La sera di quello stesso giorno una conversazione fiorita si raccolse nella
sala rossa della marchesa. Pasotti vi portò seco a forza la sua disgraziata
moglie e quasi a forza il signor Giacomo Puttini riluttante invano ai capricci
dispotici del Controllore gentilissimo. Vennero pure il curato di Puria e il
Paolin, curiosi di veder l'effetto della tragedia di Oria sulla vecchia faccia
di marmo. Il Paolin trascinò seco il buon Paolon, mollemente riluttante anche lui
come un pecorone. Venne il curato di Cima, devoto alla marchesa, venne il
prefetto della Caravina, tutto, in cuor suo, per Franco e Luisa, obbligato,
come parroco di Cressogno, a certi riguardi verso la loro nemica.
Costei accolse tutti col solito viso impassibile, col solito flemmatico
saluto. Si fece sedere accanto, sul canapè, la signora Barborin alla quale il
padrone aveva proibito il menomo accenno ai casi di Oria, si lasciò ossequiare
dagli altri, fece le solite domande al Paolin e al Paolon circa le rispettive
loro dame e soddisfatta d'aver appreso che la Paolina e la Paolona stavano
bene, incrociò le mani sul ventre e tacque dignitosamente in faccia al
semicerchio de' suoi cortigiani. Pasotti, non vedendo Friend, s'informò subito
di lui con ossequiosa premura: «E 'l Friend? Poer Friend!» benché se lo avesse
avuto nelle granfie, solus cum solo, quel brutto diavolaccio ringhioso che
sciupava i calzoni a lui e le sottane a sua moglie, lo avrebbe strozzato con
gioia. Friend era infermo da due giorni. Tutta la brigata si commosse e lamentò
il caso con la segreta speranza che il maledetto mostro fosse per crepare. La
Pasotti vedendo tante bocche parlare, tante facce diventar contrite, e non
udendo una parola, suppose che si discorresse di Oria, si rivolse al Paolon suo
vicino, lo interrogò con gli occhi, spalancando la bocca, indicando col dito la
direzione di Oria. Il Paolon le fece segno di no. «Parlen del cagnoeu»,
diss'egli. La sorda non intese, fece «ah!» e prese, a caso, un'aria compunta.
Friend mangiava troppo e troppo bene, soffriva d'una malattia schifosa. Il
Paolin e il curato di Puria diedero premurosi consigli. Il prefetto della
Caravina aveva espresso altrove la temperata opinione che fosse da buttarlo nel
lago con la sua padrona al collo. Mentre si parlava con tanto interesse della
bestia di casa, egli pensava a Luisa stravolta, livida, come l'aveva vista la
mattina, quando s'era opposta come una forsennata, prima alla chiusura della
bara, poi al trasporto, e quando nel cimitero aveva gettato lei con le sue
proprie mani la terra sulla sua bambina, dicendole d'aspettarla e che sarebbe
presto discesa a giacer con lei e che quello doveva essere il loro paradiso.
Se si parlava con interesse del rognoso Friend, i fantasmi della bambina
morta e della madre disperata erano però nella sala. Quando nessuno seppe più
che dire del cane e vi ebbe un momento di silenzio, i due fantasmi squallidi
furono uditi da tutti domandar che si parlasse di loro; e ciascuno li vide
negli occhi della persona che li amava, la sorda Pasotti. Suo marito cercò
subito una diversione, propose al signor Giacomo un problema di tarocchi. Uno
scartante che ha tre cartine, tutte figure, una dama e due cavalli, e ha pure
il matto, cosa deve fare? Scartare la dama e un cavallo o i due cavalli? Il
signor Giacomo si mise a soffiare a tutto vapore, gonfiando le gote rosse e il
cravattone bianco: «Apff! No. Controllore gentilissimo, no, La me dispensa. Da
le dame no digo ma dai cavai mi son stà sempre lontan. Apff!». Gli altri
tarocchisti raccolsero in fretta il problema, i fantasmi non furono più uditi e
ciascuno respirò.
