«La barca è pronta», disse Ismaele, entrando senza complimenti con la pipa
nella sinistra e una lanterna nella destra.
«Che ore sono?», domandò Franco.
«Undici e mezzo.»
«Il tempo?»
«Nevica.»
«Bene», esclamò lo zio, ironicamente, allargando le gambe davanti alla vampa
del ginepro che scoppiettava nel caminetto.
Nel minuscolo salottino assediato dall'inverno Luisa stava mettendo,
ginocchioni, un fazzoletto al collo di Maria, Franco aspettava col cappuccio di
sua moglie in mano e la Cia, la vecchia governante, col cappello in testa e le
mani nel manicotto, andava brontolando al suo padrone: «Che signore è mai Lei!
Cosa vuol fare qui solo a casa?».
«Per dormire non ho bisogno di nessuno», rispose l'ingegnere, «e se sono
matti gli altri non sono matto io. Mettetemi qua il mio latte e il mio lume.»
Era la vigilia di Natale e l'idea pazza di quella gente savia, la
risoluzione che pareva incredibile all'ingegnere era di andare a S. Mamette per
assistervi alla messa solenne di mezzanotte.
«E quella povera vittima!», diss'egli guardando la bambina.
Franco diventò rosso, osservò che desiderava prepararle dei ricordi
preziosi, questa partenza notturna in barca, il lago oscuro, la neve, la chiesa
piena di lumi e di gente, l'organo, i canti, la santità del Natale. Egli
parlava con calore non tanto per lo zio, forse, quanto per un'altra persona che
taceva.
«Sì sì sì sì», fece lo zio, come se si fosse aspettata questa rettorica,
questa poesia buona a niente.
«Anch'io, sai, il punch!», gli disse la piccina. Lo zio sorrise: manco male!
Quello sarà proprio un ricordo prezioso. Franco, sentendosi così demolire la
sua sottile preparazione di ricordi religiosi e poetici, si fece scuro. «E
questo Gilardoni?», chiese Luisa. «Sono qui adesso», fece Ismaele uscendo con
la sua lanterna.
Il professore Gilardoni aveva invitato i Maironi e donna Ester Bianchi a
prendere il punch in casa sua dopo la messa. Lo si aspettava dal Niscioree
dov'era andato a pigliare la signorina che ci viveva sola con due vecchie
serve, dopo la morte del padre avvenuta nel 1852. L'ottimo professore aveva
pianto segretamente la signora Teresa per uno spazio di tempo ragionevole.
Durante quella pessima convalescenza del cuore che lo tiene debole e molle, in
continuo pericolo di ricadere, egli si era troppo poco guardato dal bel visino
brioso, dagli occhi vivaci, dalla gaiezza scintillante della principessina del
Niscioree, come la chiamavano i Maironi. Ella era così diversa nello spirito e
nel corpo dalla signora Teresa, la sua persona vigorosa nelle forme della
grazia più squisita suggeriva l'idea di un amore così lontano da quell'altro,
che al professore pareva di poterle volere bene senza offendere la santa
immagine della madre di Luisa. Infatti egli santificò sempre maggiormente
questa immagine, la spinse in su in su verso il cielo, tanto in su che qualche
nuvola cominciò a passare fra lui e lei; prima eran cirri, adesso eran cumuli e
stava per giungere uno strato definitivo. Egli era più timido ancora con donna
Ester che non lo fosse stato con la signora Teresa. Aveva del resto un
inconscio bisogno di amare senza speranza per potersi poi compiangere, per la
voluttà di un doppio intenerimento, verso una bella creatura e verso se stesso.
E la sua timidezza era pure contenta di possedere una scusa in quella gran
differenza d'età e di aspetto. Però col non far alcuna difesa contro gli occhi
maliziosi, i folti capelli biondi, il sottile collo di neve, col bersi e
ribersi nel cuore la voce fresca, il riso d'argento, l'uomo si metteva in
pericolo di cuocere intollerabilmente.
