PARTE TERZA.
Non una ma tre primavere erano passate dopo quell'autunno del 1855 senza la
fioritura d'armi e di stendardi che gl'italiani aspettavano sulle rive del Ticino.
Nel febbraio del 1859 si era sicuri che non sarebbe passata così la quarta.
Grandi avvenimenti, annunciati debitamente da una splendida cometa, erano in
cammino. Correvano nelle viscere del mondo antico fremiti e scricchiolii sordi,
come nelle viscere d'un fiume gelato alla vigilia dello sgelo. Il freddo
mortale, il silenzio pauroso di dieci anni erano per passare portati via in un
fragor d'urti e di rovine da correnti nuove, calde, brillanti. Il Carlascia
faceva lo spaccone e parlava alle sue guardie, che tacevano, di una prossima
passeggiata militare a Torino. Il signor Giacomo Puttini non s'era più riavuto
bene dal colpo di quella mattina, dal tradimento dell'avvocato, dalla fine
tragica del cappellone e dalla fine comica del «marsinon», aveva perduto ogni
stima per i patrioti. Appunto nel febbraio del '59 il Paolin, tedescone, gli
parlava alla farmacia di S. Mamette delle pazze speranze dei liberali. «No,
signor Paolo riveritissimo», gli disse l'ometto. «Mi son nato soto San Marco,
gran santo; go visto i franzesi, bona zente; adesso vedo i tedeschi, lassemo
star, podaria vederghene anca dei altri ma i birbanti, La me creda, i birbanti
no pol trionfar.» Il dottor Aliprandi era già in Piemonte. Un vecchio
sott'ufficiale di Napoleone che abitava a Puria si rimetteva segretamente in
ordine l'uniforme con l'idea di presentarsi all'imperatore dei francesi quando
venisse in Italia. Il curato di Castello, Introini, quando incontrava don
Giuseppe Costabarbieri, gli ricordava la canzone del 1796 che don Giuseppe
aveva tirata fuori nel 1848 e poi nascosta da capo:
Stare nostre crante ulane
Qua fenute d'Ungheria,
Ma franzose crante...!
Fato tuti scappar fia!
E don Giuseppe, tutto spaventato: «Citto, citto, citto!»
Intanto sui pendii di Valsolda fiorivano pacificamente le viole come se
nulla fosse. La sera del venti febbraio Luisa ne portò un mazzolino in
Camposanto. Ella vestiva ancora a lutto, era terrea, macilenta, aveva gli occhi
più grandi e molti fili d'argento in testa. Pareva che dal giorno della sua
sventura fossero passati vent'anni. Uscita dal Camposanto si avviò verso
Albogasio e si accompagnò ad alcune donne di Oria che andavano a dire il
rosario alla parrocchia. Non pareva più lo spettro cupo che aveva posato le
viole sopra la fossa di Maria. Parlò serena, ilare quasi, con l'una e con
l'altra, domandò di una bestia malata, accarezzò e lodò una bambina che andava
al rosario con la nonna, le raccomandò di stare tranquilla in chiesa come
sempre vi stava la sua Maria. Disse questo e nominò Maria quietamente, mentre
quelle donne rabbrividivano e anche stupivano perché adesso Luisa non andava in
chiesa mai. Domandò a una ragazza se i giovanotti pensassero, come al solito,
di recitare, se recitasse anche suo fratello; udito che sì, offerse aiuto per i
costumi. Si accomiatò sul sagrato dell'Annunciata e nello scender soletta la
Calcinera riprese il viso di spettro.
Andava a Casarico, dai Gilardoni, sposi da tre anni. La felicità del
professore, la sua adorazione per Ester vorrebbero un poema. Lo zio Piero
diceva di lui ch'era diventato ebete. Ester temeva che diventasse ridicolo e
non gli permetteva, quando c'era gente, di prender davanti a lei certe pose
estatiche. La sola persona per la quale non valesse questa proibizione era
Luisa. Ma di Luisa il Gilardoni aveva un certo riguardo; ella era sempre per
lui un essere sovrumano; al rispetto per la persona s'era aggiunto il rispetto
per il dolore e in presenza di lei egli teneva sempre un contegno riguardoso.
