5. Per lui, per lui!
Malcanton e il conte Perlotti
vennero a fermarsi sotto le finestre d'Elena per picchiare alle imposte chiuse
dal dottor Grigiolo che dormiva a pianterreno. Elena si trasse dentro con un atto
risoluto, si mise il cappello e i guanti, andò da sua madre che dormiva ancora,
e le annunciò senza molti preamboli che doveva partire la stessa sera. La
contessa pensò subito ai danari che suo genero voleva, si spaventò all'idea di
una scena proprio in quel giorno, con la casa piena d'ospiti. Figurarsi Lao,
col suo temperamento! Maledisse i soldi e la gente vulcanica. Anche tu,
benedetta diss'ella, non parlar mai, non metterti di mezzo, che tuo zio fa
tutto quello che vuoi! Le raccontò degli spasimi che soffriva da quindici
giorni, fra le torture di suo genero e le strapazzate di suo cognato.
E tu che non volevi mai sentirne
a parlare!
Elena la interruppe, le disse
ch'era accomodato tutto, e, senz'altre spiegazioni, le chiese di permettere che
la sua cameriera le allestisse i bagagli.
Accomodato tutto? Ma che? Ma
come? La contessa Tarquinia, fuor di sé dallo stupore, non poté cavar nulla di
più chiaro da sua figlia, che l'abbracciò pregandola di non crucciarsi più, di
non pensarvi nemmeno, e scappò via. La contessa suonò il campanello di furia,
la fece richiamare. Non sapeva ancora per dove partissero, se per Roma, se per
Aix! Allora Elena si accorse di non saperlo ella stessa. Suo marito non l'aveva
detto, ella non gliel'aveva chiesto. Per Roma, certo, perché era giunto un
telegramma, e Di Santa Giulia si attendeva appunto da qualche giorno un
richiamo al Senato.
La contessa Tarquinia avrebbe
desiderato una certezza maggiore, ma Elena corse via e andò dritta dallo zio
Lao, che, alzatosi un momento per guardare il tempo, s'era coricato da capo.
Quando Elena, entrando in cappello e guanti, gli disse a bruciapelo: Vado via,
credette che partisse subito, balzò a sedere sul letto. L'indugio di dodici ore
gli parve sulle prime un guadagno: c'era il tempo di discutere, almeno. Assalì
sua nipote con una furia di domande. Non si potrebbe far questo? Non si
potrebbe far quello? Il signor barone non potrebbe andarsene solo, nel santo
nome di Dio! a Roma e anche più in la? Non arrivò sino a proporre ad Elena di
accompagnargliela più tardi egli stesso, ma parlò del fattore, di quell'insulso
Malcanton, che non era buono ad altro, e toccherebbe il cielo col dito. Visto
che non c'era verso di spuntarla, s'arrabbiò, si ricacciò sotto le coperte, e,
voltato il viso al muro, gridò a sua nipote che andasse via, che andasse pur
subito a farsi benedire, che non gliene importava nientissimo, che andasse a
Roma o in Sicilia o in Africa o dove diavolo voleva lei, e che non stesse a
tornare per un gran pezzo.
Elena, commossa, si accostò in
silenzio al letto, vi si piegò su; anche la faccia mezzo nascosta fra il
guanciale e le coltri era commossa.
Ah fece il conte Lao con voce
brusca, come per respingere ogni carezza, ogni parola amorevole. Tuttavia Elena
lo baciò in fronte.
È il mio dovere diss'ella
dolcemente.
Poi cominciò a parlargli del
danaro. Lao si venne voltando a poco a poco, l'ascoltò attentamente. Elena gli
disse ridendo di non spaventarsi; gli ordinava solo di rispondere a sua madre,
se gliene parlasse, che s'era inteso con lei, Elena; non una parola di più. Lo
zio non capiva, voleva delle spiegazioni. Ella gli diede un altro bacio e
scappò via con la scusa della messa, benché alla messa dei padroni, nella
chiesetta di casa, ci mancasse ancora un'ora e mezzo.
Si fece portare in carrozza a
Villascura e scese dall'arciprete. Costui era in chiesa, ma una melliflua
governante pregò la signora contessina di voler pazientare un momentino e si
ritirò discretamente quando sopraggiunse l'arciprete con una giusta miscela,
negli affrettati saluti, di ossequio, di meraviglia e di aspettazione. Elena
era venuta a congedarsi dal signor arciprete. Esclamazioni dolenti di questo,
ch'era stato qualche volta ministro delle sue carità segrete. Anche ora gli
voleva affidare un simile incarico; le occorreva essere informata, consigliata.
L'arciprete si struggeva in ringraziamenti a nome de' suoi poveri. Egli sperava
poi sempre nell'appoggio del signor senatore in una certa questione che aveva
col demanio. La baronessa gli fece intendere che suo marito non poteva molto,
ma che ella aveva mezzi validissimi di aiutarlo, e lo pregò sorridendo, nel
congedarsi, di voler benedire gli erbaggi anche a coloro che si proponessero di
votare per Daniele Cortis. L'arciprete diventò rosso rosso, protestò di non aver
mai rifiutato, per questo motivo, le sue benedizioni. Infatti correva una
storia assai fondata di cavoli del partito Cortis non voluti salvare dai
bruchi. Elena lo tranquillò; c'era tempo, in ogni caso, al rimedio. Il signor
arciprete non conosceva bene Cortis, una volta; adesso potrebbe affermare in
coscienza agli elettori, che Daniele Cortis non era un nemico della religione,
tutt'altro: ne rispondeva lei. L'arciprete promise tutto quello che la signora
baronessa volle, anche di accordare la sua propaganda elettorale con quella
della contessa Tarquinia, e accompagnò la signora baronessa, a capo scoperto,
sino alla carrozza.
