Franco, appena ricevuto il telegramma, corse all'ufficio dell'Opinione in
via della Rocca. Dina, vedendolo torbido, gli disse: «Oh! Lo avete saputo?».
Franco si senti gelare il sangue, ma Dina, quando udì del telegramma, fece un
atto di stupore. No no, non sapeva nulla di questo. Era stato informato da
parte del Presidente del Consiglio che la Polizia austriaca aveva fatto
perquisizioni ed arresti in Vall'Intelvi e che fra le carte di un medico si era
trovato il nome di don Franco Maironi con indicazioni assai compromettenti.
Dina soggiunse che in un momento così angoscioso per un padre non osava quasi
dirgli perché il conte di Cavour si interessasse a lui. Gliene aveva parlato
egli stesso, Dina, e il conte s'era mostrato dispiacente che un gentiluomo
lombardo di così bel nome si trovasse a Torino in condizioni dure e oscure.
Dina credeva ch'egli avesse intenzione di offrirgli un impiego al Ministero
degli Esteri. Ora Franco doveva partire, certo. La bambina guarirebbe ed egli
ritornerebbe nel più breve tempo possibile. Intanto si fermerebbe a Lugano, non
è vero? in attesa di notizie; e se non fosse proprio necessario non si
arrischierebbe mica di entrar in Lombardia. Con quest'affare di Vall'Intelvi
sarebbe un'imprudenza enorme. Franco tacque e il suo direttore, nel congedarlo,
insistette: «Abbia prudenza! Non si lasci prendere!», ma non ebbe alcuna
risposta.
Dal momento in cui aveva ricevuto il telegramma, Franco aveva camminato su e
giù per Torino come in sogno, senza udire il suono dei propri passi, senza
coscienza di ciò che vedeva, di ciò che udiva, andando macchinalmente dove gli
occorreva, in quella congiuntura, di andare, dove lo portava una facoltà
inferiore e servile dell'anima, quel misto di ragione e d'istinto che ci sa
guidare per il labirinto delle vie cittadine, mentre lo spirito nostro, fisso
in un problema o in una passione, niente se ne cura. Vendette orologio e catena
per centotrentacinque lire a un orologiaio di Doragrossa, comperò una bambola
per Maria, passò dal caffè Alfieri e dal caffè Florio per far avvertire gli
amici e, dovendo pigliar il treno delle undici e mezzo per Novara, fu alla
stazione alle undici. Vi capitarono alle undici e un quarto il Padovano e
l'Udinese. Essi cercarono di rincorarlo con ogni sorta di supposizioni rosee e
di ragionamenti vani, ma egli non rispondeva parola, aspettava con una avidità
immensa il momento di partire, di esser solo, di correre verso Oria, perché,
qualunque ne fosse il pericolo, era ben deciso di andare a Oria. Entrò in una
carrozza di terza classe e quando la locomotiva fischiò, quando il treno si
scosse, mise un gran sospiro di sollievo, e si diede tutto al pensiero della sua
Maria. Ma v'era troppa gente, troppo rozza e chiassosa gente intorno a lui. A
Chivasso, non potendo resistere a quei discorsi, a quelle risate, passò in una
carrozza vuota di seconda classe dove si mise a parlar solo, guardando il
sedile di faccia.
Dio, perché non mettere nel telegramma una parola di più? Oh, Signore, una
parola sola! Il nome della malattia, almeno!
Un nome orribile gli attraversò la mente: croup. Stese le braccia avanti,
contro il fantasma, in uno stiramento convulso, aspirando aria con tutta la
forza sua e le lasciò ricader con un soffio che parve vuotargli il petto
d'anima e di vita. Perché doveva trattarsi di un male subitaneo, altrimenti
Luisa avrebbe scritto. Altro lampo nella mente: congestione cerebrale? Egli
stesso, da bambino, era stato a morte per una congestione cerebrale. Signore,
Signore, questa era una luce buona. Era Dio che gliela mandava! Fu preso da
singhiozzi nervosi, senza lagrime. Maria, tesoro, amore, gioia! Doveva esser
questo, sì. La vide ansante, accesa, vegliata dal medico e dalla mamma,
immaginò in un minuto lunghe lunghe ore al suo capezzale, lunghe angoscie, il
rinascer della speranza, il primo sussurro della dolce voce:
«Papà mio».
Si alzò in piedi, giunse e strinse le mani in uno sforzo muto di preghiera.