Da due anni, circa, Luisa andava a casa Gilardoni quasi ogni sera e, se qualche
cosa poteva turbare la pace degli sposi, erano queste visite.
Esse avevano infatti un motivo strano e antipatico a Ester; ma Ester aveva
un tale affetto per l'amica sua, una tale pietà della sua sventura e si sentiva
fitto nel cuore un tal rammarico di non aver fatto più attenzione a Maria nel
giorno terribile, che non osava opporsi risolutamente ai desideri di lei né
distogliere suo marito dall'accondiscendervi. Espresse a Luisa la sua
disapprovazione, la pregò di volere almeno tener segreto ciò che faceva di sera
nello studio del professore; non andò più oltre. Il professore, invece, sarebbe
stato felice di questi convegni ma soffriva del dispiacere di Ester.
Era già notte quando Luisa suonò alla porticina di casa Gilardoni. Fu Ester
che le aperse. Luisa non rispose al suo saluto che le parve imbarazzato, la
guardò soltanto e quando fu nel salottino terreno dove Ester soleva passar le
sue serate, l'abbracciò tanto appassionatamente che l'altra si mise a piangere.
«Abbi pazienza», le disse Luisa. «Non mi resta che questo». Ester si provò a
confortarla, a dirle che si avvicinava per lei un tempo migliore, la riunione
con suo marito. Fra pochi mesi la Lombardia sarebbe libera, Franco ritornerebbe
a casa. E allora... allora... Potrebbero succedere tante cose... Potrebbe
ritornare anche Maria! Luisa diede un balzo, le afferrò le mani. «No!»,
diss'ella. «Non dire questa cosa! Mai! mai! Son tutta sua! Son tutta di Maria!»
Ester non poté replicare perché, frettoloso e sorridente, entrò il professore.
Egli vide che sua moglie aveva gli occhi bagnati di lagrime e che Luisa
pareva sovreccitata. Salutò mogio mogio e sedette in silenzio accanto a Ester,
immaginando che avessero parlato del solito argomento spiacevole a sua moglie.
Questa avrebbe voluto mandarlo via, riprendere il discorso con Luisa, ma non
osò farlo. Luisa fremeva contro quella immagine di futuro pericolo che di
quando in quando le si era affacciata confusamente all'anima, che aveva sempre
cacciata con orrore prima di considerarla, e che ora, per le parole dell'amica
sua, le risorgeva davanti scoperta e netta. Dopo un lungo, penoso silenzio,
Ester sospirò e le disse sottovoce:
«Va' pure, sai. Andate pure».
Luisa ebbe un impeto di gratitudine, s'inginocchiò davanti all'amica sua, le
posò il capo in grembo. «Sai», diss'ella, «io non credo più in Dio. Prima
credevo che ci fosse un Dio cattivo, adesso non credo più che esista; ma se vi
fosse il Dio buono nel quale credi tu, non potrebbe condannare una madre che ha
perduto la sua unica figliuola e cerca persuadersi che una parte di lei vive
ancora!»
