La febbre di Maria non durò che otto giorni, eppure quando la piccina si
alzò i suoi genitori la trovarono mutata nel viso e nello spirito più che se
gli otto giorni fossero stati otto mesi. Gli occhi avevan preso un colore più
oscuro, una singolare espressione di serietà e di maturità precoce. Parlava più
chiaro e spedito, ma con le persone che non le garbavano non parlava affatto;
neanche le salutava. Ciò spiaceva più a Franco che a Luisa. Franco la voleva
gentile e Luisa temeva di guastarle la sincerità. Maria aveva per sua madre un
affetto non tanto espansivo ma violento: fiero, quasi, e geloso. Voleva molto
bene anche a suo padre; però si capiva che lo sentiva diverso da sé. Franco
aveva trasporti di passione per essa, l'afferrava all'impensata, la stringeva,
la divorava di baci ed ella allora gittava il capo all'indietro puntando una
manina sul viso di suo padre e guardandolo scura come se qualche cosa in lui le
fosse straniero e ripugnante. Spesso Franco la sgridava con ira e Maria
piangeva, lo fissava attraverso le lagrime senza muoversi, come affascinata,
ancora con quella espressione di persona che non comprende. Egli vedeva la
predilezione della bambina per sua madre e se ne compiaceva, gli pareva una
preferenza giusta, non dubitava che Maria, più tardi, avrebbe teneramente amato
anche lui. A Luisa dispiaceva molto, per amore del marito, che la bambina
dimostrasse maggior affetto a lei, però questo sentimento suo non era vivo e
schietto come la compiacenza generosa di Franco. A Luisa pareva in fondo che Franco
malgrado tanti trasporti, amasse sua figlia come un essere distinto da lui;
mentre lei, che trasporti esteriori di tenerezza non ne aveva, amava la bambina
come una parte vitale di se stessa; perciò non poteva trovare ingiusto
d'esserne preferita. Poi ell'aveva in cuore una Maria futura probabilmente
diversa da quella che aveva in cuore Franco. Anche per questo non le poteva
rincrescere di avere un predominio morale sulla figliuola. Vedeva il pericolo
che Franco favorisse uno sviluppo forte del sentimento religioso; pericolo
gravissimo, secondo lei; perché Maria, piena di curiosità, avida di racconti,
aveva i germi d'un'immaginazione assai viva, assai propizia alle fantasie
religiose e ne poteva venire uno squilibrio morale. Non si trattava di sopprimere
il sentimento religioso; questo, Luisa non l'avrebbe fatto mai, non foss'altro
per rispetto a Franco; ma occorreva che Maria, fatta donna, sapesse trovare il
perno della propria vita in un senso morale sicuro e forte per sé, non
appoggiato a credenze che finalmente erano ipotesi e opinioni, e potevano un
giorno o l'altro mancarle. Serbar fede al Giusto, al Vero, fuor di qualsiasi
altra fede, di qualsiasi speranza e paura, pareva a lei lo stato più sublime
della coscienza umana. A una tale perfezione si figurava aver rinunciato per sé
poiché andava a messa e due volte l'anno ai sacramenti, e intendeva rinunciarvi
per Maria, ma come uno che rinuncia alla perfezione cristiana perché si trova
aver moglie e figliuoli; a malincuore e il meno possibile.
A Maria poteva essere serbata in sorte la ricchezza. Bisognava impedire
assolutamente che accettasse una vita di frivolezze, compensate dalla messa
alla mattina, dal rosario alla sera e da elemosine. Luisa si era provata
qualche volta di tastar Franco su questo terreno di dare all'educazione di
Maria un indirizzo morale disgiunto dall'indirizzo religioso e il tasto aveva
sempre risposto male. Che non si credesse nella religione Franco lo capiva; che
qualcuno la potesse trovare insufficiente come norma della vita, gli riusciva
affatto inconcepibile. Che tutti poi dovessero aspirare alla santità, che non
fosse buon cristiano chi amasse il tarocco, la primiera, la caccia, la pesca, i
buoni pranzetti e le bottiglie fini, neanche gli passava per il capo. E questo
indirizzo morale dell'educazione disgiunto dall'indirizzo religioso gli pareva
una fisima perché secondo lui i galantuomini senza fede erano galantuomini per
natura o per abitudine, non per un ragionamento morale o filosofico. Non c'era
dunque modo per Luisa d'intendersi con suo marito circa questo delicato punto.
