ragazzi le portavano fiori selvaggi e felci, le portavano edera per rilegar con
festoni i grandi mazzi fissati alle pareti dentro anelli di metallo. Anche alle
braccia dell'arpa che pendeva dal soffitto della sala erano sempre
attorcigliati lunghi serpenti d'edera e di passiflora.
Lo zio Piero, quando gli scrivevano di queste novità, rispondeva poco o
nulla. Tutt'al più raccomandava di non tener troppo occupato l'ortolano il
quale doveva pur attendere alle faccende proprie. La prima volta che capitò a
Oria dopo la trasformazione del giardinetto, si fermò a guardarlo come aveva
fatto per le sei piante di granturco e borbottò sottovoce: «Oh poer a mi!».
Uscì sulla terrazza, guardò il cupolino, toccò le aste di ferro e pronunciò un
«basta!» rassegnato ma pieno di disapprovazione per tante eleganze superiori
allo stato suo e de' suoi nipoti. Invece, dopo aver esaminato in silenzio tutti
i mazzi, i mazzolini, i vasi, i festoni della sala e della loggia, disse con un
bonario sorriso: «Sent on poo, Lüisa; con tütt st'erba chì farisset minga mèj a
tegnì on para de pégor?».
Ma la governante fu beata di non aversi più ad ammazzare per la polvere e le
ragnatele, ma l'ortolano vantò senza fine le opere miracolose del signor don
Franco ed egli stesso comincio presto ad abituarsi ai nuovi aspetti della sua
casa, a guardar senza malevolenza il cupolino della terrazza che gli faceva comodo
per l'ombra. Dopo tre o quattro giorni domando chi lo avesse eseguito e gli
accadde di fermarsi qualche volta a guardar i fiori del giardinetto, di
chiedere il nome dell'uno e dell'altro. Dopo otto o dieci giorni, stando con la
piccola Maria sulla porta della sala che mette al giardinetto, le domando: «Chi
ha piantato tutti questi bei fiori?», e le insegnò a rispondere: «Papà». Ad un
suo impiegato venuto a fargli visita mostrò le opere del nipote e ne accolse
gli elogi con un assenso misurato ma pieno di soddisfazione: «Sì sì, per questo
sì». Insomma finì con diventare un ammiratore di Franco e persino con dare
ascolto, in via di conversazione, ad altri suoi progetti. E in Franco
crescevano l'ammirazione e la gratitudine per quella grande e generosa bontà,
che aveva vinto la natura conservatrice, l'avversione antica alle eleganze di
ogni maniera; per la solita bontà che ad ogni simile contrasto saliva saliva
silenziosamente dietro le renitenze dello zio fino a sormontare, a coprir tutto
con una larga onda di acquiescenza o almeno con la frase sacramentale «del
resto, fate vobis». A una sola novità lo zio non aveva voluto adattarsi: alla
scomparsa del suo vecchio cuscino. «Luisa», diss'egli sollevando con due dita
dal seggiolone il nuovo cuscino ricamato: «porta via». E non ci fu verso di
persuaderlo. «Et capì de portall via?» Quando Luisa sorridendo gli diede il
vecchio materassino abortito, egli ci si sedette su con un sonoro «inscì!» come
se riprendesse solennemente il possesso di un trono.
Adesso, mentre l'ombra violacea invadeva il verde delle onde e correva lungo
la costa, di paesello in paesello, spegnendo, una dopo l'altra, le bianche case
lucenti, egli era appunto seduto sul suo trono e si teneva sulle ginocchia la
piccola Maria, mentre Franco, sulla terrazza, annaffiava i vasi di pelargoni,
pieno il cuore e il viso di contentezza affettuosa come se versasse da bere a
Ismaele nel deserto, e Luisa stava sgrovigliando pazientemente una pesca di suo
marito, un garbuglio pauroso di spago, di piombi, di seta e di ami. Ella
discorreva in pari tempo col professore Gilardoni che aveva sempre qualche
garbuglio filosofico da sgrovigliare e ci si metteva molto più volentieri con
lei che con Franco, il quale lo contraddiceva sempre, a torto e a ragione,
avendolo in concetto d'un ottimo cuore e d'una testa confusa. Lo zio, tenendo
il ginocchio destro sul sinistro e la bambina sul mucchio, le ripeteva per la
centesima volta, con affettata lentezza, e storpiando un poco il nome esotico,
la canzonetta:
Ombretta sdegnosa
Del Missipipì.
Fino alla quarta parola la bambina lo ascoltava immobile, seria, con gli
occhi fissi; ma quando veniva fuori il «Missipipì» scoppiava in un riso,
sbatteva forte le gambucce e piantava le manine sulla bocca dello zio, il quale
rideva anche lui di cuore e dopo un breve riposo ricominciava adagio adagio,
nel tono solito:
Ombretta sdegnosa...
La bambina non somigliava né al padre né alla madre, aveva gli occhi, i
lineamenti fini della nonna Teresa. Al vecchio zio, che pure vedeva di rado,
mostrava una tenerezza strana, impetuosa. Lo zio non le diceva paroline dolci,
le faceva, occorrendo, qualche piccola riprensione, ma le portava sempre
giuocattoli, la conduceva spesso a passeggio, se la faceva saltar sulle
ginocchia, rideva con lei, le diceva canzonette comiche, quella che cominciava
col «Missipipì» e un'altra che finiva:
Rispose tosto Barucabà.
Chi era mai Barucabà? E cosa gli avevano domandato?
«Toa Bà, toa Bà!», diceva Maria; «ancora Barucabà, ancora Barucabà!» Lo zio
le ripeteva allora la poetica storia ma nessuno la sa più ripetere a me.
Ecco di che parlava a Luisa, con la sua voce timida e gentile, il professore
Gilardoni, diventato un tantin più vecchio, un tantin più calvo, un tantin più
giallo. «Chi sa», aveva detto Luisa, «se Maria somiglierà alla nonna come nel
viso anche nell'anima?» Il professore rispose che sarebbe stato un miracolo
avere in una famiglia, a così poca distanza, due anime simili. E volendo
spiegare a quale rarissima specie fosse appartenuta, nel suo concetto, l'anima
della nonna, mise fuori il seguente garbuglio. «Vi sono», diss'egli, «anime che
negano apertamente la vita futura e vivono proprio secondo la loro opinione, per
la sola vita presente. Queste non sono molte. Poi vi sono anime che mostrano di
credere nella vita futura e vivono del tutto per la presente. Queste sono
alquante più. Poi vi sono anime che alla vita futura non pensano e vivono però
in modo da non mettersi troppo a repentaglio di perderla se c'è. Queste sono
più ancora. Poi vi sono anime che credono veramente nella vita futura e
dividono pensieri e opere in due categorie che fanno quasi sempre ai pugni fra
loro: una è per il cielo, l'altra è per la terra. Queste sono moltissime. Poi
vi sono anime che vivono per la sola vita futura nella quale credono. Queste
sono pochissime e la signora Teresa era di queste.»