Ester non rispose. Quasi ogni sera, da due anni, suo marito e Luisa
evocavano la bambina morta. Il professore Gilardoni, strano miscuglio di libero
pensatore e di mistico, aveva letto con moltissimo interesse le cose
meravigliose che si raccontavano delle sorelle americane Fox, degli esperimenti
di Eliphas Levi, aveva seguito il movimento spiritista propagatosi rapidamente
in Europa come una mania che prendeva le teste e le tavole. Ne aveva parlato a
Luisa, e Luisa, invasa, acciecata dall'idea di poter sapere se la sua bambina
esistesse ancora e, posto che esistesse, di aver qualche comunicazione con lei,
non vedendo altro in tutto il meraviglioso dei fatti e lo strano delle teorie
che questo punto lucente, lo aveva supplicato di tentar qualche esperimento con
Ester e con lei. Ester non credeva in fatto di soprannaturale che alla dottrina
cristiana. Non pigliò quindi la cosa sul serio e acconsentì subito a posar le
mani sopra un tavolino insieme all'amica e al marito, il quale, dal canto suo,
mostrava un gran zelo, una gran fede di riuscire. I primi esperimenti non
riuscirono. Ester, molto annoiata, avrebbe voluto che si rinunciasse a
continuare; ma una sera il tavolino, dopo venti minuti di aspettazione, si
chinò lentamente da un lato alzando un piede in aria, si riabbassò, tornò ad
alzarsi, con grande sgomento di Ester, con gran gioia del professore e di
Luisa. La sera dopo bastarono cinque minuti a farlo muovere. Il professore
gl'insegnò l'alfabeto e tentò un'evocazione. Il tavolino rispose battendo il
piede a terra secondo l'alfabeto suggeritogli. Lo spirito evocato diede il suo
nome: Van Helmont. Ester tremava di paura come una foglia, il professore
tremava di commozione, voleva far sapere a Van Helmont che aveva in biblioteca
le sue opere, ma Luisa lo scongiurò di chiedergli dove fosse Maria. Van Helmont
rispose: «Vicina». Allora Ester, pallida come un cadavere, si alzò protestando
che non voleva continuare. Né le suppliche né le lagrime di Luisa valsero a
persuaderla. Era peccato, era peccato! Ester non aveva un sentimento religioso
profondo, ma paura del diavolo e dell'inferno sì, molto. Per parecchio tempo
non fu possibile ricominciare le sedute. Ella ne aveva orrore e suo marito non
osava contraddirla. Fu Luisa che a forza di scongiuri ottenne una transazione.
Le sedute ricominciarono ma Ester non vi prese parte più.
Non volle neanche sapere cosa vi accadesse. Solamente, quando vedeva sua
marito preoccupato, distratto, gli gittava un'allusione crucciosa alle pratiche
segrete dello studio. Allora egli si affliggeva, offriva di desistere, ed era
Ester che si sentiva debole di fronte a Luisa. Poiché, indirettamente, aveva
capito che Luisa credeva di comunicare con lo spirito della bambina. Ella le
aveva detto una volta: «Domani sera non vengo perché Maria non vuole». E
un'altra volta: «Vado a Looch perché Maria vuole un fiore dalla Nonna». A Ester
pareva incredibile che una testa lucida e forte come quella si smarrisse così.
Comprendeva in pari tempo la difficoltà immensa di persuaderla con le buone e
la crudeltà di opporsele con le cattive.
Il professore accese una candela e salì, seguito da Luisa, nello studio. Noi
conosciamo lo studiolo simile a una cabina di bastimento, con gli scaffali
pieni di libri, il caminetto, la finestra che guarda il lago, la poltrona dove
Maria s'era addormentata la notte di Natale. Adesso v'era di più, fra il
caminetto e la finestra, un piccolo tavolino rotondo con un sol piede
tripartito a un palmo da terra.
«Mi rincresce molto», disse il Gilardoni, entrando, «di far tanto dispiacere
a Ester.» Posò il lume sulla scrivania e invece di disporre, secondo il solito,
il tavolino e le sedie, andò a guardar dalla finestra il chiaror vago
dell'acqua e dei cielo nelle ombre della notte. Luisa rimase immobile e subito
egli si voltò bruscamente come avesse sentito per virtù magnetica l'angoscia di
lei. Gliela vide spaventosa in faccia, intese ch'ella lo credeva risoluto di
troncare mentre ne aveva solamente avuta la tentazione e le prese, commosso, le
mani, le disse che Ester era tanto buona, che l'amava tanto, che né lui né lei
avrebbero mai voluto recarle volontariamente un'afflizione. Luisa non rispose
ma il professore durò fatica a impedire che gli baciasse la mano. Mentre egli
collocava in mezzo alla stanza il tavolino e le due sedie, ella sedette sulla
poltrona, come oppressa.
«Ecco», fece il professore.
Luisa si levò di tasca e gli tese una lettera.
«Ho tanto bisogno di Maria e di Lei, stasera!», diss'ella
«Legga, è di Franco. Può cominciare dalla quarta pagina.» Il professore non
intese queste ultime parole, si accostò al lume e lesse ad alta voce:
Torino, 18 febbraio 1859.