Villa Cortis disse Elena al
cocchiere, salendo.
Passate le ultime casupole del
paesello, vide il muraglione del giardino francese e, al di sopra, il getto
bianco, il bosco pendente della montagna. Smontò pallida e accigliata sulla
spianata verde davanti alla casa, s'avviò per il cortile rustico al cancello
dei giardini e si perdette nelle ombre del bosco. Si perdette nel mistero delle
ombre che posano in giro al cancello il loro silenzioso invito, e che si
chiudono a pochi passi, dense, sulla via che gira e scompare, sui sentieri che
accennano e dileguano. Vi sono là dentro colli e valloni perpetuamente ombrosi,
laghi e prati cinti d'ombra, taciti canali che tremolano nell'ombra, voci di
fontane invisibili. Le vette degli alti alberi in giro al cancello annunciano
ondulando, mormorando al vento, questo poema dell'ombra e della vita, ne
promettono le oscure magnificenze.
Elena sparve là dentro per la via
larga che gira a sinistra.
Si sarebbe forse potuto udire per
un momento da qualche orecchio ben fine il suo passo leggero; ma poi, se
qualcuno l'avesse seguita con cautela, si sarebbe vista davanti, dopo una
svolta, la via vuota, avrebbe teso l'orecchio invano.
Ella risaliva il valloncello che
mette capo da sinistra, a quella svolta; lo stretto valloncello dove un rivolo
gorgoglia fra le ninfee, l'erba affoga il sentiero e, in alto, le acacie
dell'uno e dell'altro pendìo confondono nel sole il loro verde, spandono al di
sotto un'ombra dorata. Si ascende per di là ad un quieto seno aperto del colle,
e quindi, fra gli alberi, al piano erboso dove una colonna di marmo antico,
portata dalle terme di Caracalla in quest'altra solitudine reca sulla base due
mani di rilievo che si stringono e le seguenti parole:
HYEME ET AESTATE
ET PROPE ET PROCUL
USQUE DUM VIVAM ET ULTRA.
Elena ricomparve mezz'ora dopo,
più pallida. Chiuso il cancello dietro a sé vi appoggiò la fronte a guardar
ancora una volta le care, care piante, a dir loro: Vi vedrò io più mai? Le alte
piante non la intendevano, offrivano sempre, ondulando e mormorando al vento,
il poema dell'ombra e della vita, la pace, il fantasticar dolce dell'amore. Ma
non voleva udirle, si tolse di là sospirando, se ne andò a capo chino, con le
parole della vecchia lapide nel cuore: D'inverno e d'estate, da presso e da
lontano, fin ch'io viva e più in là.
Si fermò a messa a Villascura.
Uscendo di chiesa trovò Pitantoi e don Bortolo in amichevole confabulazione col
cocchiere. Il piccolo don Bortolo si fece avanti con la sua comica familiarità,
rimproverò la contessina di volersene andare così presto come aveva inteso.
Contessina disse Pitantoi, stando
rispettosamente indietro, la va benone per il signor Daniele, anche se qua il
nostro religioso ci si arrabbia.
Cosa, cosa, cosa? sbuffò don
Bortolo, voltandosi, e stringendo il suo nocchieruto bastone. Elena non lo
guardò neppure, salutò l'altro affabilmente.
Mi raccomando diss'ella. I cavalli
partirono di galoppo, gittando un nuvolo di polvere sui due contendenti.
La contessa Tarquinia era in
giardino con i Perlotti. Malcanton, rosso e sudato come un facchino, non era
ancor giunto, malgrado l'aiuto del gastaldo a disporre il lawn-tennis;
il dottor Grigiolo dal canto suo gridava colla, colla! da un finestrino del
granaio dove stava preparando palloni e palloncini di carta per lo spettacolo
della sera. Com'ebbe veduto entrare la carrozza d'Elena scappò giù a salti dal
suo laboratorio, raggiunse Perlotti e Malcanton che le andavano incontro per
salutarla e dolersi dell'annunciata partenza. La Perlotti le disse che aveva
combinato con il barone di partire insieme alle dieci e mezzo dopo
l'illuminazione e i fuochi. La contessa Tarquinia, immaginandosi di che
parlavano, cominciò a gridar da lontano no no! e a far gesti negativi col
ventaglio.
La tua mamma non vuol sentirla
disse la Perlotti. Sempre tanto gentile, poveretta. Ma bisogna proprio!
Eh, bisogna proprio ripeté il marito
malgrado alcuni dubbi sommessi di Malcanton e del dottor Grigiolo.
Io sono egoista disse Elena
sorridendo. Ho piacere di partire con voi.
Tutti si avviarono verso la
contessa Tarquinia che accennava con l'ombrellino di venire all'ombra, tra la
casa e il cipresso morto, vestito di glicine. Il barone ve li raggiunse subito.
Sua suocera gli disse amabilmente, scherzosamente, le più fiere impertinenze
per questa fuga improvvisa; pregò daccapo i Perlotti di fermarsi. Il barone
aveva un braccio di muso; pareva dire: A che tutte queste commedie? Elena
taceva, lasciava parlare sua madre senza commuoversi. Ad un tratto l'uscio
della sala si aperse e comparve il conte Lao ch'ebbe un'accoglienza rumorosa.
Ben di rado lo si vedeva uscir di camera tanto per tempo! Rispose con un cenno
del capo al burbero buon giorno del barone, e fece capire agli altri che tutti
lo seccavano, tranne Elena, la quale trovò modo intanto di pregare sua madre
che non insistesse con i Perlotti.