Franco, che non poteva soffrire le disquisizioni psicologiche, passò
accigliato col suo annaffiatoio vuoto per andare nel giardinetto e pensò: «Poi
vi sono anime che rompono l'anima». Lo zio, del resto un po' sordo, rideva con
la Maria. Luisa, passato che fu suo marito, disse piano: «Poi vi sono anime che
vivono come se vi fosse la sola vita futura nella quale non credono: e di
queste ve n'è una». Il professore trasalì e la guardò senza dir nulla. Ella
stava cercando nella matassa della pesca un filo doppio, a occhiello, per farlo
passare. Non vide quello sguardo ma lo sentì e si affrettò a indicare col capo
lo zio. Aveva ella pensato proprio a lui nel dir quello che aveva detto? O vi
era stata nel suo pensiero una occulta complicazione? Aveva pensato allo zio
senza un vero convincimento, solo perché non osava nominare, neanche nel
pensiero, un'altra persona cui le sue parole potevano riferirsi più
giustamente? Il silenzio del professore, lo sguardo scrutatore di lui, non
incontrato ma sentito, le rivelarono ch'egli sospettava di lei stessa: per
questo accennò frettolosamente allo zio.
«Non crede nella vita futura?», mormorò il professore.
«Direi di no», rispose Luisa e subito si sentì nel cuore un rimorso, sentì
che non aveva sufficienti ragioni, che non aveva il diritto di rispondere così.
In fatto lo zio Piero non s'era curato mai di meditare sulla religione: egli
compenetrava nel suo concetto della onestà la continuazione delle vecchie
pratiche di famiglia, la professione della fede avita, presa come stava, alla
carlona. Il suo era un Dio bonario come lui, che non ci teneva tanto alle
giaculatorie né ai rosari, come lui; un Dio contento di aver per ministri,
com'era contento lui di aver per amici, dei galantuomini di cuore, fossero pure
allegri mangiatori e bevitori, tarocchisti per la vita, franchi raccontatori di
porcherie non disoneste a lecito sfogo della sudicia ilarità che ciascuno ha in
corpo. Certi suoi discorsi scherzosi, certi aforismi buttati là senza
riflettere sulla importanza relativa delle pratiche religiose e sulla
importanza assoluta del vivere onesto l'avevano colpita fin da bambina, anche
perché la mamma se ne inquietava moltissimo e supplicava suo fratello di non
dire spropositi. Le era entrato il sospetto che lo zio andasse in chiesa
solamente per convenienza. Non era vero; non bisognava tener conto degli
aforismi di uno che, invecchiato nel sacrificio e nell'abnegazione, soleva dire
«charitas incipit ab ego»; e poi, quand'anche lo zio avesse stimato poco le
pratiche religiose, a negar la vita futura ci correva ancora un bel tratto.
Infatti, appena messo fuori il suo giudizio e uditolo suonare, Luisa lo sentì
falso, vide più chiaro in se stessa, intese di avere inconsciamente cercato
nell'esempio dello zio un appoggio e un conforto per sé.
Il professore era tutto commosso di una rivelazione tanto inattesa.
«Quest'anima unica», diss'egli, «che vive come se non pensasse che alla vita
futura nella quale non crede, è in errore, ma bisogna pur ammirarla come la più
nobile, la più grande. È una cosa sublime!»
«Lei è certo, però, che quest'anima è in errore?»
«Oh sì sì!»
«Ma Lei, a quale delle Sue categorie appartiene?»
Il professore si credeva dei pochissimi che si regolano interamente secondo
un'aspirazione alla vita futura; benché forse sarebbe stato imbarazzato a
dimostrare che i suoi profondi studi su Raspail, il suo zelo nel preparare acqua
sedativa e sigarette di canfora, il suo orrore dell'umidità e delle correnti
d'aria significassero poca tenerezza per la vita presente. Però non volle
rispondere, disse che non appartenendo a nessuna Chiesa, credeva tuttavia
fermamente in Dio e nella vita futura e che non poteva giudicare il proprio
modo di vivere.
Intanto Franco, annaffiando il giardinetto, aveva trovato fiorita una
verbena nuova, e, posato l'annaffiatoio, era venuto sulla soglia della loggia e
chiamava la Maria per fargliela vedere. La Maria si lasciava chiamare e voleva
ancora «Missipipì», onde lo zio la posò a terra e la condusse lui al papà.
«Però, professore», disse Luisa uscendo con la parola viva da un corso
occulto d'idee, «si può, non è vero, credere in Dio e dubitare della nostra
vita futura?»
Ell'aveva posato, così dicendo, l'aggrovigliata matassa della pesca e
guardava il Gilardoni in viso con un interesse vivo, con un desiderio manifesto
che rispondesse di sì; e, perché il Gilardoni taceva, soggiunse:
«Mi pare che qualcuno potrebbe dire: che obbligo ha Iddio di regalarci
l'immortalità? L'immortalità dell'anima è una invenzione dell'egoismo umano che
in fin dei conti vuol far servire Iddio al comodo proprio. Noi vogliamo un
premio per il bene che facciamo agli altri e una pena per il male che gli altri
fanno a noi. Rassegnamoci invece a morire anche noi del tutto come ogni essere
vivente e facciamo sin che siamo vivi la giustizia per noi e per gli altri,
senza speranza di premi futuri, solo perché Iddio vuole da noi questo come vuole
che ogni stella faccia lume e che ogni pianta faccia ombra. Cosa Le pare, a
Lei?»
«Cosa vuol che Le dica?», rispose il Gilardoni. «A me pare una gran
bellezza! Non posso dire: una gran verità. Non lo so, non ci ho mai pensato; ma
una gran bellezza! Io dico che il Cristianesimo non ha potuto avere né
immaginare dei Santi sublimi come questo qualcuno! È una gran bellezza, è una
gran bellezza!»
«Perché poi», riprese Luisa dopo un breve silenzio, «si potrebbe forse anche
sostenere che questa vita futura non sarebbe proprio felice. Vi è felicità
quando non si conosce la ragione di tutte le cose, quando non si arriva a
spiegare tutti i misteri? E il desiderio di saper tutto sarà esso appagato
nella vita futura? Non resterà ancora un mistero impenetrabile? Non dicono che
Dio non si conoscerà interamente mai? E allora, nel nostro desiderio di sapere,
non finiremo a soffrire come adesso, anzi forse più, perché in una vita
superiore quel desiderio dev'essere ancora più forte? Io vedrei un solo modo di
arrivare a saper tutto e sarebbe di diventar Dio...»
«Ah, Lei è panteista!», esclamò il professore, interrompendo.
