Tre giorni dopo, alle cinque della mattina, in Milano, il professore
Gilardoni usciva, inferraiuolato fino agli occhi, dall'Albergo degli Angeli,
passava davanti al Duomo e infilava la buia contrada dei Rastelli dietro una
fila di cavalli condotti a mano dai postiglioni, entrava nell'ufficio delle
diligenze erariali. Il piccolo cortile dove ora è la Posta era già pieno di
gente, di bestie, di lanterne. Voci di postiglioni e di conduttori, passi di
cavalli, scosse di sonagliere; all'eremita della Valsolda pareva un finimondo.
Si stavano attaccando i cavalli a due diligenze, quattro per ciascuna. Il
professore andava a Lodi perché aveva saputo che la marchesa era in visita
presso un'amica di Lodi. La diligenza di Lodi partiva alle cinque e mezzo.
Faceva un freddo intenso e il povero professore girava inquieto intorno al
carrozzone mostruoso pestando i piedi per riscaldarsi; tanto che un altro
viaggiatore gli disse argutamente: «Freschino, eh? Freschinetto,
freschinetto!». Quando Dio volle si finì di attaccare i cavalli, un impiegato
chiamò i viaggiatori per nome e il buon Beniamino sparì nel ventre del
carrozzone insieme a due preti, a una vecchia serva, a un vecchio signore con
una natta enorme sul viso e a un giovine elegante. Gli sportelli furono chiusi,
un comando fu dato, le sonagliere tintinnarono, il carrozzone si scosse, i
preti, la vecchia, il signore dalla natta si fecero il segno della croce, i
sedici zoccoli dei cavalli strepitarono sotto l'androne, le ruote pesanti lo
empirono di fragore, poi tutto questo fracasso si smorzò e la diligenza svoltò
a destra verso Porta Romana.
Adesso le ruote correvano quasi silenziose e i viaggiatori non sentivano più
che il pestar disordinato dei sedici zoccoli sulle pietre. Il professore
guardava passar le case scure, il raro chiaror dei fanali, qualche piccolo
caffè illuminato, qualche garetta di sentinella. Gli pareva che il silenzio
della grande città avesse qualche cosa di minaccioso e di formidabile per quei
soldati, che le stesse mura delle case nereggiassero d'odio. Quando la
diligenza entrò nel corso di Porta Romana, così allagato di nebbia che dai
finestrini non si vedeva quasi più nulla, chiuse gli occhi e si abbandonò al
piacere d'immaginar le persone e le cose che aveva nel cuore, di conversar con
esse.
Non era più il viaggiatore della natta che gli sedeva in faccia, era donna
Ester tutta chiusa in un gran mantello nero e col cappuccio in capo. Ella lo
guardava fiso; i begli occhi gli dicevano: «Bravo, Lei fa una bella azione,
mostra molto cuore, non l'avrei creduto. L'ammiro. Ella non è più né vecchio,
né brutto per me. Coraggio!». A questa esortazione di aver coraggio gli veniva
una stretta di paura, gli scattava in mente la immagine della marchesa; e il
rumor sordo delle ruote si trasformava nella voce nasale della vecchia dama che
gli diceva: «Si accomodi. Cosa desidera?».
A questo punto la diligenza si fermò e il professore aperse gli occhi. Porta
Romana. Qualcuno aperse lo sportello, domandò le carte di sicurezza, e,
raccoltele, si allontanò, ricomparve dopo cinque minuti, le restituì a tutti
fuorché al giovine elegante. «Lei scenda», gli diss'egli. Quegli impallidì,
discese in silenzio e non ritornò. Dopo un altro minuto fu chiuso lo sportello,
una voce ruvida disse: «Avanti!». Il signore dalla natta collocò la sua borsa
da viaggio sul sedile rimasto vuoto; nessun altro viaggiatore diede segno di
accorgersi dell'accaduto. Solo quando i quattro cavalli ebbero ripreso il
trotto, Gilardoni domandò al prete suo vicino se conoscesse il nome del giovine
e quegli rispose bruscamente «off!», girò verso il professore due occhi
sgomentati e sospettosi. Il professore guardò l'altro prete che subito trasse
di tasca una corona e fattosi il segno della croce si mise a pregare. Il
professore tornò a chiudere gli occhi e l'immagine del giovane sconosciuto si
perdette per sempre nella nebbia come parevano perdervisi i rari fantasmi
d'alberi, di pioppi e di salici, che passavano a destra e a sinistra della via.
«Come incominciare?», pensava il Gilardoni. Dalla notte di Natale in poi non
aveva fatto che immaginare e discutere fra sé il modo di presentarsi alla
marchesa, di entrar nell'argomento e di svolgerlo, la capitolazione da offrire.
Non aveva chiara in mente che quest'ultima; ove la signora marchesa facesse un
largo assegno al nipote, egli distruggerebbe le carte. Queste carte non le
teneva seco; ne aveva una copia. Dovevano produrre un effetto fulmineo; ma come
incominciare? Nessuno dei tanti esordi pensati lo accontentava. Anche adesso,
fantasticando ad occhi chiusi, si poneva il problema partendo dal solo termine
conosciuto: "Si accomodi. Cosa desidera?". Immaginava una risposta
che poi gli pareva o troppo ossequiosa o troppo ardita o troppo lontana
dall'argomento o troppo vicina ad esso e ricominciava la via dal solito
principio: "Cosa desidera?".