Era venuta l'ora della messa e
tutti, fuorché Elena e suo zio, s'incamminarono, più o meno di buona voglia,
verso la chiesetta; ultimo il barone, che voltava l'occhio di tratto in tratto
a guardar quei due.
Perlotti domandò in segreto alla
contessa Tarquinia se Lao non andasse mai a messa.
Euh! diss'ella. Casa Carrè! Non
sapete? Sempre stati turchi. Tutti quanti.
Ed entrarono sotto gli abeti.
Allora Lao prese il braccio di sua nipote.
Adesso spiegami diss'egli.
Cosa, zio?
Ella lo guardò con due occhi
ingenui, alzando le sopracciglia, sorridendo: poi fece un sommesso ah! come
risovvenendosi.
Tu vieni sempre dal mondo della
luna disse il conte Lao, corrucciato. Credi ch'ella abbia tardato un pezzo a
venirmi a domandare cosa era successo? Lao non nominava quasi mai sua cognata:
diceva solo: ella.
E cosa le hai risposto?
Io fui, sono e sarò sempre una
bestia. Le ho risposto come hai voluto tu, che si era aggiustato fra te e me, e
che così bastava, e che non mi seccasse. Per lei, dica quel che vuole, non me
ne importa niente; ma a me bisogna bene che tu spieghi...
S'è aggiustato tutto! interruppe
Elena ridendo. Cosa vuoi che ti spieghi? Andiamo, andiamo, zietto!
Gli propose un giro in giardino,
gli offerse il braccio, ma lui non ne volle sapere; richiese queste
spiegazioni, irritato di vederla così gaia.
Oh zio! diss'ella, mettendogli le
mani sulle spalle, facendosi grave.
Scusa disse Lao, rabbonito,
capisci bene, devo pur sapere.
Ella lo guardò ancora un momento
negli occhi senza parlare, poi gli prese il braccio, gli disse vien qua, lo
trasse verso la fattoria, graziosa casetta posata a pochi passi dalla villa cui
mostra la faccia di tramontana, bizzarramente mascherata da rovina medioevale,
e quella di levante tutta verde e rose dal prato al tetto. Elena vi entrò dal
lato di mezzogiorno per la porticina del suo studiolo di fanciulla, picciol
nido nascosto dietro una vite e le rose, di fronte al prato disteso verso
Villascura e la montagna del Passo Grande.
Che idea ti salta di condurmi in
questa scatola? brontolò il conte Lao chinandosi per entrare.
Sentite diss'ella che orso senza
gusto e senza cuore!
Lo trasse a sedere sul piccolo
divano, gli fece ammirare per forza la vista delle praterie, della montagna, il
nido civettuolo dall'impiantito di noce alla colomba dorata, nel mezzo del
soffitto, dove convergono le pieghe del padiglione bianco e rosa.
Sì, sì conchiuse Lao, una vecchia
bomboniera vuota e unta. Dunque?
Non hai proprio fede in me, zio?
Vuoi tante ragioni per farmi un piacere? Via, non impazientarti! Ti dirò, ti
spiegherò. Sei molto amorevole, però, in queste ultime ore che passo qui!
E tu tienti i tuoi misteri, che
Dio ti benedica! esclamò il conte Lao, buttando via il cappello. Camperai un
secolo di più. Oh santo Dio!
Zitto, zitto, zitto l'interruppe
Elena. Adesso ti dico tutto. Bei misteri! Se non c'è niente! Capisci? Niente.
Ne ho discorso con mio marito stamattina e lui non ne parlerà più.
Benissimo. Ma, e allora, perché
devo recitare la commedia io?
Elena batté il piede a terra.
Come sei duro, zio! Non capisci
niente!
Durissimo rispose Lao, non capisco
niente di niente; manco di prima.
Ma per la mamma, per la mamma!
Perché mio marito ha sempre trattata questa cosa con la mamma, perché le ha
sempre detto che non sarebbe partito senza questo denaro, che ne aveva
assolutamente bisogno; e ora, mi par chiaro, bisogna salvare il suo amor
proprio, bisogna che la mamma creda tutto accomodato secondo il desiderio di
lui!
E lui, poi, come si è deciso a
non domandar più niente?
Questo non te lo posso dire.
Il conte Lao tacque e guardò sua
nipote in modo ch'ella arrossì.
Basta diss'egli finalmente. E,
dopo Roma, che piani hai?
Non le piacque ch'egli troncasse
il discorso così. Temeva in lui un sospetto, ma non osò chiarirsene. Parlarono
di quel che sarebbe stato di loro fino all'ottobre quando Elena era solita
ritornare in famiglia per un mese. Una nuova freddezza era entrata in essi;
discorrevano senza guardarsi, senza rammarico nella voce, né desiderio; e
tacquero presto, malcontenti l'uno dell'altro.
Quanto mai diavolo voleva tuo
marito? uscì improvvisamente a dire il conte Lao.
Non lo so rispose Elena senza
sorpresa, come se avesse veduti fin da prima i pensieri di suo zio. Un
quindicimila lire, credo.
Ell'aperse il cassetto del
tavolino che sta davanti al divano, vi prese una matita e scrisse sotto una
fila di altre date: 29 giugno 1881? Da molti e molti anni ell'aveva sempre
segnato là dentro i giorni dei suoi arrivi e delle sue partenze. Stavolta
aggiunse alla data un punto interrogativo e chiuse il cassetto.
Cos'hai fatto? le chiese il conte
Lao.
Prendi moglie, zio diss'ella.