«Ssss!», fece Luisa. «No no no! Io sono cristiana cattolica. Dico quel che
altri potrebbero sostenere.»
«Ma scusi, vi è un panteismo...»
«Ancora filosofia!?», esclamò Franco entrando con la piccina in braccio.
«Oh, miseria!», borbottò lo zio alle sue spalle.
Maria teneva in mano una bella rosa bianca. «Guarda questa rosa, Luisa»,
disse Franco. «Maria, da' il fiore alla mamma. Guarda la forma di questa rosa,
guarda il portamento, guarda le sfumature, le venature di questi petali, guarda
quella stria rossa; e senti che odore, adesso! E lascia star la filosofia.»
«Lei è nemico della filosofia?», osservò il professore, sorridendo.
«Io sono amico», rispose Franco, «della filosofia facile e sicura che
m'insegnano anche le rose.»
«La filosofia, caro professore», interloquì lo zio, solennemente, «l'è tutta
in Aristòtel: quell che te pòdet avè, tòtel.»
«Lei scherza», ribatté il professore, «ma Lei pure è un filosofo.»
L'ingegnere gli posò una mano sulla spalla:
«Sentite, caro amico, la mia filosofia in vott o des biccièr la ci sta
tutta».
«Euh, vott o des biccièr!», borbottò la governante che udì, entrando, questa
spacconata d'intemperanza del suo misuratissimo padrone. «Vott o des corni!»
Veniva ad annunciare don Giuseppe Costabarbieri che fece in pari tempo udire
dalla sala un cavernoso e pure ilare Deo gratias. Ecco la rugosa faccia rossa,
gli occhi allegri, i capelli bianchi del mansueto prete.
«Si discorre di filosofia, don Giuseppe», disse Luisa dopo i primi saluti.
«Venga qui e metta fuori le Sue belle idee anche Lei!»
Don Giuseppe si grattò la nuca e poi volgendo un po' il capo verso
l'ingegnere con lo sguardo di chi desidera una cosa e non osa domandarla, mise
fuori il fiore delle sue idee filosofiche:
«Sarissel minga mej fa ona primerina?»
Franco e lo zio Piero, felici di salvarsi dalla filosofia del Gilardoni, si
misero allegramente a tavolino col prete.
Appena rimasto solo con Luisa, il professore disse piano:
«Ieri è partita la signora marchesa».
Luisa, che s'era presa Maria sulle ginocchia, le piantò le labbra sul collo,
appassionatamente.
«Forse», riprese il professore che mai non aveva saputo leggere nel cuore
umano né toccarne le corde a proposito, «forse, il tempo... son tre anni
soli... forse verrà il giorno che si piegherà.»
Luisa alzò il viso dal collo di Maria. «Forse lei, sì», diss'ella. Il
professore non capì, cedette al mal genio che ci suggerisce la peggior parola
nel peggior momento e, invece di smettere, si ostinò. «Forse, se potesse veder
Maria!» Luisa si strinse al petto la bambina e lo guardò con una fierezza tale
ch'egli si smarrì e disse: «Scusi». Maria, stretta così forte, alzò gli occhi
al viso strano della mamma, diventò rossa rossa, strinse le labbra, pianse due
grosse lagrime, scoppiò in singhiozzi.
«No no, cara», le mormorò Luisa teneramente, «sta buona, sta buona, tu non
la vedrai mai, tu!»
Appena chetata la bambina, il professore, turbato dall'idea di aver fatto un
passo falso, di aver offeso Luisa, un essere che gli pareva sovrumano, voleva
spiegarsi, giustificarsi, ma Luisa non lo lasciò parlare. «Basta, scusi»,
diss'ella alzandosi. «Andiamo a veder il giuoco.»
In fatto non s'accostò ai giuocatori, mandò Maria sul sagrato con la sua
piccola bambinaia Veronica e andò a portar un avanzo di dolce a un vecchione
del villaggio, che aveva un vorace stomaco e una piccola voce, con la quale
prometteva ogni giorno alla sua benefattrice la stessa preziosa ricompensa:
«Prima de morì ghe faroo on basin». Intanto il professore, pieno di scrupoli e
di rimorsi per le sue mosse poco fortunate, non sapendo se partire o rimanere,
se la signora tornerebbe o no, se andarne in cerca fosse indiscrezione o no,
dopo essersi affacciato al lago come per chieder consiglio ai pesci, dopo
essersi affacciato al monte per veder se da qualche finestra della casa gli
apparisse Luisa o qualcuno cui si potesse domandar di lei, andò finalmente a
vedere il giuoco. Ciascuno dei giuocatori teneva gli occhi sulle proprie
quattro carte raccolte nella sinistra, l'una sopra l'altra per modo che la
seconda e la terza sormontavan tanto da potersi riconoscere; e ciascuno, avendo
preso delicatamente fra il pollice e l'indice l'angolo superiore delle due
ultime, faceva uscire con un combinato moto del polso e delle dita la quarta
ignota di sotto la terza, adagio adagio, come se portasse la vita o la morte,
ripetendo con gran devozione appropriate giaculatorie: Don Giuseppe cui occorrevano
picche «scappa ross e büta négher», gli altri due che volevano quadri e cuori
«scappa négher e büta ross». Il professore pensò ch'egli pure aveva in mano una
carta coperta, un asso di denari, e che non sapeva ancora se l'avrebbe giuocata
o no. Aveva il testamento del vecchio Maironi. Pochi giorni dopo la morte della
signora Teresa, Franco gli aveva detto di distruggerlo e di non fiatarne mai
con sua moglie. Egli non aveva obbedito che quanto al silenzio. Il documento,
all'insaputa di Franco, esisteva ancora perché il suo possessore s'era fitto in
capo di aspettar gli eventi, di vedere se Cressogno e Oria facessero la pace,
se, perdurando le ostilità, Franco e la sua famigliuola capitassero nel
bisogno; nel quale ultimo caso avrebbe fatto qualche cosa lui. Che cosa avrebbe
fatto non sapeva bene, si coltivava in testa i germi di parecchie corbellerie e
aspettava che l'una o l'altra maturasse a tempo e luogo. Ora, guardando Franco
giuocare, ammirava come quell'uomo tanto assorto nella cupidità di un re di
quadri, avesse respinta l'altra carta preziosa, che neppure avesse voluto farne
saper niente a sua moglie. Egli attribuiva questo silenzio a modestia, al
desiderio di nascondere un azione generosa; e quantunque avesse preso da Franco
più d'un brusco rabbuffo e sentisse di non esserne tenuto in gran conto, lo
guardava con un rispetto pieno d'umile devozione. Franco fu il primo a scoprir
la quarta carta e le buttò via dispettosamente tutte mentre don Giuseppe
esclamava: «Ovèj! L'è négher!», e si fermava a pigliar fiato prima di andar
avanti a scoprire «se l'era güzz o minga güzz», cioè s'erano picche o fiori. Ma
l'ingegnere, alzato dalle carte il viso placido e sorridente, si mise a batter
col dito, sotto il piano del tavolino, dei colpettini misteriosi che volevan
dire: c'è la carta buona; e allora don Giuseppe, visto che il suo «négher» non
era «güzz», cacciò un «malarbetto!» e buttò via le carte anche lui. «Che reson
de ciapà rabbia!», fece l'ingegnere. «Anca vü sii négher e sii minga güzz.» Il
prete, avido della rivincita, si contentò d'invocarla sdegnosamente: «Scià i
cart, scià i cart, scià i cart!». E la partita, simbolo dell'eterna lotta
universale fra i neri e i rossi, ricominciò.