Ester, che a ventisette anni ne mostrava venti salvo che nella morbidezza
delle movenze e in una certa occulta, deliziosa scienza degli occhi, non aveva
desiderato di pescar quell'amante rispettabile ma lo sentiva preso e se ne
compiaceva, stimandolo un grande ingegno, un sapientone. Che egli osasse
parlarle d'amore, ch'ella potesse sposar quella sapienza giallognola, rugosa e
secca, neppure le veniva in mente; ma neanche avrebbe voluto spegnere un
focherello così discreto che faceva onore a lei e, probabilmente, piacere a
lui. S'ella ne rideva qualche volta con Luisa, non era però mai la prima a
ridere e soggiungeva subito: «Povero signor Gilardoni! Povero professore!».
Ella entrò frettolosa, con la testolina bionda chiusa in un gran cappuccio
nero, come una primavera travestitasi, per chiasso, da dicembre. Dicembre le
veniva dietro, affagottato il collo in una gran sciarpa sulla quale si porgeva,
lucente e rosso, il naso professorale irritato dalla neve. Era tardi, tutti si
accomiatarono dallo zio ed egli rimase solo con il suo lume e il suo latte,
davanti alle ultime brage moribonde del ginepro.
Gli restava sul viso una leggera ombra di disapprovazione. Franco faceva troppo
il poeta! Adesso la vita era dura in casa Maironi. Si faceva colazione con una
tazza di latte e cicoria adoperando certo zucchero rosso che puzzava di
farmacia. Non si mangiava carne che la domenica e il giovedì. Una bottiglia di
vin Grimelli veniva ogni giorno in tavola per lo zio, il quale non voleva
saperne di privilegi. Ogni giorno, per questa bottiglia, sorgevano le stesse
nubi, scoppiava la stessa piccola burrasca e si scioglieva secondo il volere
dello zio, con una brevissima pioggerella di decotto in ciascuno dei cinque
bicchieri. La serva era stata licenziata; restava la Veronica per le faccende
grosse, per la polenta, e qualche volta per badare a Maria. Malgrado queste ed
altre economie, malgrado che la Cia avesse rinunciato al suo salario, malgrado
i doni di ricotta, di mascherpa, di formaggio di capra, di castagne, di noci,
che piovevano dalla gente del paese, Luisa non riusciva a tener la spesa dentro
l'entrata. Si era procacciato qualche lavoro di copiatura da un notaio di
Porlezza; molta fatica e miserabilissimi guadagni. Franco aveva cominciato a
copiar con ardore anche lui, ma ci reggeva meno di sua moglie e poi non c'era
lavoro per due. Avrebbe dovuto darsi le mani attorno, cercar un impiego
privato, ma di questo lo zio non vedeva indizio; per cui?
Per cui, questo pensare a spedizioni poetiche gli pareva anche più fuor di
luogo. Dopo aver meditato alquanto sulla triste situazione e sulla poca
probabilità che Franco sapesse uscirne, trovò che dal canto suo la prima cosa a
fare era di bere il suo latte e la seconda di andarsene a letto. Ma no, gli
venne un altro pensiero. Aperse l'uscio della sala, e, visto tutto buio, andò
in cucina, accese una lanterna, la portò in loggia, spalancò una finestra e,
poiché nevicava senza vento, posò il lume sul davanzale, onde quella gente
poetica potesse dirigersi ritornando a casa per il lago tenebroso. Dopo di che
se n'andò a dormire.
Nella vecchia barca di casa l'ingegnoso Franco aveva architettato una specie
di felze per l'inverno con due finestrini ai lati e un usciolino a prora. Ora i
sei viaggiatori vi stavano attorno a un minuscolo tavolino, sul quale ardeva
una candela. Vedendo l'espressione estatica del professore ch'era seduto in
faccia a Ester, Franco si divertì a spegner il lume e osservò che la filosofia
poteva trovarsi male al buio, ma che la poesia ci si trovava benissimo.