Stupida!
Uscirono, con questa parola, dal
freddo imbarazzo che incominciava a pesar loro. Ella rise, prese una mano allo
zio, vi fece su un discorsino tutto vezzi, col ritratto d'una zia ideale, d'una
bellezza matura e maestosa....
Misericordia! esclamò a questo
punto il conte Lao che sulle prime, malgrado il suo stupida, si
divertiva della proposta. So cosa vuol dire. Grazie tante. Un barcone in
fascio!
Litigato un poco, tornarono in
giardino, a braccetto, vi trovarono un vetturale di Villascura ch'era stato
fatto chiamare dal barone di Santa Giulia, perché la contessa Tarquinia non
poteva dare ad Elena, quella sera, i cavalli di casa, dovendo fare l'indomani
una visita alla villa R...
Il conte Lao andò sulle furie,
dichiarò ad Elena che i cavalli di casa dovevano servire per lei e che guai se
ell'aprisse bocca; poi intimò al vetturale di andarsi a intendere per la visita
dell'indomani con la contessa Tarquinia che usciva appunto allora insieme ai
suoi ospiti dal boschetto degli abeti. Il barone discorreva con Perlotti,
distratto, guardando sua moglie e il conte Lao. Non s'era ancor trovato solo
con sua suocera, non sapeva quindi dell'annuncio datole da Elena circa il
danaro. Ora Elena doveva aver parlato allo zio mentre loro erano a messa. Con
quale frutto? Gli parvero tutt'e due di buon umore; si rallegrò. In quel punto
un domestico uscì dalla sala, venne ad annunciare l'arrivo di una comitiva di
signori dalla città.
Elena, Elena! esclamò la contessa
spaventata, aiutami, cara te, per la colazione, va la, disponi. A quest'ora,
benedetti da Dio!
Ella corse incontro ai nuovi
arrivati con Perlotti, Malcanton e Grigiolo. Di Santa Giulia trovò modo, nella
confusione, di sussurrare ad Elena:
Parlato?
Cosa fatta diss'ella,
affrettandosi verso casa.
Di Santa Giulia restò solo con il
conte Lao per un momento, perché Elena si voltò, prima d'entrare in casa, a
chiamar quest'ultimo. Il barone gli stese la mano:
Grazie diss'egli.
Non occorre rispose Lao asciutto,
pensando essere stato ringraziato per i cavalli; e gridò ad Elena:
Vengo!
Il barone lo lasciò andare,
s'incamminò a gran passi, con il cappello sulla nuca e la barba al vento, verso
uno sciame d'ombrellini che si vedeva presso due carrozze ferme davanti alla
scuderia. Erano arrivate almeno otto o dieci persone fra uomini e signore.
Il conte Lao fece il miracolo
quel giorno di venir a colazione benché la colazione fosse stata ritardata
oltre un'ora per causa dei nuovi ospiti. Costoro parlarono subito, flebili,
della partenza d'Elena.
A proposito, contessa Tarquinia
saltò su il barone, s'è intesa Lei col vetturale?
Eh diss'ella di malumore, non ve
l'ha detto, mio cognato, che vi si danno i cavalli?
Di Santa Giulia piegò un poco il
capo verso lo zio, gli grugnì un ringraziamento.
Ma cosa? disse quegli sorpreso
che il barone non sapesse dei cavalli; e si fermò subito. La contessa Tarquinia
chiese ad Elena, appena lo poté, se fosse una strega. Tutto accomodato e si
facevano persino dei complimenti! Seppe anche gittar nell'orecchio di suo genero
un Sarete contento adesso!, cui l'altro rispose forte: Sicuramente.
Ella propose poi un giuoco di
società al biliardo, ma Elena consigliò invece una gita ai giardini Cortis e ci
mandò suo marito in vece sua, scusandosi con i preparativi della partenza. Il
barone sarebbe rimasto volentieri per saper meglio da sua moglie com'era andata
la faccenda; ma con l'idea che la conclusione n'era stata buona, volle
mostrarsi amabile e partì insieme agli altri. Il solo Grigiolo rimase a
disporre i palloncini per la illuminazione del giardino, della villa e della
fattoria.
Adesso spiegami questa disse il
conte Lao a sua nipote, appena partita la compagnia.
Cosa c'è?
Tuo marito che poco fa, tornando
dalla messa, mi dice un grazie come se gli avessi salvata la vita, ciò
che non farei...
Zio!
Ciò che non farei! Ti domando il
perché di questo grazie.
Per i cavalli, m'immagino.
Che cavalli, se allora non lo
sapeva neppure! Non hai udito a tavola?
Non so, per la tua ospitalità di
questi venti giorni, forse.
Lo zio tacque e guardò Elena come
l'aveva guardata nello studiolo della fattoria. Elena non arrossì questa volta,
fece l'indifferente. Si trattenne ancora un momento con lo zio, poi disse che
doveva salire in camera per dare un'occhiata alle sue valigie.
E Cortis? esclamò il conte Lao
mentr'ella poneva il piede sulla scala.
Elena trasalì all'udir quel nome,
si fermò senza dir motto né voltarsi. Non aveva più parlato di Daniele Cortis
con lo zio, da quando gli era venuta a riferire quelle tre parole: una cosa
grave.
Non è mica tornato? chiese ancora
il conte.
Non credo rispose Elena con voce
incerta.
Vedremo quest'elezione diss'egli.
Elena salì adagio adagio la scala
senza rispondergli. Più si avvicinava il momento di partire, più le mancava il
coraggio di parlare di lui, la forza di comprimersi il cuore.