Il lago dormiva oramai coperto e cinto d'ombra. Solo a levante le grandi
montagne lontane del Lario avevano una gloria d'oro fulvo e di viola. Le prime
tramontane vespertine movevano le frondi della passiflora, corrugavano verso
l'alto, a chiazze, le acque grigie, portando un odor fresco di boschi. Il
professore era partito da un pezzo quando Luisa ritornò. Ell'aveva incontrato
sulla scalinata del Pomodoro una ragazza piangente che strillava, «el mè pà el
voeur mazzà la mia mamm!». Aveva seguita la ragazza in casa sua presso la
Madonna del Romìt e ammansato l'uomo che cercava sua moglie con un coltello in
mano, per causa non tanto d'una cattiva minestra quanto d'una cattiva risposta.
Luisa rappresentò a suo marito e a don Giuseppe l'ultimo atto del dramma, il
suo dialogo con la moglie ch'era corsa a nascondersi nella stalla. «Oh Regina,
dovè sii?» «Sont chì.» «Dovè, chì?» «Chì.» La voce tremante veniva di sotto la
vacca. La donna era proprio lì, accoccolata. «Vegnì foeura, donca!» «Sciora
no.» «Perché?» «Goo pagüra.» «Vegnì foeura ch'el voss marì el vaeur fav on
basin.» «Mi no.» Allora Luisa aveva chiamato dentro l'uomo. «E vü andee a fagh
on basin sott a la vacca.» E l'uomo aveva dato il bacio mentre la donna,
temendo un morso, gemeva: «Càgnem poeu minga, neh!».
«Che diàvol d'ona sciora Luisa», fece don Giuseppe. E soddisfatto della
scorpacciata di primiera, palpandosi dolcemente sui fianchi e sul ventre le
modeste rotondità, il piccolo personaggio del mondo antico pensò al secondo
scopo della sua visita. Voleva dire una parolina alla signora Luisa.
L'ingegnere era uscito a far i suoi soliti quattro passi fino alla piccola
salita del Tavorell ch'egli chiamava scherzosamente il San Bernardo; e Franco,
data un'occhiata alla luna che sfavillava allora fuor dal ciglio nero del
Bisgnago e giù nell'ondular dell'acqua, si pose a improvvisar sul piano
effusioni di dolore ideale, che andavan via per le finestre aperte sulla
sonorità profonda del lago. La improvvisazione musicale gli riusciva meglio
delle elaborate poesie perché il suo impetuoso sentire trovava nella musica una
espressione più facile e piena, e gli scrupoli, le incertezze, le sfiducie che
gli rendevano faticosissimo e lento il lavoro della parola, non tormentavano,
al piano, la sua fantasia. Allora si abbandonava all'estro anima e corpo,
vibrava tutto fino ai capelli, i chiari occhi parlanti ridicevan ogni sfumatura
dell'espressione musicale, gli si vedeva sotto le guance un movimento continuo
di parole inarticolate, e le mani, benché non tanto agili, non tanto sciolte,
facean cantare il piano inesprimibilmente.
Adesso egli passava da un tono all'altro, mettendo il più intenso sforzo
intellettuale in questi passaggi, ansando, sviscerando, per così dire, lo
strumento con le dieci dita e quasi anche cogli occhi ardenti. S'era messo a
suonare sotto l'impressione del chiaro di luna, ma poi, suonando, tristi nuvole
gli eran uscite dal fondo del cuore. Conscio di avere sognata, da giovinetto,
la gloria e di averne quindi umilmente deposta la speranza, diceva, quasi, a se
stesso con la sua mesta appassionata musica che pure anche in lui v'era qualche
lume d'ingegno, qualche calore di creazione veduto solamente da Dio, perché
neppur Luisa mostrava far dell'intelligenza sua quella stima che a lui stesso
mancava ma che avrebbe desiderata in lei; neppur Luisa, il cuor del suo cuore!
Luisa lodava misuratamente la sua musica e i suoi versi ma non gli aveva detto
mai: segui questa via, osa, scrivi, pubblica. Pensava così e suonava nella sala
oscura, mettendo in una tenera melodia il lamento del suo amore, il timido
segreto lamento che mai non avrebbe osato mettere in parole.
Sulla terrazza, nel mobile chiaroscuro che facevano insieme i fiati di
tramontana e la passiflora, la luna e il suo riverbero dal lago, don Giuseppe
raccontò a Luisa che il signor Giacomo Puttini era in collera con lui per colpa
della signora Pasotti la quale gli aveva falsamente riferito ch'esso don
Giuseppe andava predicando la convenienza di un matrimonio fra il signor
Giacomo e la Marianna. «Voeui morì lì», protestò il povero prete, «se ho detto
una parola sola! Niente! Tücc ball!» Luisa non voleva creder colpevole la
povera Barborin, e don Giuseppe le dichiarò che sapeva la cosa dallo stesso
signor Controllore. Ella capì subito, allora, che Pasotti s'era voluto
perfidamente burlare di sua moglie, del sior Zacomo e del prete, si schermì
dall'intervenire nella faccenda, come quest'ultimo avrebbe voluto e gli
consigliò di parlare alla Pasotti. «L'è inscì sorda!», fece don Giuseppe
grattandosi la nuca, e se n'andò malcontento, senza salutar Franco, per non
interromperlo. Luisa venne al piano in punta di piedi, stette ad ascoltar suo
marito, a sentir la bellezza, la ricchezza, il fuoco di quell'anima ch'era sua
e cui ell'apparteneva per sempre. Non aveva mai detto a Franco «segui questa
via, scrivi, pubblica», forse anche perché giustamente pensava, nel suo affetto
equilibrato, che non potesse produrre opere superiori alla mediocrità, ma
soprattutto perché, sebbene avesse un fine sentimento della poesia e della
musica, non faceva grande stima, in fondo, né dell'una né dell'altra, non le
piaceva che un uomo vi si dedicasse intero, ambiva per suo marito un'azione
intellettuale e materiale più virile. Ammirava tuttavia Franco nella sua musica
più che se fosse stato un grande maestro; trovava in questa espressione quasi
segreta dell'animo suo un che di verginale, di sincero, la luce di uno spirito
amante, il più degno d'essere amato.