Poi ricadde a seder esausto, volse gli occhi senza sguardo alla campagna
fuggente, sentendo quasi un legame fra le grandi Alpi velate, ferme
all'orizzonte di settentrione e il pensiero dominante, fermo, assopito,
nell'anima sua. Ogni tanto lo strepito del treno lo toglieva dal suo torpore
suggerendogli l'idea di una corsa angosciosa, richiamando il suo cuore a
correre, a batter così. Egli chiudeva poi gli occhi per vedersi meglio arrivare
a casa. Subito gli venivan immagini su dal cuore alle palpebre, ma si muovevano,
mutavano continuamente, non poteva arrestarle più d'un momento. Era Luisa che
gli correva incontro sulle scale, era lo zio che gli stendeva le braccia
sull'entrata della sala, era il dottor Aliprandi che gli apriva l'uscio
dell'alcova e gli diceva «bene bene», era, nella camera buia, un moto di ombre
silenziose, era Maria che lo guardava con gli occhi lucidi di febbre.
A Vercelli, parendogli già essere a mille miglia da Torino, l'impero della
realtà lo riprese. Quando sarebbe a Lugano, come, per qual via andrebbe a Oria?
Scopertamente, per il lago, facendosi vedere alla Ricevitoria? E se non lo
lasciassero passare perché non aveva sul passaporto il visto dell'uscita, o se,
peggio, vi fosse un ordine di arresto per quest'affare del medico di Pellio? Meglio
prendere la montagna. Poteva venire arrestato dopo, ma con la pratica dei
luoghi che aveva fatto prima del 1848, cacciando, era quasi sicuro di arrivare
a casa. Questo faticoso lavoro di fare e disfare piani lo distrasse alquanto,
gli tenne occupata la mente sin oltre Arona, sul battello del Lago Maggiore.
Aveva fatto il conto di arrivare a Lugano nel cuore della notte. Se vi fosse
qualcuno ad aspettarlo? Se non v'era nessuno, poteva darsi che alla farmacia
Fontana, dove andavano molte valsoldesi, si sapesse qualche cosa. Se Iddio
volesse fargli trovare a Lugano notizie rassicuranti potrebbe rimettere
all'indomani ogni decisione circa l'andata a Oria. Prese dunque il partito di
non far progetti sino a Lugano e pregò fervorosamente Iddio che gli facesse trovare
queste buone notizie. Il cielo era coperto, le montagne avevano già una tinta
autunnale triste, il lago era leggermente nebbioso, le campane di Meina
suonavano; sul vapore non c'era quasi nessuno e la preghiera di Franco gli morì
nel cuore sotto una tristezza pesante, gli occhi suoi si smarrirono dietro uno
stormo di gabbiani bianchi che volavan lontano verso le acque di Laveno, verso
il paese nascosto dov'era l'anima sua.
Arrivò a Magadino dopo le sette, fece il monte Ceneri a piedi, per il
sentiero che mette alla Cantoniera, prese una vettura a Bironico e arrivò a
Lugano dopo la mezzanotte. Discese in piazza presso il caffè Terreni. Il caffè
era chiuso, la piazza deserta, scura; tutto taceva, anche il lago di cui
s'intravedeva un palpitar lento nell'ombra. Franco si fermò un momento sulla
riva con la speranza che qualcheduno fosse venuto ad aspettarlo e comparisse da
qualche parte. Non poteva veder la Valsolda nascosta dietro il monte Brè; ma
quella era l'acqua stessa che rispecchiava Oria, che dormiva nella darsena
della sua casa. Gli si allargò un poco il cuore in un sentimento di pace, gli
parve essere ritornato tra familiari suoi. Tacendo ogni voce umana, gli
parlavano le grandi montagne oscure, sopra tutte il monte Caprino e la Zocca
d'i Ment che vedevano Oria. Gli parlavano dolcemente, gli suggerivano un
presentimento buono. Diciannove ore eran passate dalla data del telegramma; il
male poteva esser vinto.
Non comparendo nessuno, si avviò alla farmacia Fontana, suonò il campanello.
Egli conosceva da molti anni quell'ottimo, cordiale galantuomo del signor Carlo
Fontana, passato anche lui col mondo antico. Il signor Carlo venne alla
finestra e si meravigliò molto di vedere don Franco. Non aveva alcuna notizia
della Valsolda, era stato due giorni a Tesserete, n'era ritornato da poche ore,
non sapeva niente. Il suo assistente, il signor Benedetto, era partito anche
lui da poche ore, per Bellinzona. Franco ringraziò e si avviò verso Villa
Ciani, risoluto di andare subito ad Oria.