Doveva operare da sé e con molta cautela per non offenderlo né affliggerlo. Se
Franco mostrava alla bambina le stelle e la luna, i fiori e le farfalle come
opere mirabili di Dio e le faceva della poesia religiosa buona per una ragazza
di dodici anni, Luisa taceva; se invece gli avveniva di dire a Maria: «Bada,
Iddio non vuole che tu faccia questo, Iddio non vuole che tu faccia quello»,
Luisa soggiungeva subito: «Questo è male, quello è male, non si deve mai far il
male». Qui però non poteva a meno di aprirsi qualche screzio visibile fra il
padre e la madre perché non sempre il giudizio morale dell'uno si accordava col
giudizio morale dell'altra. Una volta erano insieme alla finestra della sala mentre
Maria giuocava sul sagrato con una bambina di Oria presso a poco della sua età.
Passa un fratello di questa, un prepotentone di otto anni e intima alla
sorellina di seguirlo. Questa rifiuta e piange. Maria, seria seria, affronta il
prepotente con i pugni. Franco la trattiene con una chiamata imperiosa; la
piccina si volta a guardarlo e scoppia in lagrime mentre quell'altro si
trascina via la sua vittima. Luisa lasciò la finestra dicendo sottovoce a suo
marito: «Scusa, questo non è giusto». «Come non è giusto?» Franco si riscaldò,
alzò la voce, chiese a sua moglie se voleva una Maria violenta e manesca. Ella
rispondeva con dolcezza e con fermezza, senza risentirsi di qualche parola
pungente, sosteneva che il sentimento di Maria era buono, che opporsi alla prepotenza
e all'ingiustizia era il compito migliore per tutti, che se un bambino vi
adoperava le mani, fatto adulto vi avrebbe adoperato mezzi più civili, ma che
se si reprimeva in lui la espressione naturale dell'animo, si correva il
rischio di schiacciare con essa anche il buon sentimento nascente.
Franco non si persuase. Secondo lui era molto dubbio che in Maria vi fossero
di quei sentimenti eroici. Ella si era arrabbiata di vedersi portar via la sua
compagna di giuoco e niente altro. Ma poi, la parte della donna non era forse
di opporre alle ingiustizie e alle prepotenze una dolcezza mansueta, di
mitigare ed emendare gli offensori piuttosto che di respinger con la forza
l'offesa? Luisa diventò rossa e rispose che ad alcune donne, forse alle
migliori, questa parte conveniva, ma che non poteva convenire a tutte perché
tutte non potevano essere tanto miti e umili. «E tu sei di quelle altre?»,
esclamò Franco.
«Credo di sì.»
«Bella cosa!»
«Ti rincresce molto?»
«Moltissimo.»
Luisa gli pose le mani sulle spalle. «Ti rincresce molto?», diss'ella
fissandolo negli occhi, «che io m'irriti come te d'aver questi padroni in casa,
che io desideri come te di aiutare anche con le mie mani a cacciarli via o
preferiresti che io cercassi di emendare Radetzky e di mitigare i croati?»
«Questa è un'altra cosa!»
«Come un'altra cosa? No, è la stessa cosa!»
«È un'altra cosa!», ripeté Franco; e non seppe dimostrare che fosse un'altra
cosa. Gli pareva di aver torto secondo un raziocinio superficiale e di avere
ragione secondo una verità profonda che non riusciva ad afferrare. Non parlò
più, fu pensieroso tutto quel giorno e si vedeva che cercava la sua risposta.
Ci pensò anche la notte, gli parve di averla trovata e chiamò sua moglie che
dormiva.
«Luisa!», diss'egli. «Luisa! Quella è un'altra cosa.»
«Cos'è stato?», fece Luisa svegliandosi di soprassalto.
Egli aveva pensato che la offesa del dominio straniero non era personale
come le offese private e che procedeva dalla violazione d'un principio di
giustizia generale; ma nell'atto di spiegar ciò a sua moglie, gli venne in
mente che anche nelle offese private aveva sempre luogo la violazione d'un
principio di giustizia generale, si figurò di avere sbagliato.
«Niente», diss'egli.