Un livido chiaror d'alba, pieno d'uggia, di tristezza e di sonno, entrò
nella diligenza. Adesso che l'ora del colloquio stava per giungere, mille
dubbi, mille incertezze nuove mettevano in iscompiglio tutte le previsioni del
professore. La stessa base de' suoi calcoli improvvisamente crollò. Se la
marchesa non gli dicesse né «si accomodi» né «cosa desidera?». Se lo
accogliesse Dio sa in quale altro modo imbarazzante? E se non lo volesse
ricevere? Santo cielo, se non lo volesse ricevere? L'improvviso strepitar dei
sedici zoccoli sopra un ciottolato gli fece battere il cuore. Ma non era ancora
il ciottolato di Lodi; era il ciottolato di Melegnano.
A Lodi arrivò circa alle nove. Scese all'Albergo del Sole, ebbe una stanza
dove non c'era né sole né fuoco. Non osando affrontare la nebbia delle vie, né
le vampe della cucina, osò invece porsi a letto, mise il berretto da notte che
sapeva le sue angustie, aspettò, con la sigaretta di canfora in bocca, qualche
buona idea e il mezzogiorno.
Salì, al tocco, le scale del palazzo X., col savio proposito di scordar
tutte le frasi meditate, di rimettersi alla ispirazione del momento. Un
domestico in cravatta bianca lo introdusse in uno stanzone scuro, dal pavimento
di mattoni, dalle pareti coperte di seta gialla, dal soffitto a stucchi, e,
fatto un inchino, uscì. Poche antiche sedie a bracciuoli, bianche e dorate, con
la stoffa rossa, stavano in semicerchio davanti al camino dove tre o quattro
ceppi enormi ardevano adagio dietro la grata di ottone. L'aria aveva un odor
misto di vecchie muffe, di vecchie pasticcerie, di vecchie mele cotte, di
vecchie stoffe, di vecchia pelle, di decrepite idee, una sottile essenza di
vecchiaia che faceva raggrinzar l'anima.
Il domestico ritornò ad annunciare, con grande emozione del Gilardoni, il
prossimo ingresso della signora marchesa. Aspetta e aspetta, ecco aprirsi un
grande uscio a fregi dorati, ecco un campanellino corrente, ecco Friend che
trotta dentro fiutando il pavimento a destra e a manca, ecco una gran campana
di seta nera sotto un cupolino di pizzo bianco, ecco fra due nastri celesti la
parrucca nera, la fronte marmorea, gli occhi morti della marchesa.
«Che miracolo, professore, a Lodi?», disse la voce sonnolenta, mentre il
cagnolino fiutava gli stivali del professore. Questi fece un profondo saluto e
la dama che pareva appunto l'ampolla dell'essenza di vecchiaia, andò a porsi in
un seggiolone accanto al fuoco e fece accomodare la sua bestiola in un altro;
dopo di che accennò al Gilardoni di accomodarsi pure. «Suppongo», diss'ella,
«che avrà qualche parente alle Dame Inglesi.»
«No», rispose il professore, «veramente no.»
La marchesa era faceta, qualche volta, alla sua maniera. «Allora», disse,
«sarà forse venuto a far provvista di mascherponi.»
«Neanche, signora marchesa. Sono venuto per affari.»
«Bravo. È stato disgraziato col tempo. Mi par che piova, adesso.»
A questa impreveduta diversione il professore ebbe paura di perdere la
tramontana. «Sì», diss'egli sentendosi diventare sciocco come lo scolaro cui
l'esame piega male: «pioviggina».
La sua voce, la sua fisionomia dovettero tradire l'imbarazzo interno,
apprendere alla marchesa che egli era venuto per dirle qualche cosa di particolare.
Ella si guardò bene dall'offrirgliene il bandolo, continuò a parlargli del
tempo, del freddo, dell'umido, di un raffreddore di Friend che infatti
accompagnava di frequenti starnuti il discorso della sua dama. La voce
sonnolenta aveva un placido tono quasi ridente, una blanda benevolenza; e il
professore sudava freddo al pensiero di fermare quella melliflua vena per
offrir in cambio la pillola amara che aveva in tasca. Egli avrebbe potuto
approfittar d'una pausa per metter fuori il suo esordio, ma non seppe farlo; e
fu invece la marchesa che ne approfittò per metter fuori la sua chiusa.
«La ringrazio tanto», diss'ella, «della visita, e adesso La congedo perché
Ell'avrà le Sue faccende e, per dire il vero, ho un impegno anch'io.»
Qui bisognò saltare:
«Veramente», rispose il Gilardoni, tutto agitato, «io ero venuto a Lodi per
parlare con Lei, signora marchesa.»
«Questo», osservò la dama, gelida, «non lo avrei potuto immaginare.»
Il professore trascorse avanti, nello slancio del salto.