Poteva scegliere fra due vie: o salire da Pregassona il versante svizzero
del Boglia, toccar l'Alpe della Bolla, attraversare il Pian Biscagno e il gran
bosco dei faggi, uscirne sul ciglio del versante lombardo, al faggio della
Madonnina, calare ad Albogasio Superiore e Oria; o prendere la comoda via di
Gandria verso il lago, e poi il sentiero malvagio e rischioso che da Gandria,
ultimo villaggio svizzero, taglia la costa ertissima, passa il confine a un
centinaio di metri sopra il lago, porta alla cascina di Origa, cala nei burroni
della Val Malghera e ne risale alla cascina di Rooch, vi trova la stradicciuola
selciata che passa sopra il Niscioree e discende a Oria. La prima via era assai
più lunga e faticosa ma in compenso migliore per eludere al confine la
vigilanza delle guardie. Partendo dalla farmacia Fontana, Franco decise di
appigliarsi a quella. Ma quando fu a Cassarago, dove mettono la strada di
Pregassona a quella di Gandria, quando vide la punta di Castagnola così vicina
e pensò che da Castagnola si va a Gandria in meno di mezz'ora, che da Gandria
si può andare a Oria in un'ora e mezza, l'idea di salire il Boglia, di
camminare sette od otto ore gli divenne intollerabile. Salendo il Boglia
sarebbe poi anche arrivato di giorno; questo era, per la sicurezza, uno scapito
grande. Prese risolutamente la via di Castagnola e Gandria. Il cielo era tutto
coperto di nuvole pesanti. Sotto i grandi castani ove passava il sentiero di
Castagnola, non si sapeva dove mettere il piede; ma che sarebbe poi stato nel
gran bosco del Boglia, se Franco avesse presa quella via? Così fu dentro
Castagnola e peggio di così nel labirinto delle viuzze di Gandria. Dopo averle
fatte e rifatte più volte, sbagliando, Franco riuscì finalmente sul sentiero
del confine e si fermò a riposare. Sul punto di cimentarsi nel fitto delle
tenebre ai pericoli di un sentiero difficile, di un incontro con le guardie
austriache, per giungere poi a quell'altro pauroso passo dell'entrar in casa,
del far la prima domanda, dell'udir la prima risposta, alzò la mente a Dio, raccolse
tutti i suoi pensieri in un proposito di fortezza e di calma.
Si ripose in cammino. Gli occorreva ora dare tutta la sua attenzione al
sentiero per non smarrirlo, per non precipitare. I campicelli di Gandria
finiscono presto. Poi vengono fratte folte, pendenti sopra il lago, valloncelli
franosi, mascherati dal bosco, che ruinano diritti al basso. In quei passaggi
bui Franco era costretto di menar le braccia alla cieca per abbrancar un ramo,
poi un altro, cacciar il viso nel fogliame che almeno aveva l'odore della
Valsolda, trascinarsi di pianta in pianta, tastar coi piedi il suolo, non senza
terrori di sprofondare, cercar le tracce del sentiero. Il suo fardello era
piccino ma pure gli dava impaccio. E gli dava noia quello stormir delle frasche
al suo passaggio; gli pareva che dovesse udirsi lontano, sui monti e sul lago,
nel silenzio religioso della notte. Allora si fermava e stava in ascolto. Non
udiva che il remoto rombo della cascata di Rescia, qualche lungo ululato di
allocchi nei boschi di là del lago e talvolta giù nel profondo, sull'acqua, un
secco tocco, Dio sa di che. Non impiegò meno di un'ora per arrivare al confine.
Là, fra la valle del Confine e la Val Malghera, il bosco era stato tagliato di
recente, il pendio sassoso era nudo, maggiore perciò il pericolo di
precipitare, maggiore il pericolo di venire scoperto. Attraversò quel tratto
pian piano, fermandosi spesso, mettendosi carponi. Prima di arrivare a Origa
udì, giù abbasso, un rumor lieve di remi. Sapeva che la barca delle guardie
passava qualche volta la notte alla riva di Val Malghera. Eran le guardie,
certo. Sotto i castagni di Origa respirò. Là era coperto e camminava sull'erba,
senza rumore. Scese la costa occidentale di Val Malghera e risalì dall'altra
parte senza intoppi. Nell'avvicinarsi a Rooch il cuore gli martellava a furia.