Sua moglie credette che sognasse e, posatogli il capo sopra una spalla, si
riaddormentò. Se vi erano argomenti capaci di convertire Franco alle idee di
sua moglie, erano quel dolce contatto, quel dolce respiro vicino al suo petto,
che gli avevan fatto tante altre volte deliziosamente sentire un reciproco
abbandono delle anime. Ora non fu così. Gli passò anzi nel cervello, come una
lama rapida e fredda, il pensiero che questo latente antagonismo fra le idee di
sua moglie e le sue avesse un giorno o l'altro a scoppiare in qualche doloroso
modo e se la strinse atterrito nelle braccia come per difender sé e lei contro
i fantasmi della propria mente.
Il sei novembre, dopo colazione, Franco prese le sue grosse forbici da
giardiniere per fare il solito sterminio di seccumi nel giardinetto e sulla
terrazza. Era un'ora di tanta bellezza, di tanta pace da stringere il cuore.
Non una foglia che si muovesse; purissima, cristallina l'aria da ponente;
sfumanti a levante, dentro lievi vapori, le montagne fra Osteno e Porlezza; la
casa sfolgorata dal sole e dai riverberi tremoli del lago; il sole assai caldo
ma i crisantemi del giardinetto, gli ulivi, gli allori della costa più visibili
fra il rosseggiar delle foglie caduche, certa segreta frescura dell'aria
imbalsamata d'olea fragrans, il silenzio d'ogni vento, le aeree montagne del
lago di Como bianche di neve accordantisi malinconicamente a dire che la cara
stagione moriva. Sterminati i seccumi, Franco propose a sua moglie di andar in
barca a Casarico per riportare all'amico Gilardoni i due primi volumi dei
Mystères du Peuple, divorati avidamente in pochi giorni, e averne il terzo. Fu
deciso di partire a mezzogiorno, dopo aver posto a letto Maria. Ma prima che
Maria fosse a letto comparve tutta ansante, col cappello e la mantiglia a
sghimbescio, la Barborin Pasotti. Era salita dal cancello del giardinetto e si
fermò sulla soglia della sala. Veniva per la prima volta dopo la perquisizione;
vide i suoi amici, giunse le mani, ripeté sottovoce: «Ah Signor, ah Signor, ah
Signor!», si precipitò su Luisa, la coperse di baci.
«Cara la mia tosa! Cara la mia tosa!». Avrebbe volentieri fatto altrettanto
con Franco, ma Franco non gradiva certe espansioni, aveva una faccia poco
incoraggiante, per cui la povera donna si accontentò di prendergli e scuotergli
ambedue le mani. «Car el mè don
Franco! Car el mè don Franco!». Si raccolse finalmente in braccio la
Maria che le puntò le manine al petto facendo un viso simile a quello di suo
padre. «Son vègia, neh? Son brutta, neh? Te piasi no? L'è nient, l'è nient, l'è
nient!». E si mise a baciarle umilmente le braccia e le spalle, non osando
affrontare il visetto acerbo. Poi disse ai suoi amici che aveva portato loro
una bella notizia e gli occhi le brillavano di questo mistero gaudioso. La
marchesa aveva scritto a Pasotti e nella lettera c'era un periodo che la
Barborin aveva imparato a mente: «Ho appreso con vivo dispiacere (vivo
dispiacere, gh'è sü inscì) il triste fatto di Oria... di Oria... (spètta!) il
triste fatto di Oria... (ah!) e benché mio nipote nulla meriti, (ciào, quell
pacienza!) desidero non abbia cattive conseguenze». Il periodo non ebbe un gran
successo. Luisa fece il viso scuro e non parlò; Franco guardò sua moglie e non
osò metter fuori il commento favorevole che aveva nella bocca ma non, per
verità, nel cuore. La povera Barborin che aveva approfittato della andata di
suo marito a Lugano per correre a portar il suo zuccherino, rimase assai
mortificata, guardava contrita ora Luisa ora Franco e finì col togliersi di
tasca uno zuccherino vero e proprio onde darlo a Maria. Poi, avendo capito che
gli sposi desideravano partire in barca e struggendosi di stare un po' con
Maria, tanto disse e fece che quelli se ne andarono lasciando l'incarico alla
Veronica di metter la bambina a letto un po' più tardi.