Egli non s'accorse di lei se non quando si sentì sfiorar le spalle da due
braccia, si vide pender sul petto le due piccole mani. «No, no, suona suona»,
mormorò Luisa perché Franco gliele aveva afferrate; ma cercando lui col viso
supino, senza rispondere, gli occhi e le labbra di lei, gli diede un bacio e
rialzò il viso ripetendo: «Suona!». Egli trasse giù più forte di prima i due
polsi prigionieri, richiamò in silenzio la dolce, dolce bocca; e allora ella si
arrese, gli fermò le labbra sulle labbra con un bacio lungo, pieno di consenso,
tanto più squisito e ricreante del primo. Poi gli sussurrò ancora: «Suona».
Ed egli suonò, felice, una tumultuosa musica trionfale, piena di gioia e di
grida. Perché in quel momento gli pareva di posseder tutta intera l'anima della
donna sua mentre tante volte, pure sapendosi amato, credeva sentire in lei, al
di sopra dell'amore, una ragione altera, pacata e fredda, dove i suoi slanci
non arrivassero. Luisa gli teneva spesso le mani sul capo e andava di tratto in
tratto baciandogli lievemente i capelli. Ella conosceva il dubbio di suo marito
e protestava sempre di appartenergli tutta intera ma in fondo sentiva che aveva
ragione lui. Un tenace fiero sentimento d'indipendenza intellettuale resisteva
in lei all'amore. Ella poteva tranquillamente giudicar suo marito, riconoscerne
le imperfezioni e sentiva ch'egli non poteva altrettanto, lo sentiva umile nel
suo amore, devoto senza fine. Non credeva fargli torto, non provava rimorso, ma
s'inteneriva, quando ci pensava, di amorosa pietà. Indovinò adesso che
significasse quella effusione musicale di gioia e, commossa, abbracciò Franco,
fece tacere il piano d'un colpo.
Ecco sulle scale il passo lento e pesante dello zio che ritorna dal suo San
Bernardo.
Erano le otto e i soliti tarocchisti, il signor Giacomo e Pasotti, non
comparivano. Perché anche Pasotti, in settembre e in ottobre, era un
frequentatore di casa Ribera, dove faceva l'innamorato dell'ingegnere, di Luisa
e anche di Franco. Franco e Luisa sospettavano di un doppio giuoco ma Pasotti
era un vecchio amico dello zio e bisognava fargli una buona accoglienza per
riguardo allo zio. Poiché i tarocchisti tardavano, Franco propose a sua moglie
di uscir in barca a goder la luna. Prima andarono a veder Maria, che dormiva
nel lettino dell'alcova col viso inclinato alla spalla destra, con un braccio
sotto il capo e un altro posato sul petto. La guardarono, la baciarono
sorridendo, si incontrarono silenziosamente nel pensiero della nonna Teresa che
tanto l'avrebbe amata, la baciarono ancora col viso serio. «Povera la mia
piccina!», disse Franco. «Povera donna Maria Maironi senza quattrini!»
Luisa gli pose una mano sulla bocca. «Zitto!», diss'ella. «Felici noi che
siamo le Maironi senza quattrini!»
Franco intese, e sull'atto non replicò; ma poi, nell'uscir di camera per
andare in barca, disse a sua moglie, dimenticando una minaccia della nonna:
«Non sarà sempre così».
Quell'allusione alle ricchezze della vecchia marchesa dispiacque a Luisa.
«Non parlarmene», diss'ella. «Quella roba non vorrei toccarla con un dito.»
«Dico per Maria», osservò Franco.
«Maria ci ha noi che possiamo lavorare.»
Franco tacque. Lavorare! Anche quella lì era una parola che gli mordeva il
cuore. Sapeva di condurre una vita oziosa perché la musica, la lettura, i
fiori, qualche verso di tempo in tempo, cos'erano se non vanità e perditempi? E
questa vita la conduceva in gran parte a carico d'altri, perché, con le sue
mille lire austriache l'anno, come avrebbe vissuto? Come avrebbe mantenuto la
sua famiglia? Aveva preso la laurea ma senza cavarne profitto alcuno. Diffidava
delle proprie attitudini, si sentiva troppo artista, troppo alieno dalle arti
curialesche, sapeva di non aver nelle vene sangue di forti lavoratori. Non
vedeva salute che in una rivoluzione, in una guerra, nella libertà della
patria. Ah quando l'Italia fosse libera, come la servirebbe, con che forza, con
che gioia! Queste poesie nel cuore le aveva bene, ma il proposito e la costanza
di prepararsi con gli studi a un tale avvenire, no.
Mentr'egli remava in silenzio scostandosi dalla riva, Luisa andava pensando
come mai suo marito commiserasse la bambina perché non aveva denari. Non vi era
contraddizione tra la fede, la pietà cristiana di Franco e questo sentimento?
Le vennero in mente le categorie del professor Gilardoni. Franco credeva
fervidamente nella vita futura ma in fatto si attaccava con passione a tutto
che la vita terrena ha di bello, di buono e di onestamente piacevole, compreso
il tarocco, la primiera e i buoni pranzetti. Uno che osservava così
scrupolosamente i precetti della Chiesa, che ci teneva tanto a mangiar di magro
il venerdì e il sabato, a udire ogni domenica la spiegazione del Vangelo,
avrebbe dovuto conformar la propria vita molto più severamente all'ideale
evangelico. Avrebbe dovuto temerlo e non desiderarlo, il denaro.
«Buona lagata!», gridò lo zio dalla terrazza vedendo il battello e Luisa
seduta sulla prora, nel chiaro di luna. In faccia al nero Bisgnago tutta la
Valsolda si spiegava dal Niscioree alla Caravina nella pompa della luna, tutte
le finestre di Oria e di Albogasio come le arcate di Villa Pasotti, come le
casette bianche dei paeselli più lontani, Castello, Casarico, S. Mamette,
Drano, parevano guardare, come ipnotizzate, il grande occhio fisso della Morta
del cielo.
Franco tirò i remi in barca. «Canta», diss'egli.
Luisa non aveva mai studiato il canto ma possedeva una dolce voce di mezzo
soprano, un orecchio perfetto e cantava molte arie d'opera imparate da sua
madre che aveva udito la Grisi, la Pasta, la Malibran durante l'età d'oro
dell'opera italiana.