Rooch è come un avamposto di Oria. Ivi mette capo la stradicciuola ch'egli
aveva salita tante volte con Luisa nei tepidi pomeriggi invernali, cogliendo
violette e foglie d'alloro, discorrendo dell'avvenire. Si ricordò che l'ultima
volta avevano avuto una piccola disputa sullo sposo desiderabile per Maria,
sulle qualità che dovrebbe avere. Franco avrebbe preferito un agricoltore e
Luisa un ingegnere meccanico.
Rooch è una cascina posta a ridosso di pochi campicelli scaglionati sul
monte che fanno una chiara piccola macchia nella boscaglia. Una stanza sopra,
la stalla sotto, un portichetto davanti alla stalla, una cisterna nel
portichetto; non c'è altro. Il portichetto s'affaccia sulla viottola ciottolata
che passa da due a tre metri più basso. Dal ciglio del burrone di Val Malghera
a Rooch ci son pochi passi. Salito sul ciglio, Franco udì qualcuno parlare
sommessamente nella cascina.
Sostò e, fattosi da banda, si stese bocconi sull'erba fuori del sentiero, lungo
un cespuglietto di castagni. Non udì più parlare, ma udì venire un rapido passo
d'uomo e stette immobile, trattenendo il respiro. L'uomo si fermò quasi accanto
a lui, aspettò un poco, poi ritornò indietro adagio e disse ad alta voce, con
accento forestiero: «Non c'è niente. Sarà stata una volpe».
Le guardie. Seguì un lungo silenzio durante il quale non osò muoversi. Le
guardie ricominciarono a discorrere ed egli si propose d'indietreggiare senza
far rumore, di calarsi da capo in Val Malghera per girare dietro la cascina, in
alto. Si levò adagio adagio le scarpe. Stava per muoversi quando udì le
guardie, tre o quattro, uscire dalla cascina discorrendo e venire verso di lui.
Ne intese una dire: «Non resta qui nessuno?», e un'altra rispondere: «È inutile».
Quattro guardie gli passarono accanto una dopo l'altra senza vederlo. Non
avevan sospetti perché discorrevano di cose indifferenti. Uno diceva che si può
restare sott'acqua dieci minuti senz'affogare, un altro ribatteva che dopo
cinque minuti bisogna morire. La quarta passò in silenzio ma, appena passata,
si fermò; Franco rabbrividì udendola fregar un fiammifero. Quegli accese la
pipa, tirò due o tre boccate di fumo, e poi domandò ai compagni, alquanto forte
perché s'eran già dilungati, scendevan la costa di Val Malghera.
«Quanti anni aveva?»
Uno di coloro rispose, pure forte:
«Tre anni e un mese».
Allora la quarta guardia tirò altre due boccate di fumo e si rimise in
cammino. Franco, che stava bocconi, all'udir «tre anni e un mese», l'età di
Maria, si alzò sulle braccia stringendo l'erba convulsivamente. Il rumor dei
passi si perdeva già in Val Malghera.
«Dio, Dio, Dio, Dio!», diss'egli. Si rizzò ginocchioni, ripeté lentamente
dentro a sé, come istupidito, la parola terribile: «aveva». Si torse le mani,
gemette ancora: «Dio, Dio, Dio, Dio!».
Di quel che fece in seguito non ebbe quasi coscienza. Scese a Oria con la
sensazione vaga d'esser diventato sordo, con un gran tremito nel braccio che
portava la bambola. Arrivò alla Madonna del Romìt, attraversò il paese e invece
di scendere per la scalinata del Pomodoro continuò diritto per il sentiero che
raggiunge la scorciatoia di Albogasio Superiore, discese per la stessa scaletta
che aveva presa la Pasotti il giorno prima della catastrofe. Vide sulla faccia
della chiesa un chiaror debole che usciva dalla finestra dell'alcova, non si
fermò sotto la finestra illuminata, non chiamò, entrò nel sottoportico e spinse
l'uscio.
Era aperto.
Entrò dal fresco della notte in un'afa pesante, in un odore strano di aceto
bruciato e d'incenso. Si trascinò a stento su per le scale. Davanti a lui, sul
pianerottolo a mezza scala, veniva lume dall'alto. Giunto là vide che la luce
usciva dalla camera dell'alcova. Salì ancora, mise il piede sul corridoio.