Infatti i pensieri suoi e de' suoi compagni, prima raccolti intorno al lume,
uscivano adesso per il vetro dell'usciolino dietro un chiaror fioco dove si
vedeva la prora della barca, già biancastra di neve sul lago immobile e nero. E
le immaginazioni lavoravano. A chi pareva di andar verso Osteno, a chi pareva
di andar verso la Caravina, a chi pareva di andar verso Cadate; e ciascuno
diceva i propri dubbi parlando piano come per non svegliare il lago
addormentato. Un po' alla volta si misero a discutere, ma le sei teste, ad ogni
colpo dei remi, facevano un cenno di completo accordo. Così ciascuno dei
critici saliti nella navicella d'un grande poeta si crede fare una via differente.
Chi stima dirigersi verso un ideale, chi verso un altro, chi stima accostarsi a
un modello, chi a un altro, chi andar avanti, chi tornar indietro; e il poeta
li commove, li scuote col suo verso tutti insieme, li porta sulla propria via.
Ismaele portò fedelmente il suo carico a S. Mamette. La neve cadeva sempre
grossa e placida. Sotto i portici della piazza v'era molta gente e un viavai di
lanterne. C'era pure il preposto che arringava un gruppo di fedeli disposti a
disertar la chiesa per l'osteria. Egli stava dimostrando che il Paradiso è
difficile a guadagnare e che bisogna pensarci per tempo: «Vialter credii che
andà in Paradis el sia giusta come andà in la barca del Parella. E sü gent! E
sü gent! Gh'è semper post! Avii capì che l'è minga inscì?». Sulla scalinata che
sale alla chiesa Ester domandò a Luisa se il paradiso fosse proprio così
piccolo. Il professore che accompagnava Ester con l'ombrello ebbe un'idea,
palpitò, tremò e, fattosi un coraggio leonino, la mise fuori; disse che il
paradiso era più piccolo ancora e poteva stare sotto un ombrello. La cosa passo
liscia, Ester non rispose e tutta la compagnia entrò, mista a una frotta di
donne, nelle tenebre della chiesa.
Il professore si fermò sulla porta, incerto fra l'amore e la filosofia. La
filosofia lo tirava indietro con un filo e l'amore lo tirava avanti con una
fune; egli entrò e si pose accanto a Ester. Franco ebbe per un momento la
crudele idea di trascinarlo avanti, fra i banchi degli uomini; ma poi mutò
pensiero e si pose anche lui presso sua moglie. Giovò poco, perché Ester,
fingendo voler dire qualche cosa a Luisa, le si avvicinò e spinse
maliziosamente la vecchia Cia verso il professore. Questi, ancora palpitante
per quella sua disperata audacia del paradiso sotto l'ombrello, alla mossa di
Ester si turbò, pensò di averla offesa, si diede dell'asino e dell'asino e
dell'asino.
La chiesa era già tutta piena e anche le signore dovettero star in piedi
dietro la spalliera del primo banco. Ester s'incaricò di Maria, la pose a
sedere sulla spalliera mentre il sagrestano accendeva le candele dell'altar
maggiore. La Cia tormentava il professore, credendolo un sant'uomo, con mille
domande sulle differenze tra il rito romano e il rito ambrosiano, e Maria
teneva occupata Ester con altre domande ancora più straordinarie.
«Per chi si accendono quei lumi?»
«Per il Signore.»
«Va' a letto adesso, il Signore?»
«No, taci.»
«E il bambino Gesù è già a letto?»
«Sì, sì», rispose Ester storditamente, per finirla.
«Col mulo?»
Lo zio aveva portato una volta a Maria un brutto muletto di legno ch'ella
odiava; e, quando si ostinava in qualche capriccio, sua madre la poneva a letto
con quel mulo sotto il guanciale, sotto la testolina troppo dura.
«Citto, ciallina!», fece Ester.
«Io no, a letto col mulo. Io dico scusa.»
«Zitto! Ascolta l'organo, adesso.»
Tutti i ceri erano ormai accesi e l'organista salito al suo posto andava
stuzzicando, come per risvegliarlo, il suo vecchio strumento che pareva mettere
grugniti di corruccio. Nel punto in cui un campanello suonò e l'organo alzò
tutte le sue gran voci e uscirono i chierici e uscì il sacerdote, Luisa prese
di soppiatto, come un'amante, la mano di suo marito.