Cantò l'aria di Anna Bolena:
Al dolce guidami
Castel natìo
il canto dell'anima, che prima scende e si abbandona poco a poco, per più
dolcezza, all'amore, e poi, abbracciata con esso, risale in uno slancio di
desiderio verso qualche alto lume lontano che tuttavia manca alla sua felicità
piena. Ella cantava e Franco, rapito, fantasticava che aspirasse ad essergli
unita pure in quella parte superiore dell'anima che finora gli aveva sottratta,
che aspirasse a venir guidata da lui, in questa perfetta unione verso la meta
dell'ideale suo. E gli venivano le lagrime alla gola; e il lago ondulante e le
grandi montagne tragiche e quegli occhi delle cose fisi nella luna e la stessa
luce lunare, tutto gli si riempiva del suo indefinibile sentimento, per cui
quando di là dalla spezzata immagine dell'astro luccicori argentei sfavillarono
un momento fin sotto il Bisgnago, fin dentro il golfo ombroso del Dòi, se ne
commosse come di arcani segni alludenti a lui che si facessero il lago e la
luna, mentre Luisa compieva la frase:
Ai verdi platani
Al cheto rio
Che i nostri mormora
Sospiri ancor.
La voce di Pasotti gridò dalla terrazza:
«Brava!»
E la voce dello zio:
«Tarocco!»
Nello stesso tempo si udirono i remi d'una barca che veniva da Porlezza, si
udì un fagotto scimmiottar l'aria di Anna Bolena. Franco, che s'era seduto
sulla poppa del suo battello, salto in piedi, gridò lietamente:
«Ehi là!». Gli rispose un bel vocione di basso:
Buona sera,
Miei signori,
Buona sera,
Buona sera.
Erano i suoi amici del lago di Como, l'avvocato V. di Varenna e un tal
Pedraglio di Loveno, che solevano venire per far della musica in palese e della
politica in segreto; un segreto di cui Luisa sola era a parte.
Anche dalla terrazza si gridava:
«Bene, don Basilio!». «Bravo il fagotto!». E negli intervalli si udiva pure
la voce di un signore che si schermiva dal tarocco. «No, no, Controllore
gentilissimo, xe tardi, no ghe stemo più, no ghe stemo propramente più! Oh Dio,
oh Dio, La me dispensi, no posso, no posso; ingegnere pregiatissimo, me
raccomando a Ela.»
Lo fecero poi giuocare, l'ometto, con la promessa di non passar le due
partite. Egli soffiò molto e sedette al tavolino con l'ingegnere, Pasotti e
Pedraglio. Franco sedette al piano e l'avvocato gli si mise accanto col
fagotto.
Fra Pasotti e Pedraglio, due terribili motteggiatori, il povero signor
Giacomo ebbe una mezz'ora amara, piena di tribolazioni. Non gli lasciavano un
momento di pace. «Come va, sior Zacomo?» «Mal, mal.» «Sior Zacomo, non ci sono
frati che passeggiano in pantofole?» «Gnanca uno.» «E il toro? Come sta il
toro, sior Zacomo?» «La tasa, La tasa.» «Maledetto, eh, quel toro, sior
Zacomo?» «Maledetissimo, sì signor.» «E la servente, sior Zacomo?» «Zitto!»,
esclamò Pasotti a questa impertinente domanda di Pedraglio. «Abbiate prudenza.
A questo riguardo il signor Zacomo ha dei dispiaceri da parte di certi
indiscreti.» «Lassemo star, Controllore gentilissimo, lassemo star», interruppe
il signor Giacomo contorcendosi tutto, e l'ingegnere lo esortò a mandar i due
seccatori al diavolo. «Come, sior Zacomo», riprese Pasotti, imperterrito: «non
è un indiscreto quel piccolo sacerdote?». «Mi ghe digo aseno», fremette il
signor Giacomo. Allora Pasotti, tutto ridente e trionfante perché si trattava
proprio d'una burla sua, fece tacere Pedraglio che scoppiava dalla curiosità di
saper la storia e rimise in corso il tarocco.
Franco e l'avvocato studiavano un pezzo nuovo per piano e fagotto,
pasticciavano, si rifacevan ogni momento da capo; ed ecco entrare in punta di
piedi per non guastar le loro melodie, la signora Peppina Bianconi. Nessuno
s'accorse di lei tranne Luisa che se la fece sedere accanto, sul piccolo canapè
vicino al piano.
A Franco la signora Peppina, con la sua bontà cordiale, chiacchierona e sciocca,
urtava i nervi; a Luisa no. Luisa le voleva bene ma stava in guardia per il
Carlascia. La Peppina aveva udito dal suo giardino quella canzonetta «inscì
bella, neh», e poi il fagotto, i saluti; s'era immaginata che avrebbero fatto
musica e lei era «inscì matta, neh», per la musica! E poi c'è quel signor
avvocato «ch'el boffa denter in quel rob inscì polito!». E poi c'è il signor
don Franco «parlèmen nanca, con quèi diavoi de did!» Udir suonare il piano con
quella precisione era proprio come udire un organetto; e a lei gli organetti
piacevano «inscì tant!». Soggiunse che temeva recar disturbo ma che suo marito
l'aveva incoraggiata. E domandò se quell'altro signore di Loveno non suonava
anche lui, se si fermavano un pezzo; osservò che dovevano avere ambedue una
gran passione per la musica.
«Aspetta me, birbone d'un Ricevitore», pensò Luisa e rimpinzò sua moglie
delle più comiche frottole sulla melomania di Pedraglio e dell'avvocato,
infilzandone tante più quanto più s'irritava contro la gente odiosa da cui era
forza salvarsi a furia di menzogne. La signora Peppina le inghiottì
scrupolosamente tutte fino all'ultima, accompagnandovi affettuose note di lieta
meraviglia: «Oh bell, oh bell!». «Figürèmes!». «Ma guardee!». Poi, invece di
ascoltare la diabolica disputa del piano col fagotto, parlò del Commissario di
Porlezza e disse ch'egli aveva l'intenzione di venir a vedere i fiori di don
Franco.
«Venga pure», fece Luisa, fredda.
Allora la signora Peppina, approfittando di un uragano che Franco e l'amico
suo facevano insieme, arrischiò un discorsetto intimo che guai se il suo
Carlascia l'avesse udito; ma fortunatamente il buon bestione dormiva nel
proprio letto col berretto da notte tirato sugli orecchi.
«Mi goo inscì mai piasè de sti car fior!», diss'ella. Secondo lei, i Maironi
avrebbero fatto bene ad accarezzare un poco il signor Commissario. Era intimo
della marchesa e guai se gli veniva il ticchio di farli tribolare! Era un uomo
terribile, il Commissario. «El mè Carlo el baia un poo ma l'è on bon omasc; quell'alter
là, el baia minga, mah, neh!...» Per esempio, ella non sapeva niente, non aveva
udito niente, ma se quel signor avvocato e quell'altro signore fossero venuti
per qualche altra cosa invece che per la musica e il Commissario venisse a
saperlo, misericordia!