L'uscio della camera era spalancato; molti lumi dovevano arder là dentro.
Sentì, con l'odor d'incenso, odor di fiori, fu preso da un tremito violento,
non poté avanzare. Dalla parte della cucina si udiva qualcuno dormire, dalla
parte dell'alcova non si udiva niente. A un tratto la voce di Luisa parlò,
tenera, quieta: «Vuoi che venga anch'io, domani, dove vai tu, Maria? La vuoi la
tua mamma, in terra con te?». «Luisa! Luisa!», singhiozzò Franco. Si trovarono
nelle braccia l'uno dell'altro, sulla soglia della loro camera nuziale che
aveva la memoria degli amori ancor viva e il dolce lor frutto, morto.
«Vieni, caro, vieni vieni», diss'ella e lo trasse dentro.
Nel mezzo della camera, fra quattro ceri accesi, giaceva nella bara aperta,
sotto un cumulo di fiori recisi e languenti come lei, la povera Maria. Erano
rose, vainiglie, gelsomini, begonie, gerani, verbene, frondi fiorite di olea
fragrans, e altre frondi non fiorite, egualmente scure, egualmente lucenti: le
frondi del carrubo già tanto caro a lei perché tanto caro al suo papà. Fiori e
frondi erano sparsi anche sul viso.
Franco s'inginocchiò singhiozzando: «Dio, Dio, Dio!», mentre Luisa prese due
roselline, le pose in una manina di Maria e poi la baciò sulla fronte.
«Tu puoi baciarla sui capelli», diss'ella. «Sul viso no. Il dottore non vuole.»
«Ma tu? Ma tu?»
«Oh, per me è un'altra cosa.»
Egli posò invece le labbra sulle labbra gelide che trasparivano tra le
foglie di carrubo e fiori di geranio. Ve le posò lievemente, come per un addio
tenero, non disperato, alla veste caduta e vuota della diletta creatura sua
partita per altra dimora.
«Maria, Maria mia», sussurrò fra i singhiozzi, «che cosa è stato?»
Egli non aveva inteso affatto che il primo discorso delle guardie sugli
annegati avesse un nesso col secondo.
«Non lo sai?», gli chiese la moglie senza sorpresa, pacatamente.
Gliel'avevano detto com'era stato telegrafato; ma ella sapeva pure che Ismaele
doveva recarsi a Lugano per incontrarvi Franco e ignorava che Ismaele, arrivata
la posta dal Ceneri senza nessuno, era andato a dormire.
«Povero Franco!», diss'ella baciandolo sul capo, quasi maternamente. «Non
c'è mica stata malattia.»
Egli si rizzò in piedi, esclamò atterrito: «Come? Non c'è stata malattia?»
La persona che Franco aveva udito dormire, la Leu, entrò in quel momento per
far suffumigi, vide Franco, rimase sbalordita. «Va'», le disse Luisa, «posa il
fuoco lì fuori, mettici quel che vuoi e poi va in cucina, dormi, povera Leu.»
Quella obbedì.
«Non c'è stata malattia?», ripeté Franco.
«Vieni», gli rispose sua moglie, «ti racconterò tutto.»
Lo fece sedere sulla dormeuse, a piè del letto matrimoniale. Egli la voleva
accanto a sé. Ella gli fe' segno di no, di non insistere, di tacere,
d'aspettare, e sedette a terra presso la sua creatura, incominciò il racconto
doloroso con voce piana, eguale, indifferente, quasi, al dramma che diceva, con
una voce simile a quella della sorda Pasotti, che pareva venire da un mondo
lontano. Prese le mosse dall'incontro con la Bianconi in Campò e disse, sempre
con la stessa calma, tutti i pensieri, tutti i sentimenti che l'avevan portata
ad affrontare la nonna, disse i fatti sino al momento in cui s'era convinta che
Maria non aveva più vita. Quand'ebbe finito s'inginocchiò a baciar la sua morta
e le sussurrò: «Il tuo papà ha in mente che t'ho uccisa io, adesso, ma non è
vero, sai, non è vero».