Luisa mia,
Sai che non mi hai scritto da quindici giorni?
«Questo lo può saltare», interruppe Luisa, ma poi si corresse. «No, legga
pure, è meglio.» Il professore continuò:
Ecco la terza lettera che io ti mando dopo ricevuta la tua del 6. Sono stato
forse, nella prima, troppo vivace e ti ho ferita. Benedetto temperamento il
mio, che non solo mi fa dire parole troppo vivaci quando il sangue mi si
riscalda, ma me le fa anche scrivere! E benedetto sangue che a trentadue anni
suonati si riscalda come a ventidue! Perdonami, Luisa, e permettimi di
ritornare sull'argomento onde riprendermi quelle parole che hanno potuto
offenderti.
Adesso non si discorre più né di tavolini né di spiriti, non si discorre che
di diplomazie e di guerra; ma gli anni scorsi se ne parlò moltissimo e
parecchie persone che io stimo e onoro ci credevano. Di alcune so positivamente
che erano illuse ma non ho mai dubitato, quando mi riferivano conversazioni
avute con gli spiriti, della loro buona fede. Pare che l'immaginazione,
eccitata, possa far udire e vedere come reale ciò che non è. Ma io voglio
credere che nel tuo caso non v'inganni l'immaginazione, che il vostro tavolino
si muova e si esprima davvero come dici. Ho avuto torto di metter questo in
dubbio, lo confesso, poiché tu sei talmente sicura di non ingannarti e poiché
conosco abbastanza l'onestà del professor Gilardoni. Ma vi è poi per me una
questione di sentimento. Io so che la mia dolce Maria vive con Dio, io ho la
speranza di andare un giorno, con altre anime a me care, dov'ella è. Se mi
comparisse spontaneamente, se udissi, senz'averla chiamata, il suono della sua
voce viva e vera, forse non potrei sopportare una gioia così grande; chiamarla,
costringerla di venire non vorrei mai. Mi ripugna, è contrario a quel senso di
venerazione che ho per un Essere tanto più vicino a Dio di me. Anch'io, Luisa,
parlo al nostro tesoro ogni giorno, le parlo di me e anche di te, sapendo che
ci vede, che ci ama, che potrà molto ancora, in questa vita stessa, sopra di
noi. Tali vorrei pure i colloqui tuoi con essa; e se rispondendo alla lettera
in cui alludevi a una comunicazione di lei mi sono espresso con acerbità,
perdonami in grazia non solamente del mio cattivo carattere ma delle idee
altresì e dei sentimenti che sono come parte della mia natura.
Perdonami pure in grazia della sovreccitazione immensa in cui si vive qui.
La mia gola sta bene; da quando si parla di guerra ho gittato canfora e acqua
sedativa, ma i nervi sono tesi straordinariamente, mi par che a toccarli dieno
scintille. Questo viene anche dall'intenso lavoro che abbiamo al Ministero, dove
non c'è più orario e chi più gode fiducia, sia pure un segretariucolo, più deve
sgobbare. Quando ebbi questo posto dalla bontà del conte di Cavour, mi pareva
di mangiare il pane dello Stato a tradimento. Adesso non è così ma sto per
togliermi a questo gran lavoro e ciò mi conduce a un altro discorso che ho nel
cuore da un pezzo e che adesso ti faccio con una commozione indicibile.
Fra otto giorni i miei amici ed io ci arruoliamo nell'esercito come
volontari per la durata della campagna; Si entra nel 9° fanteria che ha il
deposito a Torino. Qui al Ministero si vorrebbe trattenermi ancora ma io
intendo di trovarmi istruito al reggimento quando entrerà in campagna e ho
solamente preso l'impegno di non lasciar l'ufficio che un giorno prima di
arruolarmi.