La luna trascinava i suoi splendori per il lago verso le acque di ponente;
il giuoco finì e il signor Giacomo si dispose a far accendere il suo
lanternino, malgrado le esclamazioni di Pasotti. «Il lume, sior Zacomo? È
matto? Il lume con questa luna?». «Per servirla», rispose il signor Giacomo.
«Prima ghe xe quel maledeto Pomodoro da passar, e po, cossa voria, adesso, la
luna! La diga che la xe la luna d'agosto, anca; perché siben che semo de
setembre, la luna la xe d'agosto. Ben! una volta, sì signor, le lune d'agosto
le gera lunazze, tanto fate, come fondi de tina; adesso le xe lunete,
buzarete... no, no, no.» E, acceso il suo lanternino, partì con Pasotti,
accompagnato fino al cancello del giardinetto dall'impertinente Pedraglio con
le solite antifone sul toro e la servente, si avviò verso gli antri di Oria,
col conforto delle giaculatorie di Pasotti: «gente maleducata, sior Zacomo,
gente villana!», giaculatorie dette abbastanza forte perché gli altri potessero
udire e ridere.
Un sonoro sbadiglio dell'ingegnere mise in fuga la signora Peppina. Pochi
momenti dopo, preso il suo solito bicchier di latte, egli tolse commiato
poeticamente:
Crescono sul Parnaso e mirti e
allori
Felicissima notte a lor signori.
Anche i due ospiti chiesero un po' di latte: e Franco che intese il loro
latino andò a pigliare una vecchia bottiglia del piccolo eccellente vigneto di
Mainè.
Quando ritornò, lo zio non c'era più. Il bruno, barbuto avvocato, una
quadratura di forza e di calma, alzò le due mani, chiamò silenziosamente a sé
Franco da una parte, Luisa dall'altra e disse piano, con la sua voce di
violoncello, calda e profonda: «Notizie grosse».
«Ah!», fece Franco, spalancando gli occhi ardenti. Luisa diventò pallida e
giunse le mani senza dir parola. «Sicuro», fece Pedraglio, tranquillo e serio.
«Ci siamo.» «Dite su, dite su, dite su!», fremette Franco. Fu l'avvocato che
rispose:
«Abbiamo l'alleanza del Piemonte con la Francia e l'Inghilterra. Oggi la
guerra alla Russia, domani la guerra all'Austria. Volete altro?»
Franco abbracciò di slancio, con un singulto, i suoi amici
I tre stettero abbracciati in silenzio, palpitando, stringendosi forte,
nella ebbrezza della magica parola: guerra. Franco non si accorgeva di avere
ancora la bottiglia in mano. Gliela tolse Luisa; egli allora si staccò
impetuoso dagli altri due e cacciatosi fra loro a braccia aperte, li trascinò
via per la vita come una valanga, li portò in loggia ripetendo: «Contate,
contate, contate».
Colà, chiuso per prudenza l'uscio a vetri che mette sulla terrazza,
l'avvocato e Pedraglio misero fuori il loro prezioso segreto. Una signora
inglese villeggiante a Bellagio, fervente amica dell'Italia, aveva ricevuto da
un'altra signora, cugina di sir James Hudson, ministro d'Inghilterra a Torino,
una lettera di cui l'avvocato possedeva la traduzione. La lettera diceva
ch'erano in corso a Torino, a Parigi e a Londra segretissime pratiche per avere
la cooperazione armata del Piemonte in Oriente, che la cosa era in massima
decisa fra i tre Gabinetti, che restavano solamente a risolvere alcuna
difficoltà di forma perché il conte di Cavour esigeva i maggiori riguardi alla
dignità del suo paese; che a Torino si era certi di ricevere al più tardi in
dicembre l'invito ufficiale delle Potenze occidentali per accedere puramente e
semplicemente al trattato del 10 aprile 1854. Si affermava persino che il corpo
di spedizione sarebbe comandato da S. A. R. il duca di Genova.
V. leggeva, e Franco teneva stretta la mano di sua moglie. Poi volle leggere
egli stesso e dopo lui lesse Luisa. «Ma!», diss'ella. «La guerra all'Austria?
Come?»
«Ma sicuro!», fece l'avvocato. «Vuole che Cavour mandi il duca di Genova e
quindici o ventimila uomini a battersi per i turchi se non ha in pugno la
guerra all'Austria? La signora crede che non passerà un anno.»
Franco scosse i pugni in aria con un fremito di tutta la persona.
«Viva Cavour», sussurrò Luisa.
«Ah!», fece l'avvocato. «Demostene non avrebbe potuto lodar il conte con
efficacia maggiore.»
Gli occhi di Franco s'empirono di lagrime. «Sono uno stupido», diss'egli.
«Cosa volete che vi dica?»
Pedraglio domandò a Luisa dove diavolo avesse cacciata la bottiglia. Luisa
sorrise, uscì e ritornò subito col vino e i bicchieri.
«Al conte di Cavour!», disse Pedraglio, sottovoce. Tutti alzarono il
bicchiere ripetendo: «al conte di Cavour!» e bevvero; anche Luisa che non
beveva mai.
Pedraglio si versò dell'altro vino e sorse in piedi.
«Alla guerra!», diss'egli.
Gli altri tre si alzarono di slancio impugnando il bicchiere
silenziosamente, troppo commossi per poter parlare.
«Bisogna andarci tutti!», disse Pedraglio.
«Tutti!», ripeté Franco. Luisa lo baciò con impeto, sulla spalla. Suo marito
le afferrò il capo a due mani, le stampò un bacio sui capelli.
Una delle finestre verso il lago era spalancata. Si udì, nel silenzio che
seguì quel bacio, un batter misurato di remi.
«Finanza», sussurrò Franco. Mentre la lancia delle guardie di finanza
passava sotto la finestra, Pedraglio fece «maledetti porci!» così forte che gli
altri zittirono. La lancia passò. Franco mise il capo alla finestra.