Egli si alzò, tutto vibrante di una commozione senza nome, si chinò sopra di
lei, la raccolse da terra, non renitente né abbandonantesi, con mani risolute e
riguardose, se la collocò vicina sulla dormeuse, le cinse con un braccio le
spalle, la strinse a sé, le parlò sui capelli, bagnandoli di poche lagrime
ardenti che a quando a quando gli rompevan la voce: «Povera Luisa mia, no, non
l'hai uccisa tu. Come vuoi che io pensi questa cosa? Oh, no, cara, no. Io ti
benedico, invece, per tutto che hai fatto per lei da quando è nata. Io che non
ho fatto niente, ti benedico, te che hai fatto tanto. Non dir più, non dir più
quella cosa! La nostra Maria...» Un violento singhiozzo gli ruppe le parole, ma
subito l'uomo, con forte volere, si vinse, continuò: «Non sai cosa dice la
nostra Maria in questo momento? Dice: mamma mia, papà mio, adesso siete soli,
ciascuno di voi non ha che l'altro, siate uniti più che mai, donatemi a Dio
perché mi ridoni a voi, perché io sia il vostro angelo e vi conduca un giorno a
Lui e stiamo insieme per sempre. La senti, Luisa, che dice così?».
Ella fremeva nelle sue braccia, scossa da sussulti violenti, col viso basso,
resistendo a Franco che glielo voleva alzare. Finalmente gli prese in silenzio
una mano e gliela baciò. Egli pure, allora, la baciò sui capelli. Poi gli
sussurrò: «Rispondimi».
«Tu sei buono», rispose Luisa con voce accorata e debole, «tu hai pietà di
me ma non pensi quello che tu dici. Tu devi pensare che la causa della sua morte
sono io, che se avessi seguito i tuoi sentimenti, le tue idee, non sarei uscita
di casa, e se non uscivo di casa non succedeva niente, Maria sarebbe viva.»
«Lascia star questo, lascia star questo. Tu potevi credere che Maria fosse
in camera o con la Veronica, tu potevi rimanere in sala con gli sposi e la
disgrazia sarebbe successa ugualmente. Non pensar più a questo, Luisa. Ascolta
invece quello che ti dice Maria.»
«Povero Franco! Poveretto, poveretto!», disse Luisa, con un'amarezza di
sottintesi paurosi, da far gelare il sangue. Franco tacque, tremando, non
valendo a immaginare cosa ella pensasse, eppure temendo udirlo. Si sciolsero
lentamente dalla loro stretta, Luisa per la prima. Ella riprese però la mano di
suo marito, volle accostarsela da capo alle labbra. Franco trasse teneramente a
sé quella di lei, tentò un'ultima parola:
«Perché non mi vuoi rispondere?»
«Ti farei troppo male», diss'ella, sottovoce.
Egli ebbe il senso di una irreparabile rovina nell'anima di lei e tacque.
Non ritirò la mano ma si sentì mancare ogni forza, invader da uno scuro, da un
gelo, come se Maria, chiamata inutilmente, fosse morta una seconda volta.
L'angoscia, la stanchezza, l'afa, i misti odori della camera poterono tanto
sopra di esso che dovette uscire per non venir meno.
Andò in loggia. Le finestre erano aperte; l'aria pura, fresca, lo rianimò.
Pianse, al buio, la sua figliuola, senza ritegno, senza nemmeno quel ritegno
che vien dalla luce. S'inginocchiò ad una finestra, s'incrociò le braccia sul
petto, pianse, col viso al cielo, lagrime e parole a flutti, parole incomposte
di strazio e di fede ardente, chiamando Dio in aiuto, Dio, Dio che lo aveva
colpito. E glielo disse, a Dio, con la piena delle lagrime, che gli permettesse
di piangere ma che sapeva bene perché la bambina era morta. Non aveva egli
tanto pregato che il Signore la salvasse dal pericolo di perdere la fede stando
con sua madre? Ah quella sera, quella ultima sera che Maria gli aveva detto
«papà mio, un bacio» e tante altre tenerezze e non voleva lasciar la sua mano,
come come aveva pregato! Era un terrore, una gioia, uno spasimo di ricordarlo.
«Signore, Signore», diss'egli verso il cielo, «Tu tacevi e mi ascoltavi, Tu mi
hai esaudito secondo le tue vie misteriose, Tu hai preso il mio tesoro con Te,
ella è sicura, ella gode, ella mi aspetta, Tu ne congiungerai!» Non fu amaro il
dirotto pianto in cui le parole morirono. Ma dopo, pensando ancora quest'ultima
sera, gli fu amarissimo di esser partito senza dirlo a Maria, di averla
ingannata. «Maria, Maria mia», supplicò piangendo, «perdonami!» Dio, come gli
pareva impossibile che tutto questo fosse vero, come gli pareva di andar
nell'alcova, di doverla trovar là, dormente nel suo lettino, con la testa
piegata sulle spalle e le manine aperte abbandonate sulle lenzuola, con le
palme in su! E invece vi era, sì, ma!... Oh che cosa! non poteva, non poteva
essere fine al pianto.