Maria non parve gradir molto la compagnia della sua vecchia amica. Taceva,
taceva ostinatamente e non andò molto che spalancò la bocca e scoppiò in
lagrime. La povera Pasotti non sapeva che Santi invocare. Invocò la Veronica,
ma la Veronica discorreva con una guardia di finanza e non udì o non volle udire.
Offerse anelli, braccialetti, l'orologio, persino il cappellone da viceregina
Beauharnais, ma nulla riuscì gradito. Maria continuava a piangere. Ebbe allora
l'idea di mettersi al piano e si mise a picchiare e ripicchiare otto o dieci
battute d'una monferrina antidiluviana. Allora la principessina Maria si
mansuefece, si lasciò pigliar dalla sua musicista di camera così delicatamente
come se le sue braccine fossero state ali di farfalla e posar sulle ginocchia
così piano come se vi fosse stato pericolo di far cader in polvere le vecchie
gambe.
Udite cinque o sei repliche della monferrina, Maria fece un visino annoiato,
si provò di strappar dal piano le mani rugose della suonatrice e disse
sottovoce: «Cantami una canzonetta». Poi, non ottenendo risposta, si voltò a
guardarla in faccia, le gridò a squarciagola:
«Cantami una canzonetta!».
«Non capisco», rispose la Pasotti, «sono sorda.»
«Perché sei sorda?»
«Sono sorda», replicò l'infelice, sorridendo.
«Ma perché sei sorda?»
La Pasotti non poteva immaginare cosa chiedesse la bambina.
«Non capisco», diss'ella.
«Allora», fece Maria con un'aria molto grave, «sei stupida.»
Dopo di che aggrottò le ciglia e riprese piagnucolando:
«Voglio una canzonetta!»
Qualcuno disse dal giardinetto:
«Eccolo, quel delle canzonette!»
Maria alzò il viso, s'illuminò tutta. «Missipipì», diss'ella e scivolò giù
dalle ginocchia della Pasotti, corse incontro allo zio Piero ch'entrava. Si
alzò anche la Pasotti, stese le braccia, tutta sorpresa e ridente, verso il
vecchio inaspettato amico. «Tè chì, tè chì, tè chì!». E corse a salutarlo. La
Maria strillò tanto forte «Missipipì, Missipipì!», e si avvinghiò tanto stretta
alle gambe dello zio che questi, quantunque paresse non averne voglia, dovette
pur sedere sul canapè, pigliarsi la bambina sulle ginocchia e ripeterle la
vecchia canzone:
Ombretta sdegnosa...
Dopo quattro o cinque Missipipì la Pasotti, temendo che suo marito
ritornasse, prese congedo. La Veronica voleva porre Maria a letto. La piccina
si crucciò, lo zio intervenne: «Oh lasciatela un po' qui!», e uscì con lei
sulla terrazza per vedere se il papà e la mamma ritornassero.
Nessuna barca veniva da Casarico. La piccina ordinò allo zio di sedere e gli
si arrampicò sulle ginocchia.
«Perché sei venuto?», diss'ella. «Non c'è mica, sai, il pranzo per te.»
«Me lo farai tu, il pranzo. Sono venuto per star con te.»
«Sempre?»
«Sempre.»
«Proprio sempre sempre sempre?»
«Proprio sempre.»
Maria tacque, pensierosa. Poi domandò:
«E cosa mi hai portato?»
Lo zio si levò di tasca un fantoccio di gomma. Se Maria avesse potuto
sapere, intendere con quale animo, sotto qual colpo lo zio fosse andato a
prender per lei quel fantoccino avrebbe pianto di tenerezza.
«È brutto questo regalo», diss'ella, ricordando gli altri dello zio. «E se
resti qui, non mi porti più niente?»
«Più niente.»
«Va' via, zio», diss'ella.
Egli sorrise.
Adesso Maria volle sapere dallo zio se, quando era bambino lui, suo zio gli
portasse regali. Ma questo zio dello zio, per quanto la cosa paresse impossibile
a Maria, non era mai esistito. E allora chi gli portava regali? Ed era egli un
buon bambino? Piangeva? Lo zio si mise a raccontarle cose della sua infanzia,
cose di sessant'anni prima, quando la gente portava parrucca e codino. Si
compiaceva di ricordare alla nipotina quel tempo lontano, di farla vivere per
un momento insieme ai suoi vecchi, e parlava con gravità triste, come avendo
presenti quei cari morti, come parlando più per essi che per lei. Ella gli
fissava in viso gli occhi spalancati, non batteva palpebra. Né lui né lei
s'accorgevano che intanto passava il tempo, né lui né lei pensavano più alla
barca che doveva venire.