Erano le nove. Alle nove, di solito, il cameriere entrava con due candele
accese e apparecchiava il tavolino del tarocco in un angolo della sala, fra il
gran camino e il balcone di ponente. Allora la marchesa si alzava e diceva con
la sua flemma sonnolenta:
«Se creden».
I due o tre presenti rispondevano «sem chì» e incominciava l'entro in tre o
la partita in quattro.
Il vecchio cameriere, affezionatissimo a don Franco, esitò, quella sera, a
portare i lumi. Non gli pareva possibile che la padrona e i signori avessero il
coraggio di giuocare. Alle nove e cinque minuti, non vedendolo entrare,
ciascuno commentò il ritardo fra sé. Il Paolin, prima di entrar in casa, aveva
sostenuto contro il prefetto che non si sarebbe giuocato. Egli guardò
trionfante il suo avversario e lo guardò pure il Paolon compiacendosi, per una
solidarietà di Paoli, che avesse ragione il Paolin. Pasotti, che si era tenuto
sicuro di giuocare, cominciò a dar segni d'inquietudine. Alle nove e sette
minuti, la marchesa pregò il prefetto di suonare il campanello. Quegli restituì
al Paolin l'occhiata trionfante e vi aggiunse tutto il muto disprezzo per la vecchia,
che poté.
«Apparecchiate», diss'ella al cameriere.
Questi entrò poco dopo con le due candele. Anche in fondo agli occhi suoi
crucciosi si vedeva il fantasma della bambina morta. Mentr'egli disponeva sul
tavolino le candele, le carte da giuoco e i gettoni d'avorio, si fece nella
sala quel silenzio di aspettazione che soleva precedere l'alzarsi della
marchesa. Ma la marchesa non diede segno di volersi alzare. Si voltò a Pasotti
e gli disse:
«Controllore, se desideran giuocare Loro...»
«Marchesa», rispose Pasotti, pronto, «la presenza di mia moglie non deve
impedirle di fare la Sua partita. Barbara giuoca male ma si diverte moltissimo
a guardare.»
«Stasera non giuoco», rispose la marchesa. La voce era molle ma il no era
duro.
Il buon Paolon, che taceva sempre e non sapeva giuocare a tarocchi, credette
aver finalmente trovato una parola ossequiosa e savia da metter fuori.
«Già!», diss'egli.
Pasotti lo guardò in cagnesco, pensò: «cosa c'entra lui?», ma non osò
parlare. La marchesa non parve accorgersi della scoperta del Paolon e
soggiunse:
«Posson giuocare Loro».
«Mai più!», esclamò il prefetto. «Neanche per sogno!»
Pasotti levò di tasca la tabacchiera. «Il signor prefetto», diss'egli
facendo spiccare le sillabe e alzando un poco la mano aperta con una presa tra
il pollice e l'indice, «parla per sé. Per parte mia, se la signora marchesa lo
desidera, son pronto a soddisfare il suo desiderio.»
La marchesa tacque e il focoso prefetto, incoraggiato da quel silenzio,
borbottò a mezza voce:
«È un lutto di famiglia, infine».
Da quando Franco era uscito di casa il suo nome non era mai stato
pronunciato nelle conversazioni serali della sala rossa, la marchesa non aveva
mai fatto allusione a lui né a sua moglie. Ella ruppe adesso il silenzio di
quattro anni.
«Mi rincresce per la creatura», diss'ella, «ma per suo padre e sua madre è
un castigo di Dio.»
Tutti tacquero. Dopo alcuni minuti, Pasotti disse a voce bassa, in tono
solenne:
«Fulmineo».
E il curato di Cima soggiunse più forte:
«Evidente».
Il Paolin ebbe paura di tacere e di parlare, fece «ma!» e allora il Paolon
osservò: «Proprio!». Il signor Giacomo soffiò.