Fece le sue valigie in fretta,
aiutata dalla cameriera di sua madre, poi si recò a salutare la gastalda e
altre due o tre contadine. Mentre tornava a casa, suo zio la pregò, dalla
finestra, di salire da lui.
Senti diss'egli. Ti occorrono
danari?
Rispostogli da Elena che non le
occorrevano, insistette, la pregò di parlare schietto, poiché del danaro ce
n'era d'avanzo e lei ne poteva chiedere, per sé, fin che volesse. Già doveva
diventar tutta roba sua un giorno o l'altro. Elena esitò un istante, poi
rifiutò. Il conte Lao non ne parlò più.
Salutiamoci adesso diss'egli,
stringendosela sul cuore. Stasera, con tanti seccatori, non ti si potrà avere
sola un momento. E ricordati: in qualunque tempo, in qualunque luogo, per
qualunque cosa tu avessi bisogno di me...! Lo faccio per te e anche... La baciò
in fronte per tuo padre! soggiunse rialzando il viso. Elena lo guardò commossa,
gli strinse le mani forte forte. Il padre di lei e il conte Lao erano stati
fratelli, ma non amici: una delle ragioni per cui quest'ultimo aveva vissuto
lontano dalla patria. Guastataglisi la salute e preso suo fratello dalla
malattia che lo uccise, era venuto a riconciliarsi con lui, a raccogliere, per
espresso desiderio suo, l'autorità sulla famiglia.
La spedizione di Villascura
doveva tornare un po' prima del pranzo. Elena diede ordine che il pranzo fosse
anticipato di qualche minuto, per cui lo si annunciò alla contessa Tarquinia
mentre scendeva di carrozza; e né lei, né il barone ebbero agio di farsi raccontar
da Elena come si fossero passate le cose, appuntino, con lo zio.
Verso la fine del pranzo entrò in
giardino, suonando, la banda di Villascura e il factotum Malcanton corse
a riceverla e accompagnarla nell'angolo tra la fattoria e gli allori che chiudono
a ponente il giardino. Dietro alla banda c'era molta gente: i Zirisèla, i
Picuti, tutta la buona società di Villascura e di Passo di Rovese. Un momento
dopo la contessa Tarquinia uscì in giardino con tutti i commensali, meno Lao
che corse a chiudersi in camera. Mentre, all'apparire della contessa, la banda
intonava una fantasia sui Vespri Siciliani, mentre i Zirisèla e i
Picuti, in gran gala, si facevano avanti, e un brulichìo di persone si
raccoglieva nelle lunghe ombre del giardino sfolgorato dal sole cadente, il
barone di Santa Giulia passò una mano sotto il braccio di sua moglie, la trasse
in disparte.
Santo diavolone diss'egli, non si
può mai dire una parola! Contami di questo affare. Prima di tutto, quanto...?
Aspetta rispose Elena. Si fermò
su due piedi e si guardò alle spalle.
Scusa diss'ella, balzandogli di
mano. Quelle signore che venivano proprio da me! Come volevi tu! soggiunse, e
corse dalle signore Zirisèla.
Anche la contessa Tarquinia aveva
detto a suo genero prima di andare ai giardini: sarete contento, adesso! Non
c'era dubbio, dunque, che l'intento non fosse raggiunto; ma pure il barone
avrebbe amato sapere qualche cosa di più.
Le ombre del giardino diventavano
sempre più lunghe, il vino correva a rivi nell'angolo tra la fattoria e i lauri
e metteva quindi nelle trombe e nei tromboni di Villascura una foga sempre più
indiavolata. Davanti alla banda, sul prato, ballavano i signori; i contadini
ballavano più lontano. L'infaticabile Perlotti, inzuppato di sudore, voleva far
ballare Elena a ogni patto, faceva mille smancerie. Elena, annoiata, stava per
liberarsene con una parolina secca, quando sua madre s'interpose.
Lasciatemela un poco anche a me
diss'ella che stasera la perdo.
Madre e figlia s'allontanarono
insieme per la stradicciuola che corre lungo un ruscello, di là dalla fattoria,
fra il prato e i campi.
In presenza della gente la
contessa era sempre tutta tenerezza con sua figlia, benché questa vi
rispondesse freddamente; da sola a sola si teneva molto più in riserbo, non
avendo comuni con Elena né le idee, né le inclinazioni, sentendola superiore
moralmente e intellettualmente a sé, e conscia in qualche parte di certe
galanterie passate che la contessa, col suo buon cuore, si perdonava senza
sperare uguale indulgenza dalla puritana figliuola. Ella si dolse con Elena di
non poter passare con lei, con lei sola, almeno quelle poche ultime ore. Ma
com'era possibile, con tanti ospiti, in un giorno simile? Se ne voleva
ricompensar largamente in ottobre. Raccomandò ad Elena di tornar presto; doveva
guardar bene di non lasciarsi condurre in Sicilia; non era neppur prudente, se
passavano l'estate al mare, di andar a Napoli. Se suo marito non voleva
assolutamente saperne di Venezia, c'era Livorno, Genova, cento altri luoghi più
opportuni di Napoli. E perché non Dieppe, perché non Ostenda? Se poi non
andavano al mare, che pareva meglio, c'era questo Aix. Di Santa Giulia aveva
ben parlato d'Aix in principio, se gli riusciva di ottenere il danaro. Adesso
Elena poteva ricordargli le sue parole e tener fermo. E, scegliesse Aix o
qualunque altro luogo, doveva portar seco la cameriera, esigerla da suo marito.
Adesso non le potrebbe opporre pretesti d'economia.
A proposito disse la contessa a
questo punto, come hai fatto a convertir lo zio e cos'avete concluso?