Venne la Leu col lume e gli portò il caffè. L'aveva mandata la signora. Egli
ebbe un movimento di tenera gratitudine per sua moglie. Dio, povera Luisa, che
infelicità nera la sua! E quali spaventose apparenze di castigo per lei nel
colpo che le piombava sopra in quel momento, proprio in quel momento! Lo aveva
ben compreso, lei, ch'egli doveva pensar così e lo pensava davvero e aveva
negato per pietà, sì, per pietà com'ella aveva inteso pure. E queste spaventose
apparenze di castigo non frutterebbero dunque niente? Ella si separava da Dio
più che mai, chi sa fino a qual punto. Povera, povera Luisa! Non era da pregar
per Maria, Maria non ne aveva bisogno, era da pregar per Luisa, da pregar dì e
notte, da sperar nelle preghiere dell'animetta cara, nascosta in Dio.
Egli parlò con la Leu, abbastanza calmo, si fece raccontar da lei tutto che
aveva veduto, tutto che aveva udito della cosa terribile. «La voreva propi el
Signor la Soa tosetta», disse la Leu per ultimo. «Bisoeugnava vedèlla in gièsa,
cont i so manitt in crôs cont el so bel faccin seri. La somejava on angiol tal
e qual! Propi.» Poi domandò a Franco se desiderasse tener il lume. No,
preferiva star allo scuro. E il funerale, a che ora si farebbe? La Leu credeva
che si farebbe alle otto. La Leu, quando cominciava a discorrere, non smetteva
facilmente e forse aveva anche paura di starsene soletta in cucina: «El so
papà!», diss'ella ancora prima di andarsene. «El so car papà! L'è forsi minga
vott dì che son vegnüda chì a portagh di castegn a la sciora e sta cara
tosetta, che la parlava inscì polito, propi come on avocàt, la fa: "Sai,
Leu, presto il mio papà viene a Lugano e io vado a trovarlo". Ciào, l'è
ona gran roba!»
Lagrime e lagrime. Ah Iddio aveva preso la bambina per toglierla agli errori
del mondo, Iddio aveva punito Luisa degli errori suoi ma non era disegnato
l'orribile castigo anche per lui? Non aveva egli colpe? Oh sì, quante, quante!
Ebbe la chiara visione di tutta la propria vita miseramente vuota di opere,
piena di vanità, mal rispondente alle credenze che professava, tale da renderlo
responsabile dell'irreligiosità di Luisa. Il mondo lo giudicava buono per le
qualità di cui non aveva merito alcuno, essendo nato con esse; tanto più severo
sentiva sopra di sé il giudizio di Dio che molto gli aveva dato e frutto non ne
aveva colto. S'inginocchiò da capo, si umiliò sotto il castigo, nella desolata
contrizione del cuore, nell'ardor di espiare, di purificarsi, di farsi degno
che Iddio lo ricongiungesse con Maria.
Pregò e pianse a lungo a lungo, poi uscì sulla terrazza. Il cielo imbiancava
sopra la Galbiga e le montagne del lago di Como; veniva giorno. Dal nero Boglia
imminente soffiavano le tramontane fredde. Da vicino e da lontano, a riva di
lago e nell'alto grembo della valle, si levaron suoni di campane. L'idea che
Maria e la nonna Teresa erano insieme, felici, salì al cuore di Franco
spontanea, chiara e soave. Gli parve che il Signore gli dicesse: ti addoloro ma
ti amo, aspetta, confida, saprai. Le campane suonavano da vicino e da lontano,
a riva di lago e nell'alto grembo della valle, il cielo diventava più e più
bianco sopra la Galbiga, verso il lago di Como, lungo l'erto profilo nero del Picco
di Cressogno; e le distese dell'acqua piana prendevano laggiù in levante, fra
le grandi ombre dei monti, un chiaror di perla. Le frondi della passiflora,
tocche dalle tramontane, ondulavano silenziosamente sopra il capo di Franco,
agitate dall'aspettazione della luce, della gloria immensa che scendeva in
oriente colorando di sé nuvoli e sereno, salutata dalle campane.