«Un castigo di Dio!», ripeté con enfasi il curato di Cima. «E anche, date le
circostanze, un segno della Sua protezione sopra qualche altra persona.»
Tutti, meno il prefetto che si rodeva, guardarono la marchesa come se la
Mano protettrice dell'Onnipotente fosse sospesa sopra la sua parrucca. Invece
quella Mano Divina stava sopra il cappellone della Pasotti e le teneva ben
chiusi gli orecchi onde non avessero a penetrarvi contaminatrici parole
d'iniquità. «Curato», disse Pasotti, «poiché la signora marchesa lo propone,
facciamo una partitina? Lei, il Paolin, il signor Giacomo e io.»
I quattro che sedettero al tavolino da giuoco si lasciarono subito
dolcemente andare, nel loro angolo, alle comode mollezze della conversazione
sbottonata, alle vecchie barzellette ambrosiane attaccate ai tarocchi come
l'unto. «Hin nanca arrivaa a Barlassina!», esclamò Pasotti dopo la prima
giuocata, ridendo forte per far suonare la sua vittoria e la sua allegria.
Quelli là si erano liberati dai fantasmi; gli altri no.
La sorda, impettita e immobile sul canapè, aveva sofferto angosce mortali
aspettando un gesto del marito che le imponesse di giuocare. Oh Signore,
dovrebbe toccarle anche questa condanna? Per grazia del cielo il gesto non
venne fatto e la sua prima impressione nel veder i quattro prender posto al
tavolino fu di sollievo. Ma poi le riprese subito un disgusto amaro. Che
insulto, quel giuoco, alla sua Luisa, che disprezzo per la povera cara
Ombrettina morta! Nessuno le parlava, nessuno faceva attenzione a lei: ella si
mise a recitare mentalmente una fila di Pater, Ave e Gloria, per la cattiva
creatura seduta all'altro angolo del canapè, tanto vecchia, tanto vicina a
comparire davanti a Dio. Le dedicò la preghiera per la conversione dei
peccatori che soleva dire mattina e sera per suo marito da quando aveva
scoperto certe sue familiarità con una bassa persona di casa.
Il prefetto, a udir gli schiamazzi di Pasotti, si alzò e prese congedo.
«Aspetti», gli disse la marchesa, «di prender un bicchier di vino.» Alle nove e
mezzo soleva capitare una bottiglia preziosa di San Colombano vecchio. «Stasera
non bevo», rispose il prefetto, eroicamente. «Son troppo sottosopra da questa
mattina in poi. Il Puria sa perché.»
«Ma!», fece il Puria, sottovoce. «È stata una gran tragedia, già.»
Silenzio. Il prefetto s'inchinò alla marchesa, salutò la Pasotti con
l'espressione del «c'intendiamo» e partì.
Il curato di Puria, corpo grosso e cervello fino, studiava la marchesa senza
parere. Era ella tocca o no dai fatti di Oria? L'essersi astenuta dal giuoco
gli pareva un indizio dubbio. Poteva averlo fatto per rispetto al proprio
sangue in astratto. Osservandola bene il curato notò che le sue mani tremavano:
cosa nuova. Ella dimenticò di domandare a Pasotti se il vino fosse buono: cosa
nuova. La maschera cerea del viso aveva di tratto in tratto qualche
contrazione: cosa nuovissima. «È tocca», pensò il curato. Siccome ella taceva,
la Pasotti taceva, il Paolon taceva, tutto il gruppo pareva petrificato, cercò
lui di rompere il ghiaccio, non trovò di meglio che voltar quelle teste verso
il tavolino del giuoco e commentare le apostrofi di Pasotti, le proteste del Paolin,
i «no digo» e gli «apff» del signor Giacomo. La marchesa si scosse un poco, si
compiacque di osservare che i giuocatori si divertivano. La Pasotti non udì né
disse mai parola e gli altri tre finirono con parlar di lei. La marchesa si
dolse che fosse tanto sorda, che non si potesse farle un po' di conversazione.