Sai bene rispose Elena cosa
voleva mio marito?
Sì, sì, voleva almeno
quindicimila lire, che, dopo tutto, non erano mica la morte d'un uomo; e il tuo
signor zio poteva farsi pregar meno, mi pare.
E a te, mamma, cosa t'ha detto
una volta? Non t'ha detto che se non ottenesse il danaro mi confinerebbe a
Cefalù, per sempre?
Bestia! esclamò la contessa. Sì
che me l'ha detto! Sì, sì.
Bene, ora è concluso che a Cefalù
non ci vado se non lo voglio proprio io.
Sia ringraziato Dio! ma...
Elena ebbe un sussulto che le
scosse tutta la persona.
Cosa c'è? esclamò sua madre. Cosa
è nato?
Elena riprese in un lampo
l'impero di sé.
Niente rispose, proprio niente.
La contessa, inquietissima,
insistette, ma senza frutto. Intanto sopravvenne Malcanton a domandarle se
durante le funzioni religiose si dovessero fare entrare i suonatori nel palazzo
a riposare un poco, invece di mandarli a suonare in chiesa come avrebbero
voluto i preti. Elena lasciò quei due a consultare e andò verso la scuderia per
vedere se le valigie fossero state portate nel baroccio, se c'era tutto e bene
in ordine. Suo marito si avviava pure dalla casa a quella volta gridando a un
domestico: La baronessa è lì? Elena tornò indietro. Adesso bisognava evitar sua
madre che, sbrigatasi in fretta da Malcanton, le veniva incontro. Entrò in
casa, si rifugiò presso il conte Lao. Nel bussare alla sua porta si ricordò di
quella torbida sera quando la piova metteva un velo bianco a tutte le finestre,
ed ella bussava alla stessa porta con lo sgomento d'un pericolo sconosciuto e
vicino. Adesso la cheta luce della sera posava sul pavimento, le campanelle di
San Pietro suonavano sotto il limpido cielo, allegre voci salivano dal giardino
alle finestre aperte; tutto le diceva: va via, tu dai tristi pensieri.
Il conte Lao aveva già il lume e
stava scrivendo.
Sei tu? diss'egli. Che ore sono?
Quasi le nove, zio.
C'è ancora un'ora, dunque? Scusa,
debbo scrivere una lettera e non l'ho ancor finita.
Elena sedette in silenzio presso
la finestra. V'era già una fila di lumicini intorno alla guglia del piccolo
campanile dietro gli abeti. Altri lumi giravano per il giardino e il chiasso
cresceva sempre. Si udiva gridare il dottor Grigiolo, direttore
dell'illuminazione.
Un domestico venne in cerca di
Elena. La signora contessa la voleva subito. Ell'aspettava sua figlia fuori
dell'uscio, nella sala oscura. La contessa Tarquinia non pretendeva d'essere
una santa ma era convinta d'aver buon cuore e voleva ora dimostrarlo ad Elena.
La pregò di parlare, di confidarsi a lei se aveva qualche cosa sul cuore.
Non ho la tua virtù diss'ella
umilmente né il tuo talento, ma sono tua madre, dopo tutto.
Elena si commosse, l'abbracciò
con maggior affetto che non le avesse dimostrato da molto tempo.
Niente rispose, quando tu hai
detto sia ringraziato Dio, mi è passato per la mente un pensiero
stupido, una paura di non tornare più e ho fatto così, ho avuto una scossa!
Sua madre la baciò, la rimproverò
di lasciarsi venire questi pensieri stupidi. In cuor suo non era punto
tranquilla; sapeva che Elena non era solita commuoversi di fantasie vane.
Il dialogo fu interrotto dai
Perlotti che uscirono dalla loro camera in assetto da viaggio.
È presto disse la contessa
Tarquinia alla sua amica.
Sì, cara, ci vuole quasi un'ora,
ma Grigiolo ci ha raccomandato di perdere il meno possibile dell'illuminazione.
Discesero insieme. Festoni di
palloncini colorati penzolavano tra gli alberi, tra le finestre della villa e
della fattoria. Si era terminato in quel punto di cingerne fin quasi alla cima
il gran cipresso morto che saliva nella notte nera come un obelisco di fuoco.
La gente gridava, batteva le mani. Allora la banda si mosse suonando, fece un
giro tra gli alberi illuminati, poi andò sul prato tutto buio, a mezzogiorno
della villa. Un razzo sfolgorò lontano, di là dal prato, fra le tenebre; poi un
altro, un altro ancora; stelline d'ogni colore cadevan lente dal cielo. Tutta
la gente correva da quella parte. Il barone, che cercava sua moglie sagrando fra
i denti, la trovò finalmente con sua madre e i Perlotti sulla porta della sala
che guarda il prato.
Elena diss'egli, ascolta un
momento.
La trasse in sala, presso il
biliardo. Era in collera per non averle mai potuto parlare.
Questo danaro? Lo aveva? Aveva
una carta? Una parola, forse? Si era accontentata d'una parola? Elena gli
rispose sdegnosamente ch'egli stesso aveva detto di volersene accontentare, e
che se avesse anche solo una parola di suo zio, essa varrebbe più dell'oro e di
qualunque carta. Gli disse di far attaccare, e tornò dove sua madre e i
Perlotti la chiamavano.
Dopo i razzi s'era fatto salire
un pallone con fuochi artificiali che sprizzavano, fischiando, da ogni parte.
Viva Grigiolo! gridò Perlotti.
Il barone, invece di far
attaccare, salì dal conte Lao. Lo incontrò sulle scale che scendeva con una
lettera in mano, e gli disse che veniva a congedarsi, a ringraziarlo.