Quelle due mani, stringendosi furtivamente, parlavano di un prossimo
avvenimento, di una risoluzione grave che conveniva tener segreta e che non
ancora era presa in modo irrevocabile. La piccola mano nervosa disse
«coraggio!». La mano virile rispose «l'avrò». Bisognava decidersi. Franco
doveva partire, lasciar sua moglie, la bambina, il vecchio zio, forse per
qualche mese, forse per qualche anno; doveva lasciar Valsolda, la casetta cara,
i suoi fiori, forse per sempre, emigrare in Piemonte, cercar lavoro e guadagno
con la speranza di poter chiamare a sé la famiglia quando le altre grandi
speranze nazionali sfumassero. Contento che sua moglie avesse scelto la chiesa
e quel momento solenne per incoraggiarlo al sacrifizio, non lasciò più la dolce
mano, la tenne egli pure come l'avrebbe tenuta un amante, non guardando mai
Luisa, serbando impassibile il viso e rigida la persona. Parlava con la mano
sola, con l'anima nel palmo e nelle dita, il più vario appassionato linguaggio
misto di blande carezze e di strette, di tenerezze e di ardori. Qualche volta
ella si provava di ritirarsi dolcemente ed egli la tratteneva allora violento.
Guardava l'altare col viso alzato, come assorto nel suono dell'organo, nella
voce del sacerdote, nel canto del popolo. In fatto non seguiva le preghiere, ma
sentiva la Divina Presenza, un rapimento, una effervescenza di amore, di
dolore, di speranza in Dio. Luisa gli aveva presa la mano indovinando ch'egli
pregava, che tutte le sue angustie, tutte le sue dubbiezze gli si agitavano nel
cuore. Avea realmente voluto infondergli coraggio, convinta ch'era bene per lui
di prender questo partito doloroso. Fraintese la stretta che le rispose; le
parve un'appassionata protesta contro la separazione, e non la potendo,
quantunque le fosse dolce, approvare, accennava ogni tanto a ritrar la mano. Fu
lui che all'Elevazione ritrasse, per rispetto, la propria. Egli dovette quindi
prendersi in braccio Maria che s'era addormentata e continuò a dormire con la
testa sulla spalla di suo padre, mostrando un bel mezzo visino pacifico. Non lo
sapeva, lei, cara, che il suo papà sarebbe andato lontano lontano e il suo papa
aveva il cuore tutto molle di quel piccolo tesoro caldo che vi respirava su, di
quella testina dall'odore di uccelletto del bosco. Gli pareva già di essere
partito e che lo cercasse, che piangesse, e allora gli correva nelle braccia un
desiderio di stringerla forte, fermato subito dal timor di destarla.
Il Gilardoni era uscito il primo e stava sul sagrato ad aspettare donna
Ester con l'ombrello aperto. Ella venne a braccetto di Luisa, e la perfida
Luisa, malgrado il pregar sommesso della compagna, disse al professore: «Ecco
la Sua dama». Ester non ebbe il coraggio di rifiutar il braccio del Gilardoni
ma gli osservò ridendo che splendevano mille stelle.
Il Gilardoni guardò il cielo, mise fuori due o tre frasi senza senso comune
e chiuse l'ombrello. Non nevicava più, sopra il Boglia il cielo era lucido,
s'udiva in alto un rombo continuo. «Vento, vento!», disse Ismaele raggiungendo
la comitiva. «Vado a piedi! Vado a piedi!», gemette allora la Cia che aveva una
gran paura del lago. Intanto la gente, uscendo di chiesa, urtò e scompose il
gruppo, lo trasse giù per la scalinata. I sei viaggiatori e il barcaiuolo si
riunirono da capo sulla piazza di S. Mamette e lì donna Ester dichiarò che non
si sentiva troppo bene, che rinunciava al punch e che sarebbe andata a casa a
piedi con la Cia.
Il professore taceva in disparte.
Franco e Luisa capirono che non c'era da insistere e le due donne
s'avviarono a Oria con la scorta d'Ismaele il quale doveva ritornar poi a
prendere i Maironi e la barca.