«Si tratta di cose urgentissime», diss'egli, «e io debbo pregare...»
La marchesa lo interruppe.
«Se si tratta di affari, bisogna ch'Ella si rivolga al mio agente di
Brescia.»
«Scusi, signora marchesa; si tratta d'un affare specialissimo. Nessuno sa e
nessuno deve sapere che sono venuto da Lei. Le dico subito che si tratta di Suo
nipote.»
La marchesa si alzò e il cane accovacciato sul seggiolone si levò pure,
abbaiando verso il Gilardoni.
«Non mi parli», disse solennemente la vecchia signora, «di quella persona
che per me non esiste più. Andiamo, Friend.»
«No, signora marchesa!», ripigliò il professore. «Ella non può assolutamente
immaginare cosa Le dirò!»
«Non m'importa di niente, non voglio saper niente, La riverisco!»
La inflessibile dama si mosse, così dicendo, verso l'uscio.
«Marchesa!», esclamò alle sue spalle il professor Beniamino, mentre Friend,
saltato dal seggiolone, gli abbaiava disperatamente alle gambe: «Si tratta del
testamento di Suo marito!»
Stavolta la marchesa non poté a meno di fermarsi. Tuttavia non si voltò.
«Questo testamento non Le può piacere», soggiunse rapidamente il Gilardoni,
«ma io non ho l'intenzione di pubblicarlo. Mi ascolti, La supplico, marchesa!»
Ella si voltò. La faccia impenetrabile tradiva una certa emozione nelle
narici. Neppure le spalle eran del tutto tranquille.
«Che storie mi conta?», rispose. «Le pare una bella convenienza di venire a
nominarmi, così senza riguardi, il povero Franco? Cosa c'entra Lei negli affari
della mia famiglia?»
«Perdoni», replicò il professore frugandosi in tasca. «Se non c'entro io, ci
potrebbero entrare altri con meno riguardi di me. Abbia la bontà di vedere i
documenti. Queste...»
«Si tenga i suoi scartafacci», interruppe la marchesa vedendogli levar di
tasca delle carte.
«Queste sono le copie fatte da me...»
«Le dico che se le tenga, che se le porti via!»
La marchesa suonò un campanello e si avviò da capo per uscire. Il
professore, tutto fremente, udendo venir un domestico, vedendo lei aprir
l'uscio, gittò le sue carte sopra una seggiola, disse sottovoce in fretta e
furia: «Le lascio qui, non le veda nessuno, io sono al Sole, ritornerò domani,
le guardi, ci pensi bene!», e prima che arrivasse il domestico, scappò per la
parte ond'era venuto, tolse il ferraiuolo, infilò le scale.
La marchesa rimandò il domestico, stette un poco in ascolto, poi ritornò sui
suoi passi, prese le carte, andò a chiudersi nella sua stanza e, inforcati gli
occhiali, incominciò a leggere presso la finestra. La faccia era oscura e le
mani tremavano.
Il professore stava per andare a letto nella sua camera gelata del Sole,
quando due poliziotti vennero a recargli l'ordine di recarsi immediatamente
all'ufficio di Polizia.
Egli sentì bene un certo rimescolamento interno ma non si smarrì e partì con
essi. Alla Polizia, un piccolo Commissario insolente gli domandò perché fosse
venuto a Lodi e avutone risposta che c'era venuto per affari privati, fece un
atto d'incredulità sprezzante. Che affari privati pretendeva avere a Lodi il
signor Gilardoni? Con chi? Il professore nominò la marchesa. «Ma se nessuna
Maironi sta a Lodi!», esclamò il Commissario, e perché l'altro protestava, lo
interruppe subito: «Basta, basta, basta!». La Polizia sapeva di certo che il
signor Gilardoni, quantunque I. R. pensionato, non era un leale austriaco, che
aveva degli amici a Lugano e ch'era venuto a Lodi con un fine politico.
«Lei ne sa più di me!», esclamò il Gilardoni soffocando a stento la collera.
«Faccia silenzio!», gl'intimò il Commissario. «Del resto Ella non deve credere
che l'I.R. Governo abbia paura di Lei. È libero di andare. Solamente deve
lasciar Lodi entro due ore!»
Qui Franco avrebbe capito subito di dove veniva il colpo; il filosofo non
capì.
«Son venuto», diss'egli, «a Lodi per un affare urgente che non ho finito,
per un interesse privato gravissimo. Come posso partire dentro due ore?»
«Con una vettura. Se, trascorse due ore, Ella è ancora in Lodi, La faccio
arrestare.»
«La mia salute», replicò la vittima, «non mi permette di viaggiare di notte
in dicembre.»
«Ebbene, La farò arrestare subito.»
Il povero filosofo prese in silenzio il suo cappello e uscì.
Un'ora dopo egli partiva per Milano in un calessino chiuso, con i piedi
nella paglia, con una coperta sulle gambe, con una gran sciarpa al collo,
pensando che aveva pur fatto una bella spedizione e inghiottendo saliva ogni
momento per sentir se gli doleva la gola. Notte infame davvero; ma non la passò
sulle rose neppur la signora Marchesa.
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