Gli altri due dissero di lei tutto il gran bene che meritava e che dice ancora
chi la ricorda. Ella stava lì malinconica e muta, non sospettando affatto
d'esser il soggetto dei loro discorsi. Il Signore proteggeva la sua profonda,
ingenua umiltà, non le lasciava penetrar negli orecchi le lodi della gente ma
solo le strapazzate del consorte. I suoi grandi, compunti occhi neri si
ravvivarono quando il signor Giacomo pronunciò un gran soffio finale, e i
colleghi, lasciate le carte, si abbandonarono sulle spalliere delle rispettive
seggiole a riposare alquanto, a ruminar il piacere del giuoco. Finalmente il
suo signore si avvicinò al canapè, le fece segno di alzarsi. Per la prima volta
in vita sua, forse, ella fu contenta di salire in barca, con grande meraviglia
del Puria il quale dichiarò che sul lago, di notte, era un «fifone». È vero che
a cento passi da Cressogno l'orrore del lago e delle tenebre la riprese. Pensò
allora con invidia al curato del quale udiva la voce sopra il Tentiòn, fra gli
ulivi. «Addio, fifone!», gridò Pasotti. Il «fifone» non udì. Egli e il Paolin
discorrevano sottovoce ma con gran calore, commentando le parole della
marchesa, del prefetto, di Pasotti, cercando di frugar nel cuore della vecchia,
disputando se vi fossero pietà e rimorsi. Il curato era per il sì, il Paolin
per il no. Il Paolon precedeva con la lanterna mettendo continui,
inintelligibili grugniti. Il Paolin andò poi mordendo tutto che fosse da
mordere, la durezza della marchesa, la malignità di Pasotti, la dabbenaggine di
sua moglie, la cortigianeria del Cima, la temerità del prefetto, le pazzie di
Luisa e di Franco, la debolezza dell'ingegnere Ribera, tante altre colpe di
vivi e di morti. Durezze, debolezze, malignità, ostinazioni, cortigianerie:
dappertutto, secondo lui, c'era in fondo quell'egoismo porco. «Che gran mond
mincion!», fu il suo riassunto finale. «Ch'el senta car el me curat, quand gh'è
quel poo de ris e verz con quel poo de formagg per sora, lassèm pür andà
tüsscoss al diavol che l'è mej.» Dopo una sentenza tanto logica nulla restava
più a dire né a grugnire e la piccola comitiva giunta in capo alla salita
procedette silenziosa per le umide ombre del Campò, nell'odor fresco dei
castagni e dei noci, senz'accorgersi di uno spettro che passava in aria, vôlto
a Cressogno.
Partiti i suoi ospiti, la marchesa suonò il campanello per il rosario che
non s'era potuto dire alla solita ora. Il rosario di casa Maironi era una cosa
viva che aveva le sue radici nei peccati antichi della marchesa e veniva sempre
più sviluppandosi, mettendo nuovi Ave e nuovi Gloria a misura che la vecchia
dama avanzava negli anni e si scorgeva più netto e più visibile a fronte un
teschio schifoso, il proprio. Perciò il suo rosario era lungo assai. I peccati
dolci della protratta gioventù non le pesavano troppo sulla coscienza; ma
qualche grossa furfanteria d'altro genere, misurabile in lire, soldi e denari,
mal confessata e quindi mal perdonabile, le dava una molestia sempre compressa
a furia di rosari e sempre rinascente. Mentre chiedeva al Creditore Grande la
remissione de' suoi debiti le pareva ch'Egli avesse facoltà d'accordarla
intera; invece dopo le si levavano da capo in mente le facce crucciose dei
creditori piccoli, ritornava con esse il dubbio del perdono, e la sua avarizia,
la sua superbia avevano a lottare con il terrore di un carcere perpetuo per
debiti, oltre la tomba.