Luisa, sono tre anni e quasi cinque mesi che non ci vediamo. Vero che tu sei
sorvegliata dalla Polizia e che ti è proibito di venire a Lugano; però io ti ho
proposto più volte più modi di venirmi a incontrare segretamente almeno al
confine, sulla montagna, e tu non mi hai risposto. Ho creduto indovinare che tu
non ti sapessi allontanare neppure per poco tempo da un luogo sacro. Mi pareva
troppo e ti confesso che ne provai un'amarezza molto profonda! Poi mi pentivo,
mi pareva d'essere egoista, ti assolvevo. Adesso, Luisa, le circostanze sono
mutate. Non ho cattivi presentimenti, mi par impossibile di aver a restare
sopra un campo di battaglia, ma impossibile non è. Prenderò parte ad una guerra
che si annuncia tra le più grosse, tra le più lunghe e disperate, perché se
l'Austria ha in giuoco le sue provincie italiane, noi, e forse anche
l'imperatore Napoleone, abbiamo in giuoco tutto. Si dice che passeremo
l'inverno venturo sotto Verona. Luisa, io non voglio correre il pericolo di
morire senz'averti riveduta. Ho ventiquattr'ore sole, non posso venire al
confine né a Lugano, né mi può bastare di star con te dieci minuti! Fatti
portare a Lugano, in qualche modo, da Ismaele la mattina del 25 corr. Parti da
Lugano in tempo di essere a Magadino per il tocco poiché da Luino non puoi
passare. A Magadino piglierai il battello che parte di là circa al tocco e
mezzo. Scenderai circa alle quattro a Isola Bella dove, presso a poco alla
stess'ora, arriverò anch'io da Arona. L'Isola Bella, a questa stagione, è un
deserto. Vi passeremo la sera insieme e ripartiremo la mattina, tu per Oria, io
per Torino.
Scrivo allo zio Piero per chiedergli perdono se gli tolgo un giorno della
tua compagnia.
Maggior male non temo. Anche gli austriaci non pensano che alle armi, la
loro Polizia si lascia sfuggire migliaia di giovani che vengono a prenderle
qui. Sarebbero terribili all'indomani di una vittoria ma quel giorno, per essi,
viva Dio! non verrà.
Luisa, è possibile ch'io non ti trovi all'Isola Bella, che tu creda far
piacere a Maria non venendo? Ma non sai, la mia Maria, la mia povera piccina,
se le avessero detto corri a salutar il tuo papà che forse va a morire come...
La voce del lettore oscillò, si ruppe, mancò in un singhiozzo. Luisa si
nascose il viso fra le mani. Egli le posò la lettera sulle ginocchia e disse a
stento: «Donna Luisa, può avere un dubbio?»
«Sono cattiva», rispose Luisa sottovoce, «sono matta.»
«Ma non gli vuol bene?»
«Alle volte mi pare tanto e alle volte niente.»
«Dio mio!», fece il professore. «Ma adesso? Non La commuove l'idea che
potrebbe non vederlo mai più?»
Luisa tacque; parve che piangesse. Balzò improvvisamente in piedi
stringendosi le tempie fra le mani, piantò in viso al professore due occhi dove
non erano lagrime ma invece una luce sinistra di corruccio. «Ella non sa»,
esclamò, «cosa c'è nella mia testa, che cumulo di contraddizioni, quante idee
opposte che si combattono e prendono continuamente il luogo l'una dell'altra!
Quando ho ricevuto la lettera ho pianto tanto, mi son detta: "sì, povero
Franco, stavolta vado", e poi ecco una voce che mi dice qui nella fronte:
"no, non devi andare perché... perché... perché...".»
Luisa s'interruppe e il professore, spaventato da bagliori di pazzia negli
occhi che lo fissavano, non osò chiedere spiegazioni. Gli occhi strani sempre
fissi ne' suoi vennero raddolcendosi, velandosi. Luisa gli prese le mani, gli
disse piano, timidamente: «Domandiamo a Maria».
Sedettero al tavolino, vi posarono le mani su. Il professore voltava le
spalle al lume che batteva sul viso di Luisa. Il tavolino era nell'ombra. Dopo
undici minuti di silenzio profondo il professore mormorò: «Si muove».
Infatti il tavolino si andava lentamente inclinando da un lato. Ricadde e
batté un piccolo colpo. Il viso di Luisa s'illuminò.