Una lucerna modérateur era accesa nel salotto del Gilardoni, un bel fuoco
ardeva nel caminetto, il Pinella aveva preparato ogni cosa per il punch e chi
lo fece fu Luisa perché il professore pareva aver perduto la testa, non faceva
che darsi dello stupido e della bestia. Sulle prime non gli si poté cavar
niente; poi vennero fuori, poco a poco, la storia del paradiso sotto l'ombrello
e certe infernali conseguenze di quel paradiso. Nello scendere la scalinata
della chiesa c'era stato fra lui ed Ester questo dialogo: «Sa, donna Ester,
temevo quasi di averla offesa». «Come?» «Con quell'affare dell'ombrello.» «Che
ombrello?» Qui il professore non era stato buono di ripetere il suo
complimento. «Sa, Le avevo detto qualche cosa...» «Che cosa?» «Si parlava del
Paradiso...» Silenzio di Ester. «... e io quando mi trovo con una persona che
stimo, che stimo proprio di tutto cuore, dico facilmente degli spropositi.
Vorrei quasi dirne uno anche adesso, donna Ester.» «Spropositi mai, sa», aveva
risposto Ester e s'era staccata da lui per andare a Oria con la Cia. Veramente
il dialogo non fu riferito così. Il Gilardoni raccontò che aveva fatto capire
la sua gran passione e che donna Ester si era sdegnata. Franco aveva una gran
voglia di ridere; Luisa disse scherzando: «Lasci fare a me, lasci fare a me che
farò il punch e la pace e tutto; e Lei, un'altra volta, non sia un seduttore
così terribile!». Il povero professore per poco non si inginocchiò a baciarle
uno scarpino e, rifatto animo, riprese le sue funzioni di ospite, servì il
punch agli amici.
«Guardate Maria», disse Franco, sottovoce. La piccina si era addormentata
sulla poltrona del professore, presso la finestra.
Franco prese la lucerna e l'alzò per vederla meglio. Pareva una piccola
creatura del cielo, caduta lì col lume delle stelle, assopita, soffusa nel viso
di una dolcezza non terrena, di una solennità piena di mistero. «Cara!»,
diss'egli. Raccolse sua moglie a sé con un braccio, sempre guardando Maria. Il
Gilardoni venne loro alle spalle, mormorò «che bellezza!» e tornò al caminetto
sospirando «beati voi!».
Allora Franco, intenerito, sussurrò all'orecchio di sua moglie: «Glielo
diciamo?». Ella non capì, lo guardò negli occhi. «Che parto», diss'egli, sempre
sottovoce. Luisa trasalì, rispose «sì, sì» tutta commossa perché non l'attendeva
a questo, avendolo in chiesa creduto incerto. La sorpresa di lei non sfuggì a
Franco. Ne fu turbato, si sentì scosso nel suo proposito ed ella intese, ripeté
impetuosamente «sì, sì» e lo spinse verso il Gilardoni.
«Caro amico», diss'egli, «Le debbo dir una cosa.»
Il professore, assorto nella contemplazione del fuoco, non rispondeva.
Franco gli posò una mano sulla spalla. «Ah!», fece quegli trasalendo. «Scusi.
Che cosa?»
«Le debbo raccomandare qualcuno.»
«A me? Chi?»
«Un vecchio, una signora e una bambina.»
I due uomini si guardarono in silenzio, uno commosso, l'altro stupefatto.
«Non capisce?», sussurrò Luisa.
No, non capiva, non rispondeva.
«Le raccomando», riprese Franco, «mia moglie, mia figlia e il nostro vecchio
zio.»
«Oh!», esclamò il professore, guardando ora Luisa ora Franco.
«Vado via», disse questi con un sorriso che fece doler il cuore al
Gilardoni. «Allo zio non l'abbiamo ancora detto ma è cosa necessaria. Nelle
nostre condizioni non posso star qui a far niente. Dirò che vado a Milano,
crederà chi vorrà; invece sarò in Piemonte.»