Vivere, vivere, operare, soffrire, adorare, ascendere! La luce voleva
questo. Portarsi via i vivi tra le braccia, portarsi via i morti nel cuore,
ritornare a Torino, servir l'Italia, morir per lei! Il nuovo giorno voleva
questo. Italia, Italia, madre cara! Franco giunse le mani in uno slancio di
desiderio.
Anche Luisa udì le campane. Non avrebbe voluto udirle, non avrebbe voluto
che venisse giorno mai più, che venisse l'ora di ceder Maria alla terra.
Inginocchiata presso il corpicino della sua creatura le promise che ogni
giorno, finché avesse vita, sarebbe venuta a parlarle, a portarle fiori, a
tenerle compagnia, mattina e sera. Poi sedette, affondò nei pensieri cupi che
non aveva voluto dire al marito, cresciuti e maturati in lei nel corso di
ventiquattr'ore come una maligna infezione assorbita da lungo tempo, rimasta
inerte per lungo tempo, colta, un dato momento, dalla corrente del sangue,
divampata con fulminea violenza.
Tutte le sue idee religiose, la sua fede nell'esistenza di Dio, il suo
scetticismo circa la immortalità dell'anima tendevano a capovolgersi. Ella era
convinta di non essere affatto in colpa della morte di Maria. Se realmente
esisteva una Intelligenza, una Volontà, una Forza padrona degli uomini e delle
cose, la mostruosa colpa era sua. Questa Intelligenza aveva freddamente
disegnato la visita della Pasotti e il suo dono, aveva allontanato da Maria le
persone che potevano custodirla in assenza della madre, l'aveva tratta senza
difesa nelle sue insidie feroci, e uccisa. Questa Forza aveva fermato lei, la
madre, proprio nel momento in cui stava per compiere un atto di giustizia.
Stupida lei che aveva prima creduto nella Giustizia Divina! Non v'era Giustizia
Divina, vi era invece l'altare alleato del Trono, il Dio austriaco, socio di
tutte le ingiustizie, di tutte le prepotenze, autore del dolore e del male,
uccisore degl'innocenti e protettore degl'iniqui. Ah s'egli esisteva, meglio
che Maria fosse tutta lì, in quel corpo, meglio che nessuna parte di lei
cadesse, sopravvissuta, nelle mani della sua Onnipotenza malvagia!
Ma era possibile dubitare che quest'orribile Iddio esistesse. E se non
esistesse si potrebbe desiderare che una parte dell'essere umano continuasse a
vivere, non miracolosamente, ma naturalmente, oltre la tomba. Ciò era forse più
facile a concepire, che la esistenza di un tiranno invisibile, di un Creatore
feroce contro le proprie creature. Meglio la signoria della Natura senza Dio,
meglio un padrone cieco ma non nemico, non deliberatamente cattivo. Certo non
bisognava pensare più in alcun modo né in questa vita né in una vita futura, se
vi fosse, al fantasma vano, Giustizia.
La fioca luce dell'alba si mesceva a' suoi pensieri come a quelli di Franco,
solenne e consolante per lui, odiosa per lei. Egli, cristiano, pensava una
insurrezione di collera e d'armi contro fratelli in Cristo per l'amore di un
punto sopra un minimo astro dei cieli; ella pensava una ribellione immensa, una
liberazione dell'Universo. Il pensiero di lei poteva parere più grande,
l'intelletto di lei poteva parere più forte; ma Colui che meglio è conosciuto
dalle generazioni umane quanto più ascendono nella civiltà e nella scienza;
Colui che consente venire onorato da ciascuna generazione secondo il poter suo
e che gradatamente trasforma ed alza gl'ideali dei popoli, servendosi per il
governo della terra, nel tempo opportuno, anche degl'ideali inferiori e
perituri; Colui ch'essendo la Pace e la Vita sofferse venir chiamato il Dio
degli eserciti, aveva impresso il segno del Suo giudizio sul viso della donna e
sul viso dell'uomo. Mentre l'alba si accendeva in aurora, la fronte di Franco
venivasi irradiando di una luce interiore, gli occhi suoi ardevano, fra le
lagrime, di vigor vitale: la fronte di Luisa sempre più si oscurava, le tenebre
salivano in fondo a' suoi occhi spenti.
Al levar del sole una barca comparve alla punta della Caravina. Era
l'avvocato V. che veniva da Varenna alla chiamata di Luisa.
|