E la barca venne, Luisa e Franco salirono senza sospettare di nulla,
pensando che la bambina dormisse. Franco fu il primo che vide sotto i rami
cadenti delle passiflore lo zio seduto, curvo su Maria che gli stava sulle
ginocchia. Mise una gran voce di sorpresa e corse là seguito da Luisa, con
l'idea che fosse successo qualche cosa. «Tu qui?», diss'egli correndo. Luisa,
pallida, non disse nulla. Lo zio alzò il capo, li vide: essi compresero subito
che vi era una brutta novità, non gli avevano mai veduto una faccia così seria.
«Addio», diss'egli.
«Cosa è stato?», sussurrò Franco.
Egli fe' cenno ad ambedue di ritirarsi dalla terrazza nella loggia, ve li
seguì, allargò le braccia, povero vecchio, come un crocifisso e disse con voce
triste ma tranquilla:
«Destituito».
Franco e Luisa lo guardarono un momento come istupiditi. Poi Franco esclamò:
«Oh zio, zio!», e lo abbracciò. Vedendo quell'atto e il viso di sua madre,
Maria scoppiò in lagrime. Luisa cercò di farla tacere, ma ella stessa, la donna
forte, aveva il pianto alla gola.
Seduto sul canapè della sala lo zio raccontò che l'I. R. Delegato di Como lo
aveva fatto chiamare per dirgli che la perquisizione operata nella sua casa di
Oria aveva dati risultati dolorosi e inattesi; quali, non aveva voluto
assolutamente dire. Aveva poi soggiunto che s'era voluto iniziare un processo
contro di lui ma che in vista dei lunghi e lodevoli servigi prestati al Governo
si limitava a togliergli l'ufficio. Lo zio aveva insistito per conoscere le
accuse e colui l'aveva licenziato senza rispondere.
«E allora?», disse Franco.
«E allora...». Lo zio tacque un poco e poi pronunciò una frase sacramentale
d'ignota origine che egli stesso e i suoi compagni tarocchisti solevano
ripetere quando il giuoco andava disperatamente male: «Siamo arcifritti, o
Regina».
Vi fu un lungo silenzio; poi Luisa si buttò al collo del vecchio. «Zio, zio»,
gli sussurrò, «ho paura che sia stato per causa nostra!»
Ella pensava alla nonna e lo zio intese che accusasse Franco e sé di qualche
imprudenza.
«Sentite, cari amici», diss'egli con un tono bonario che aveva pure qualche
recondito sapore di rimprovero, «questi sono discorsi inutili. Adesso la
frittata è fatta e bisogna pensare al pane. Fate conto su questa casa, su
qualche piccolo risparmio che mi frutta circa quattro svanziche al giorno e su
due bocche di più: la mia e quella della Cia; la mia, speriamo per poco tempo.»
Franco e Luisa protestarono. «Ci vuol altro! Ci vuol altro!», fece lo zio
agitando le braccia, come a dispregio di un sentimentalismo irragionevole.
«Viver bene e crepare a tempo. Questa è la regola. La prima parte l'ho fatta,
adesso mi tocca di fare la seconda. Intanto mandatemi dell'acqua in camera e
aprite la mia borsa. Vi troverete dieci polpette che la signora Carolina
dell'Agria mi ha voluto dare per forza. Vedete che le cose non vanno poi troppo
male.»
Ciò detto lo zio si alzò e se n'andò per l'uscio del salotto con passo
franco, mostrando anche da tergo la sua faccia eretta, il suo modesto ventre
pacifico, la sua serenità di filosofo antico. Franco, ritto sul limitare della
terrazza, con le braccia incrociate sul petto e le sopracciglia aggrottate,
guardava verso Cressogno. Se in quel momento egli avesse avuto fra le mascelle
un fascio di Delegati, di Commissari, di birri e di spie, avrebbe tirato tale
un colpo di denti da farne una melma sola.
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