Gilardoni giunse le mani silenziosamente, sbalordito. Luisa abbracciò
Franco, lo baciò, gli tenne il capo sul petto, ad occhi chiusi. Il professore
s'immaginò ch'ella piegasse con dolore alla volontà di suo marito. «Oh senta»,
diss'egli, volto a Franco. «Se ci fosse la guerra, capirei; ma così, se dà una
tale afflizione a Sua moglie per ragioni economiche, ha torto!»
Luisa, tenendosi sempre al collo di suo marito con un braccio, agitò in
silenzio l'altra mano verso Gilardoni per farlo tacere.
«No, no, no», mormorò, ricongiungendo le braccia intorno al collo di Franco,
«fai bene, fai bene», e perché il Gilardoni insisteva, si staccò da suo marito.
«Oh, ma professore!», diss'ella scotendogli le mani incontro, «se glielo dico
io che fa bene di partire, se glielo dico io che sono sua moglie! Ma caro
professore!»
«Oh infine, signora!», proruppe il Gilardoni. «Bisogna poi anche sapere...»
Franco stese impetuoso le braccia verso di lui, gridò: «Professore!»
«Fa male!», gli rispose questi. «Fa male! Fa male!»
«Cosa c'è, Franco?», dimandò Luisa, meravigliata. «C'è qualche cosa che io
non so?»
«C'è che devo andar via, che andrò via e non c'è altro!»
Maria s'era svegliata di soprassalto a quel grido di suo padre: «Professore!»,
poi, vedendo la mamma così agitata, si dispose a piangere. Finalmente scoppiò
in lagrime dirotte: «No papà, no via papà, no via papà!».
Franco se la tolse in braccio, la baciò, l'accarezzò. Ella andava ripetendo
fra i singhiozzi «papà mio, papà mio» con una voce accorata e grave che faceva
male al cuore. Suo padre se ne struggeva tutto, le protestava di voler star
sempre con lei e piangeva per il dolore d'ingannarla, per la commozione di
quella tenerezza nuova che veniva proprio adesso.
Luisa pensava al grido di suo marito. Il Gilardoni s'accorse ch'era in
sospetto di un segreto e le domandò, per toglierla da quel pensiero, se Franco
intendesse partire presto. Fu questi che rispose. Dipendeva da una lettera di
Torino. Fra una settimana, forse; tutt'al più fra quindici giorni. Luisa taceva
e il discorso cadde. Franco parlò allora di politica, delle probabilità che la
guerra scoppiasse a primavera. Anche questo discorso morì presto. Pareva che il
Gilardoni e Luisa pensassero ad altro, che ascoltassero il batter delle onde ai
muri dell'orto. Finalmente Ismaele ritornò, ebbe il suo punch, assicurò che il
lago non era troppo cattivo, che si poteva partire.
Appena i Maironi furono in barca, appena Maria vi riprese il sonno, Luisa
domandò a suo marito se vi fosse una cosa ch'ella non sapeva e che il Gilardoni
non doveva dire.
Franco tacque.
«Basta», diss'ella. Allora suo marito le passò un braccio al collo, la
strinse a sé, protestando contro parole che ella non aveva dette: «Oh Luisa,
Luisa!».
Luisa si lasciò abbracciare ma non rispose all'abbraccio; onde suo marito,
disperato, le promise subito di dirle tutto, tutto. «Mi credi curiosa?»,
sussurrò ella fra le sue braccia. No, no, egli voleva raccontarle ogni cosa
subito, dirle perché non avesse parlato prima. Ella si oppose; preferiva che
parlasse più tardi, spontaneamente.
Avevano il vento in favore e il lume che brillava ad una finestra della
loggia serviva bene di mira a Ismaele. Franco tenne sempre abbracciato il collo
di sua moglie e guardava tacendo quel punto lucente. Né l'uno né l'altra
pensarono alla mano amorosa e prudente che lo aveva acceso. Vi pensò Ismaele,
affermò che né la Veronica né la Cia eran capaci di un simile tratto di genio e
benedisse la faccia del signor ingegnere.