Recitare le preghiere per la conversione dei peccatori e quelle per la
guarigione degl'infermi, prima di venire ai Deprofundis, annunciò tre Avemarie
nuove secondo la sua intenzione. La guattera, una semplice pia contadina di
Cressogno, suppose che le tre Avemarie fossero domandate per quei poveretti di
Oria e le recitò con tutto lo zelo. Le Avemarie della guattera urtarono e
dispersero quelle della padrona, che chiedevano sonno, riposo di nervi e di
coscienza. Quanto alle Avemarie degli altri, esse furono dette secondo la loro
comune intenzione che non restassero, come troppo spesso accadeva,
definitivamente appiccicate al rosario. Nessuna insomma poté arrestare lo
spettro nel suo cammino.
La marchesa si ritirò verso le undici. Prese dell'acqua di cedro e avendo la
cameriera incominciato a parlare di Oria, di don Franco che si sussurrava
essere arrivato, le impose silenzio. Era tocca, sì. Aveva sempre davanti agli
occhi l'immagine di Maria come l'aveva veduta una volta passando in gondola
sotto la villetta Gilardoni, piccina, con un grembiale bianco, i capelli lunghi
e le braccia nude, stranamente somigliante ad un bambino suo, mortole a tre
anni. Sentiva ella affetto, pietà? Non sapeva ella stessa quello che sentisse.
Forse dispetto e sgomento di non sapersi liberare da una immagine molesta;
forse paura di questo pensiero, che se non fosse stato commesso certo grosso
peccato antico, se il testamento del marchese Franco non fosse stato arso, la
bambina non sarebbe morta.
Come fu a letto si fece leggere altre preghiere dalla cameriera, le ordinò
di spegnere il lume e la congedò. Chiuse gli occhi, cercò di non pensare a
niente, e si vide sotto le palpebre una chiara macchia informe che si venne
disegnando in un guancialetto, poi in una lettera, poi in un gran crisantemo
bianco e poi in un viso supino, morto, che diventava via via più piccolo. Le
pareva già di assopirsi ma per effetto di quest'ultima trasformazione le vibrò
nel cuore il pensiero della bambina, non vide più nulla sotto le palpebre, il
sopore si dileguò ed ella aperse gli occhi, inquieta, malcontenta. Si propose
di pensar una partita di tarocchi per cacciar le immaginazioni moleste e
richiamar il sonno. Pensò ai tarocchi, poté, con uno sforzo, vedersi nella
testa il tavolino da giuoco, i giuocatori, i lumi, le carte; ma quando cessò
dallo sforzo per abbandonarsi ad una visione passiva di questi soporifici
fantasmi, le comparve sotto le palpebre tutt'altra cosa, una testa che cambiava
continuamente lineamenti, espressione, attitudini e che venne per ultimo
lentamente ripiegandosi avanti sopra se stessa come nel sonno o nella morte,
non mostrando più che i capelli. Altra scossa di nervi; la marchesa riaperse
gli occhi e udì l'orologio della scala suonare. Contò le ore: dodici. Già
mezzanotte e non poter dormire! Stette alquanto ad occhi aperti ed ecco adesso
immagini nel buio come prima sotto le palpebre. Cominciavano da un nucleo
informe e si svolgevano continuamente. Si disegnò un quadrante d'orologio, che
diventò un occhio spaventato di pesce, un occhio umano severo. Ad un tratto
venne alla marchesa l'idea che non riuscirebbe a dormire e il sopore già inoltrato
andò rotto da capo. Allora ella suonò il campanello.