Non occorre interruppe il conte.
Mi dispiace soggiunse Di Santa
Giulia che questo versamento mi ha costretto d'incomodarvi...
Cosa? Che versamento?
Lao aggrottò le ciglia come chi
raccoglie i propri pensieri per ricordarsi.
Eh! esclamò il barone, pigliando
subito fuoco. Elena vi ha ben detto la ragione per cui mi occorrevano...
Compì la frase con una specie di
rantolo espressivo.
Il conte tacque, lo fissò un
poco, poi si scosse e rispose:
Lo so, va bene.
Discese, lasciando il suo
interlocutore non troppo contento.
Come parlano oggi tutti questi
briganti! brontolò il barone fra sé, e andò a far attaccare.
Il conte Lao, chiuso nel
soprabito, con il bavero rialzato, raggiunse in giardino il gruppo dov'era sua
nipote, davanti all'uscio di mezzogiorno della sala. Due minuti dopo vi capitò
correndo il dottor Grigiolo tutto scalmanato, con l'orologio in mano.
Per amor di Dio, baronessa Elena,
sono appena le nove e Lei fa già attaccare! Per carità, baronessa, adesso viene
il più bello.
Andiamo, andiamo disse il barone
sopravvenendogli alle spalle. Il più bello è di non perdere il treno. Io ho
bisogno di essere a Roma domani sera.
Dieci minuti, dieci minuti soli!
disse Grigiolo correndo via.
Cinque! gli gridò dietro il
barone.
Fu acceso un razzo e quasi subito
brillarono fuochi di bengala qua e là per la valle, sul campanile di Villascura
e fra i boschi del Passo Grande. Vi furono degli oh d'ammirazione, degli
applausi. Allora altri fuochi bianchi divamparono a destra e a sinistra del
prato, gettando un chiaror d'argento sulla ghiaia e sull'erba, sul nero
brulichìo della gente. La banda intuonò il coro del Nabucco. Elena, la
contessa Tarquinia, il conte Lao, il barone, stavan lì in un gruppo, sulle
spine d'occulte inquietudini.
Mi rincresce che abbiamo dovuto
strozzar tutto disse Grigiolo ritornando, umile nella sua gloria.
Vennero ad avvertire che la
carrozza era pronta.
Andiamo grugnì il barone.
Lao strinse la mano a sua nipote
e rientrò in casa.
Malgrado il bengala non ci si
vedeva molto presso la carrozza ferma tra la scuderia e le poderose magnolie
che cingono il prato da quella parte. Contadini, servi, ragazzi, si accalcavano
intorno ai cavalli. C'era della confusione. La Perlotti non trovava la sua
borsa da viaggio, temeva fosse caduta fra le ruote.
Faccio accendere un bengala!
gridò Grigiolo.
Elena gli prese il braccio,
glielo strinse forte.
No, no diss'ella con voce piena
di lagrime.
Seguirono i baci e gli addio. La
vecchia balia di Elena, moglie del gastaldo, singhiozzava. Tutti erano a posto,
mancava solo la borsa della contessa Sofia. Finalmente venne in chiaro ch'era
stata collocata per errore sulla carretta dei bauli d'Elena, partita mezz'ora
prima.
Andiamo! disse ancora il barone.
Complimenti a tutti questi signori.
I cavalli s'impennarono, la
ghiaia stridette sotto le ruote pesanti. Nell'entrar sotto il portico, Perlotti
agitò il cappello e sua moglie il fazzoletto; le ruote, le zampe ferrate dei
cavalli tuonarono un momento sul ciottolato, sulla soglia del portone, e subito
il suono morì nella campagna oscura.
Ma Grigiolo e un suo aiutante
corsero sotto il colossale abete che dal ciglio dell'altipiano stendeva le sue
frange nere sulla valle. Quando la carrozza passò lì sotto, lungo il Rovese, un
fuoco bianco di bengala, come un'occhiata di sole nella notte, mostrò, in alto,
a Elena il vecchio albero inclinato sul pendìo.
Buon viaggio! urlò Grigiolo a
squarciagola. Elena scattò su a raccogliersi quell'ultima visione nel cuore.
Quello è matto disse il barone.
Rientrata ogni cosa nel buio, non
si udì che il fragor del Rovese, misto al trotto eguale dei cavalli. I Perlotti
si provaron bene, sulle prime, di chiacchierare, ma nessun discorso attecchiva,
e finirono con addormentarsi tutt'e due. Ci son tre buone ore da Passo di
Rovese alla città dove i Di Santa Giulia dovean prendere il treno di Roma.
Il barone non dormiva né parlava.
Avviluppato in uno scialle di sua moglie, vi masticava dentro ogni tanto un
pezzo di soliloquio sull'umido infame della notte, sui cavalli gottosi della
contessa Tarquinia. Elena, rincantucciata in fondo al legno, muta, teneva gli
occhi fissi sulla strada.
Alla stazione i Perlotti
ripresero la loro borsa e vollero poi trattenersi fino alla partenza d'Elena
per poter scrivere a sua madre, l'indomani, che l'avevan proprio accompagnata
fino al treno. Mentre Di Santa Giulia si occupava dei bagagli, il domestico di
casa Carrè, ch'era venuto a cassetta col cocchiere, consegnò ad Elena una
lettera da parte del conte Lao.
Ella vide ch'era diretta a lei e
la ripose subito, soggiungendo:
Va bene.
Dopo un quarto d'ora giunse il
treno con molta gente. Di Santa Giulia fece tanto suonare i suoi titoli
parlamentari che s'attaccò un'altra carrozza di prima classe perché l'onorevole
senatore potesse trovarsi solo con la sua signora.