Nell'uscire di barca Maria si svegliò e gli sposi non parvero pensar più che
a lei. Quando furono a letto, Franco spense il lume.
«Si tratta della nonna», diss'egli. La voce era commossa, rotta. Luisa
mormorò «caro» e gli prese una mano, affettuosamente. «Non ho mai parlato», riprese
Franco, «per non accusar la nonna e poi anche...» Qui seguì una pausa; quindi
fu egli che mescolò al suo dire le più tenere carezze mentre sua moglie,
invece, non vi rispondeva più. «Temevo», disse, «l'impressione tua, i tuoi
sentimenti, le idee che ti potevano venire...» Più le parole avevano questo
dubbio sapore, più la voce era tenera.
Luisa sentiva avvicinarsi, non un alterco, ma un contrasto più durevole e
grave; non avrebbe voluto, adesso, che suo marito parlasse, e suo marito,
sentendola diventar fredda, non proseguì. Ella gli posò la fronte alla spalla e
disse sottovoce, malgrado se stessa: «Racconta».
Allora Franco, parlandole nei capelli, le ripeté il racconto fattogli dal
professore nella notte del suo matrimonio. Nel riferire a memoria la lettera e
il testamento di suo nonno, temperò alquanto le frasi ingiuriose verso suo
padre e la nonna. A mezzo il racconto, Luisa, che non si aspettava una
rivelazione simile, alzò il capo dalla spalla di suo marito. Questi
s'interruppe.
«Avanti», diss'ella.
Finito ch'egli ebbe, gli domandò se si potesse dimostrare che il testamento
del nonno era stato soppresso. Franco rispose prontamente di no. «Ma»,
diss'ella, «perché allora parlavi delle idee che mi potevan venire?». Il suo
pensiero era subito corso al probabile delitto della nonna, alla possibilità di
un'accusa.
Ma se l'accusa non era possibile?
Franco non rispose ed ella, dopo aver pensato un poco, esclamò: «Ah, la
copia del testamento? Adoperarla? Quello è un testamento che potrebbe valere?»
«Sì»
«E tu non l'hai voluto far valere?»
«No.»
«Perché, Franco?»
«Ecco!», esclamò Franco, pigliando fuoco. «Vedi? Lo sapevo! No, non lo
voglio far valere, no, no, assolutamente, no!»
«Ma le ragioni?»
«Dio, le ragioni! Le ragioni si sentono, le devi sentire senza che io te le
dica!»
«Non le sento. Non credere ch'io pensi ai denari. Non pigliamoli i denari,
dalli a chi vuoi tu. Io sento le ragioni della giustizia. C'è la volontà di tuo
nonno da rispettare, c'è un delitto che tua nonna ha commesso. Tu sei tanto
religioso, devi riconoscere che questa carta l'ha fatta venir fuori la
giustizia divina. Tu ti vuoi mettere fra la giustizia divina e questa donna?»
«Lascia stare la giustizia divina!», rispose Franco, violento. «Cosa
sappiamo noi delle vie che prende la giustizia divina? Vi è anche la
misericordia divina! Si tratta della madre di mio padre, sai! E non li ho
disprezzati sempre questi maledetti denari? Cosa ho fatto quando la nonna mi ha
minacciato di non lasciarmi un soldo se sposavo te?»
La tenerezza e la collera, miste insieme, gli fecero groppo alla gola. Non
potendo parlare, afferrò il capo di Luisa, se lo strinse sul petto.
«Ho disprezzato i denari per aver te», riprese con voce soffocata. «Come
vuoi che adesso cerchi di riprenderli con dei processi?»
«Ma no!», lo interruppe Luisa rialzando il capo. «I denari li darai a chi
vorrai! È della giustizia che parlo io! Ma non la senti, tu, la giustizia?»
«Dio mio!», diss'egli mettendo un profondo sospiro. «Era meglio che non
t'avessi parlato neanche stasera!»
«Forse sì. Se non volevi rinunciare in nessun caso ai tuoi propositi, forse
era meglio.»
La voce di Luisa, dicendo questo, esprimeva tristezza, non collera.