Faceva fresco, la luna scendeva verso i monti di Carona, rigando il lago di
una lunga striscia dorata. Che strano senso faceva contemplar quella romita
quiete con l'idea d'una gran guerra vicina! Le montagne, scure e tristi,
parevano pensare al formidabile avvenire. Franco chiuse la finestra e la
conversazione ricominciò sommessa, intorno al tavolino. Ciascuno faceva le
proprie supposizioni sugli avvenimenti futuri, e tutti ne parlavano come di un
dramma il cui manoscritto fosse già pronto fino all'ultimo verso, con i punti e
le virgole, nella scrivania del conte di Cavour. V., bonapartista, vedeva
chiaro che Napoleone intendeva vendicar lo zio demolendo uno ad uno i membri
della Santa Alleanza: oggi la Russia, domani l'Austria. Invece Franco,
diffidentissimo dell'imperatore, attribuiva l'alleanza sarda al buon volere
dell'Inghilterra, ma riconosceva che, appena proclamata quest'alleanza,
l'Austria, sacrificando i suoi interessi ai principii e agli odii si sarebbe
schierata con la Russia, per cui Napoleone sarebbe stato costretto di
combatterla. «Sentite», disse sua moglie, «io invece ho paura che l'Austria si
metta dalla stessa parte del Piemonte.» «Impossibile», fece l'avvocato. Franco
si sgomentò, ammirando la finezza dell'osservazione, ma Pedraglio esclamò:
«Off! Sti zurucch chì hin trop asen per fà ona balossada compagna!» e
l'argomento parve decisivo, nessuno ci pensò più, salvo Luisa. Si misero a
discorrere di piani di campagna, di piani d'insurrezione; ma qui non andavano
d'accordo. V. conosceva gli uomini e le montagne del lago di Como come forse
nessun altro, da Colico a Como e a Lecco. E dappertutto, lungo il lago, nella
Val Menaggio, nella Vall'Intelvi, nella Valsassina, nelle Tre Pievi aveva gente
devota, pronta magari a menar le mani a un cenno del «scior avocàt». Egli e
Franco credevano utile qualunque movimento insurrezionale che valesse a
distrarre anche una menoma parte delle forze austriache. Invece Luisa e
Pedraglio erano del parere che tutti gli uomini validi dovessero ingrossare i
battaglioni piemontesi. «Faremo la rivoluzione noi donne», disse Luisa con la
sua serietà canzonatoria. «Io, per parte mia, butterò nel lago il Carlascia.»
Discorrevano sempre sottovoce, con una elettricità in corpo che dava luce
per gli occhi e scosse per i nervi, assaporando il parlar sommesso con le porte
e le finestre chiuse, il pericolo di avere quella lettera, la vita ardente che
si sentivano nel sangue, le parole alcooliche a cui tornavano ogni momento.
Piemonte, guerra, Cavour, duca di Genova, Vittorio Emanuele, cannoni,
bersaglieri.
«Sapete che ore sono?», disse Pedraglio guardando l'orologio
«Le dodici e mezzo! Andiamo a letto.»
Luisa uscì a prendere delle candele e le accese, stando in piedi; nessuno si
mosse e sedette anche lei. Allo stesso Pedraglio, quando vide le candele
accese, passò la voglia di andar a letto.
«Un bel Regno!», diss'egli.
«Piemonte», disse Franco, «Lombardo-Veneto, Parma e
Modena.»
«E Legazioni», fece V.
Altra discussione. Tutti le avrebbero volute le Legazioni, specialmente
l'avvocato e Luisa; ma Franco e Pedraglio avevano paura di toccarle, temevano
di suscitare difficoltà. Si riscaldarono tanto che l'allegro Pedraglio invitò i
suoi compagni a gridare sottovoce: «Vosèe adasi, fioeu!». Allora fu V. che
propose di andare a letto. Prese in mano la candela ma senza alzarsi.
«Corpo di Bacco!», diss'egli, non sapeva bene se in forma di conclusione o
di esordio. In fatto aveva una gran voglia di parlare, di sentir parlare, e non
sapeva cosa trovar di nuovo. «Proprio corpo di Bacco!», esclamò Franco ch'era
nelle stesse condizioni. Seguì un silenzio alquanto lungo. Finalmente Pedraglio
disse: «Dunque?», e si alzò. «Andiamo?», fece Luisa avviandosi per la prima. «E
il nome?», chiese l'avvocato. Tutti si fermarono. «Che nome?» «Il nome del
nuovo Regno.» Franco posò subito la candela. «Bravo», diss'egli, «il nome!»,
come se fosse una cosa da decidere prima di andare a letto. Nuova discussione.
Piemonte? Cisalpino? Alta Italia? Italia?
Luisa posò presto la candela anche lei, e Pedraglio, perché gli altri non
volevano passargli il suo Italia, la posò pure. Però siccome il dibattito
andava troppo per le lunghe, riprese la candela e corse via ripetendo: «Italia,
Italia, Italia, Italia!» senz'ascoltar i «zitto» e i richiami degli altri che
lo seguivano in punta di piedi. Si fermarono ancora tutti a piè della scala che
Pedraglio e l'avvocato dovevano salire per andare a letto, e si diedero la
felice notte. Luisa entrò nella vicina camera dell'alcova; Franco restò a veder
salire i suoi amici. «Ehi!», diss'egli a un tratto. Voleva parlar loro dal
basso ma poi pensò invece di raggiungerli. «E se si perde?», sussurrò.
L'avvocato si contentò d'uno sdegnoso «off!» ma Pedraglio voltandosi come
una iena afferrò Franco per il collo. Si dibatterono ridendo sul pianerottolo
della scala e poi «addio!», Pedraglio corse su e Franco precipitò abbasso.
Sua moglie lo aspettava ferma in mezzo alla camera, guardando l'uscio.
Appena lo vide entrare gli andò, grave, incontro, lo abbracciò stretto stretto,
e quando egli, passati alcuni momenti, fece dolcemente atto di sciogliersi,
raddoppiò la stretta, sempre in silenzio. Franco, allora, intese. Ella lo
abbracciava adesso come lo aveva impetuosamente baciato prima, quando si era
parlato di andar tutti alla guerra. Strinse egli pure le tempie di lei fra le
mani, le baciò, le ribaciò i capelli e disse dolcemente: «Cara, pensa che gran
cosa, dopo, questa Italia!». «Oh sì!», diss'ella. Alzò il viso al viso di suo
marito, gli offerse le labbra. Non piangeva ma gli occhi erano un poco umidi.
Vedersi guardar così, sentirsi baciar così da quella creatura briosa e fiera
valeva bene alcuni anni di vita, perché mai mai ella non era stata con lui, nella
tenerezza, così umile.
«Allora», diss'ella, «non resteremo più in Valsolda. Tu dovrai lavorare come
cittadino, non è vero?»
«Sì, sì, certo!»
Si misero a discorrere con gran zelo, l'una e l'altro, di quel che avrebbero
fatto dopo la guerra, come per allontanar la idea di una possibilità terribile.
Luisa si sciolse i capelli e andò a guardar Maria nel suo lettino. La bimba si
era prima, forse, svegliata e s'era posto in bocca un ditino che poi pian
piano, tornando il sonno, n'era scivolato fuori. Ora dormiva con la bocca
aperta e il ditino sul mento. «Vieni, Franco», disse sua madre. Si piegarono
ambedue sul lettino. Il visetto di Maria aveva una soavità di paradiso. Marito
e moglie stettero a guardarla in silenzio e si rialzarono poi commossi, non
ripresero il discorso interrotto.
Ma quando furono a letto ed ebbero spento il lume, Luisa mormorò sulla bocca
di suo marito:
«Se viene quel giorno, tu vai; ma vado anch'io».
E non gli permise di rispondere.
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