Oh! diss'egli buttandosi a
giacere sul sedile, con le gambe accavalciate e le mani dietro la nuca.
Finalmente non c'è più seccatori! Conta su, di questo danaro. Come hai
concluso?
Come volevi tu, ho concluso.
Quindici?
Stavolta gli rispose il fischio
furioso della locomotiva. Il treno mosse avanti.
Quindici? gli rispose il barone.
Elena indugiò un momento a
rispondere, tenne il viso allo sportello fino a che tutti i fanali e gli uffici
illuminati della stazione le ebbero sfilato sugli occhi.
No diss'ella, ritraendo il capo.
Ho scelto diversamente.
Cosa? esclamò il barone
rizzandosi di botto in faccia a sua moglie. Cosa, scelto diversamente?
Tu mi hai detto rispose Elena con
voce ferma e alta per vincere lo strepito del treno lanciato a corsa che senza
il danaro mi avresti portata in Sicilia e che non si sarebbe più parlato né di
Roma né di Veneto. Hai detto chiaro che intendevi porre la questione a mio zio
così; o danaro, o Cefalù. Bene, siccome si trattava di me, ho pensato che il
diritto di scegliere era tutto mio e ho scelto Cefalù.
Durante questo discorso il barone
s'era venuto mutando in viso. All'ultima parola le afferrò i ginocchi, si chinò
tutto a lei.
Dunque diss'egli con i denti
stretti, dunque vuoi dire che del danaro non hai parlato?
Elena non rispose né si mosse.
Non hai parlato? replicò lui,
stringendole e scotendole i ginocchi con furore.
No, certo, non ho parlato
diss'ella.
Il barone credette che mentisse,
che lei, suo zio, sua madre si fossero accordati per farsi giuoco di lui;
acceso d'ira alzò la mano.
Coraggio! diss'ella, piano, senza
batter ciglio.
Colui non osò.
Ah disse non hai parlato?.
Il treno entrò allora, tuonando,
in una galleria. Elena vedeva suo marito gesticolar furioso, lo udiva urlare,
non sapeva che. Colse a un tratto questa parola: Ipocrita. Gli occhi le
lampeggiarono. Appuntò a suo marito, in risposta, l'indice della destra.
Io? ringhiò l'uomo.
Tacque, e tacque anche Elena fino
a quando il fragore del treno, fuori della galleria, cadde.
Perché ti occorreva il danaro?
diss'ella.
Le rispose brutalmente che gli
occorreva per il piacer suo. Non era vero; si trattava d'impegni formidabili;
ma egli voleva offenderla. Soggiunse che la prima ipocrita era lei, che lo
aveva ingannato all'altare col suo falso sì pieno d'avversione.
Elena n'ebbe una stretta al
cuore. Era vero, era vero, conosceva la propria colpa, l'egoismo di una
risoluzione presa per uscire dalla casa paterna. Sdegnò rispondere che
quand'anche non avesse a creder più in Dio, morrebbe prima di smentire quel sì
dell'altare, prima di dolersene. Bisognava subirne la pena, tutta, fino
all'ultimo, in silenzio.
Suo marito le domandò se credeva
che avesse parlato di Cefalù per ischerzo.
Spero di no diss'ella.
Spero! ripeté il barone con un
ghigno spero!
Rideranno di me, adesso
soggiunse, quegli altri due briganti, ma Dio mi stritoli se li guarderò in
faccia mai più in eterno, se prenderò mai da loro una goccia d'acqua, dovessi
scoppiar di sete!
Alle proteste d'Elena che i suoi
parenti non c'entravano, oppose un gesto di disprezzo, e, cacciatosi
nell'angolo più opposto del vagone, non aperse più bocca.
Guardavano entrambi, ciascuno dal
proprio lato, egli torvo, ella grave, nella notte fredda e nera che soffiava
per i finestrini, facendo tremare il lume sonnolento, come se ne avesse paura.
Elena si ricordò presto della lettera di suo zio, la lesse a stento. Il conte
Lao le diceva brevemente che, non credendo affatto a quanto ella gli aveva
raccontato e temendo di qualche sciocchezza sentimentale, le avrebbe mandate a
Roma per mezzo della Banca Nazionale quindicimila lire ch'ella gli avrebbe
riportate in ottobre, se proprio non le occorrevano. Elena ripose la lettera e
tornò a guardare dal finestrino.
A poco a poco lo strepito del
treno diventava per lei un battere e ribattere d'onde, diventava tumulto e
grida di gente sconosciuta; le scure campagne le figuravano un mare, e tre
occhi fissi di pianeti vicini all'orizzonte, la chiamavan lontano, conoscendo,
come a lei pareva, la sua recondita idea; per lui, per lui, per non contristar
la sua vita. Le rade fermate interrompevano per breve tempo questi pensieri.
Viaggiatori salivano e scendevano senza che gli occhi aperti di lei si
movessero. Verso l'alba, il treno entrò con gran fragore in mezzo ad alte
spranghe di ferro tra cui si vedeva una grande acqua chiara e le fioche
immagini delle stelle. Qualcuno disse sottovoce.
Il Po.
Elena uscì dai suoi pensieri,
sentì dolore di quel primo barlume del giorno; e, fermi gli occhi alla sponda
fuggente, immaginò, respinse, richiamò con passione le parole della povera
pietra nascosta là, in fondo all'orizzonte, fra gli alberi di Villa Cortis:
D'inverno e d'estate da presso e da lontano fin ch'io viva e più in là.
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