La cameriera si fece chiamar due volte e poi venne mezzo svestita,
dormigliosa. L'ordine fu di posar il lume sopra una sedia per modo che dal
letto non si potesse veder la fiamma; di prendere un volume di prediche del
Barbieri e di leggere a mezza voce. La cameriera era abituata a somministrare
questi narcotici. Si pose a leggere e in capo alla seconda pagina, udendo il
respiro della padrona farsi greve, andò pian piano smorzando la voce per un mormorio
inarticolato, fino al silenzio. Aspettò un poco, ascoltò il respiro regolare e
pesante, si alzò a guardar la faccia cupa, supina sul doppio guanciale con le
sopracciglia aggrottate e la bocca semiaperta, prese il lume e si ritirò in
punta di piedi.
La marchesa dormiva e sognava. Sognava di giacer sulla soglia nello stanzone
buio di un carcere, con i ceppi ai piedi, accusata di assassinio. Entrava il
giudice con un lume, sedeva presso a lei e leggeva una predica sulla necessità
della confessione. Ella gli si protestava innocente, ripeteva: «Ma non sa che
si è annegata da sé?». Il giudice non rispondeva, leggeva, leggeva sempre con
voce compunta e solenne, e la marchesa insisteva: «No, non l'ho uccisa». Non
era flemmatica nel sogno, si agitava come una disperata. «Badi», rispondeva il
giudice. «La bambina lo dice.» Egli si alzava in piedi e ripeteva: «Lo dice».
Poi batté forte le mani palma a palma ed esclamò: «Entrate!». Fino a questo
punto la marchesa aveva sentito, sognando, di sognare; qui credette svegliarsi,
vide con orrore che qualcuno era entrato infatti.
Una forma umana debolmente luminosa stava a sedere sulla poltrona ingombra
di vesti, presso il suo letto, sì ch'ella non poteva vedere la parte inferiore
dell'Apparizione. Il busto, le braccia, le mani raccolte insieme avevano un
colore biancastro e contorni alquanto incerti; la testa, appoggiata alla
spalliera, era nitida e circonfusa d'un chiaror pallido. Gli occhi scuri, vivi,
fissavano la marchesa. Che orrore! Era veramente la bambina morta. Che orrore,
che orrore! Gli occhi dell'Apparizione parlavano, lo dicevano. Il giudice aveva
ragione, la bambina lo diceva, senza parole, con gli occhi. «Tu, nonna, tu sei
stata, tu. Io avrei dovuto nascer e vivere nella tua casa. Tu non l'hai voluto.
Sei condannata alla morte eterna.»
Gli occhi soli, i fissi, tristi, pietosi occhi dicevano tutto questo ad un
tempo. La marchesa mise un lungo gemito, stese le braccia verso l'Apparizione,
credendo dir qualche cosa e non riuscendo che a rantolare «ah... ah... ah...»
mentre le mani, le braccia, il busto del fantasma sfumavano in una nebbia, i
contorni del viso illanguidivano e solo rimaneva intenso lo sguardo, che
finalmente pure si velò e rientrò quasi in un lontano e profondo Se stesso,
null'altro rimanendo dell'Apparizione che poca fosforescenza poi assorbita
dall'ombra.
La marchesa si svegliò di soprassalto, ansante, non si ricordò del
campanello, si provò a gridare e non riuscì a metter fuori la voce. Con un
impeto della sua volontà potente ancora nello sfacelo delle forze, cacciò le
gambe dal letto, discese, fece due passi brancolando nel buio, incespicò nella
poltrona, si aggrappò a una sedia, cadde con essa pesantemente sul pavimento,
si mise a gemere.
La cameriera si svegliò al tonfo, chiamò, non ebbe risposta, udì il gemito
e, acceso il lume, accorse, vide nella penombra, tra la sedia e la poltrona,
qualche cosa di bianco e d'enorme che si divincolava sul pavimento come una
bestia mostruosa del mare tirata in secco. Gridò, corse al campanello, svegliò
d'un colpo tutta la casa e si precipitò ad aiutar la vecchia che rantolava: «Il
prete, il prete! Il prefetto, il prefetto!»
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