«Del resto», soggiunse Franco, «quella carta non esiste più.»
Luisa trasalì. «Non esiste più?», diss'ella sottovoce, con ansia.
«No. Il professore deve averla distrutta, per ordine mio.»
Seguì un lungo silenzio. Luisa ritirò il capo adagio adagio, lo posò sul
guanciale proprio. Poi Franco uscì a dir forte: «Un processo! Con quei
documenti! Con quelle ingiurie! Alla madre di mio padre! Per i denari!»
«Ma non ripetere questa cosa!», esclamò sua moglie, sdegnata. «Perché la
ripeti sempre? Sai pure che non è vera!»
Parlavano concitati l'uno e l'altra; si capiva che durante il silenzio di
prima avevano continuato a lavorar forte col pensiero su questo punto.
Egli si irritò del rimprovero e rispose alla cieca:
«Non so niente».
«Oh Franco!», disse Luisa, addolorata. Egli si era già pentito
dell'oltraggio e le domandò perdono, accusò il proprio temperamento che gli faceva
dire cose non pensate, implorò una parola buona. Luisa gli rispose sospirando
«sì, sì» ma egli non fu contento, volle che dicesse proprio «ti perdono», che
lo abbracciasse. Il tocco delle care labbra non lo ristorò come al solito.
Passarono alcuni minuti ed egli stette in ascolto per capire se sua moglie si
fosse addormentata. Udì il vento` il respiro lieve di Maria, il fragor delle
onde, qualche tremolìo dei vetri, non altro. Sussurrò: «Mi hai proprio
perdonato?», e udì rispondersi con dolcezza: «Sì, caro». Andò poco e fu lei che
stette in ascolto, che udì, insieme al vento, alle onde, agli scricchiolii
delle imposte, il respiro uguale, regolare della piccina, il respiro uguale,
regolare del marito. Allora mise un altro gran sospiro, un sospiro desolato.
Dio, come poteva Franco essersi condotto così? Ciò che la feriva nel più vivo
del cuore era ch'egli paresse sentir poco le offese fatte alla povera mamma e
allo zio. Ma su questo pensiero non voleva fermarsi, almeno prima di aver
considerato il torto di lui altrove, di fronte all'idea di giustizia; e là lo
sentiva, con amarezza eppur non senza compiacimento, inferiore a sé, governato
da sentimenti che procedevano dalla fantasia, mentre il sentimento suo proprio
era penetrato di ragione. Aveva tanto del bambino, Franco. Ecco, egli poteva
già dormire ed ella si teneva sicura di non chiuder occhio fino alla mattina. A
lei pareva di non aver fantasia perché non se la sentiva muovere, accendere
così facilmente. Chi le avesse detto che la fantasia poteva in lei più che in
suo marito, l'avrebbe fatta ridere. Eppure era così. Solamente, per
dimostrarlo, occorreva capovolgere ambedue le anime, perché Franco aveva la sua
fantasia visibile a fior d'anima e tutta la sua ragione al fondo, mentre Luisa
aveva la fantasia al fondo e la ragione, molto visibilmente, a fior d'anima.
Ella non dormì infatti e pensò per tutta la notte, con la sua fantasia del
fondo dell'anima, come la religione favorisca i sentimentalismi deboli,
com'essa che predica la sete della giustizia sia incapace di formare
negl'intelletti devoti a lei il vero concetto di giustizia.
Anche il professore, che aveva infiltrazioni sierose di fantasia nelle
cellule raziocinanti del cervello come nelle cellule amorifiche del cuore,
spenta la lucerna, passò gran parte della notte davanti al caminetto lavorando
con le molle e con la fantasia, pigliando, guardando, lasciando cader brage e
progetti fino a che gli restarono un ultimo carbone lucente e un'ultima idea.
Prese allora uno zolfino e accostatolo alla bragia ne riaccese la lucerna,
prese l'idea pure luminosa e scottante, se la portò a letto.
Era questa: partire, all'insaputa di tutti, per Brescia, presentarsi alla
marchesa con i terribili documenti, ottenere una capitolazione.
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