«Chi sei?», disse il professore. «Rispondi col solito alfabeto.»
Il tavolino batté diciassette colpi, poi quattordici, poi diciotto, poi uno.
«Rosa», disse il professore, piano. Rosa era il nome di una sorellina di sua
moglie, morta nell'infanzia, e il tavolino aveva battuto parecchie altre volte
questo nome. «Va'», ripeté il Gilardoni, «mandaci Maria.»
Il tavolino si rimise tosto in movimento e batté queste parole:
«Son qui. Maria.»
«Maria, Maria, Maria mia!», sussurrò Luisa con un'espressione, in viso, di
beatitudine.
«Conosci», disse il Gilardoni, «la lettera che tuo padre ha scritto a tua
madre?»
Il tavolino rispose:
«Sì».
«Cosa deve fare tua madre?»
Luisa tremava da capo a piedi, aspettando. Il tavolino rimase immobile.
«Rispondi», fece il professore.
Il tavolino si mosse e batté un miscuglio incomprensibile di lettere.
«Non abbiamo capito. Ripeti.»
Il tavolino non si mosse più. «Ripeti dunque!», fece il professore quasi
bruscamente. «No!», supplicò Luisa. «Non insista, non insista! Maria non vuol
rispondere!»
Ma il professore voleva insistere. «Non è possibile», diceva, «che lo
spirito non risponda. Lei lo sa, ci è successo altre volte di non intendere
quel che dice.»
Luisa si alzò agitatissima, dicendo che piuttosto di costringere Maria era
contenta d'interrompere la seduta. Il professore rimase meditabondo al proprio
posto. «Zitto!», diss'egli.
Il tavolino si moveva, ricominciò a batter colpi.
«Sì», esclamò il Gilardoni, raggiante. «Ho domandato col pensiero s'Ella
deve andare e il tavolino ha risposto "sì". Ridomandi lei ad alta
voce.»
Cinque o sei minuti passarono prima che il tavolino si rimettesse in moto.
Alla domanda di Luisa «debbo andare?» batté prima tredici colpi poi
quattordici. La risposta era «no».
Il professore impallidì e Luisa lo interrogò con lo sguardo. Egli rimase
lungamente muto, poi rispose sospirando:
«Potrebbe non essere Maria. Potrebb'essere uno spirito di menzogna».
«E come si può sapere?», fece Luisa ansiosamente.
«Impossibile. Non si può sapere.»
«Ma e le altre comunicazioni, dunque? Non vi è certezza mai?»
«Mai.»
Ella tacque, atterrita. Poi sussurrò: «Doveva essere così. Doveva mancarmi
anche questo».
E posò la fronte sul tavolino. Il lume della candela batteva sui capelli,
sulle braccia, sulle mani di lei. Ella non si moveva, nulla si moveva nella
camera, tranne la fiammella oscillante della candela. Un'altra fiammella, un
ultimo lume di speranza e di conforto stava morendo nella povera testa caduta
sotto il colpo d'un dubbio amaro e invincibile. Che poteva fare, che poteva dire
il Gilardoni? Egli vedeva prossimo a compiersi, non per opera sua, il desiderio
di Ester. Tre o quattro minuti dopo si udirono passi al piano inferiore e la
voce di Ester. Luisa, lentamente, si alzò.
«Andiamo», diss'ella.
«Bisognerebbe forse pregare», osservò il Gilardoni, senza muoversi.
«Bisognerebbe forse domandare agli spiriti se confessano Cristo.»
«No no no no no», fece sottovoce Luisa, negando, anche con la mano,
ostilmente. Il professore prese la candela in silenzio.
Ritornando a Oria Luisa salì al cancello del Camposanto. Vi appoggiò la
fronte, gittò verso la fossa di Maria un soffocato addio e ridiscese. Giunta
sul sagrato andò ad affacciarsi al parapetto, guardò giù il lago addormentato
nell'ombra. Stette lì alquanto lasciando andar il pensiero per la sua china.
Posò i gomiti sul parapetto, si piegò, si appoggiò il viso alle mani sempre
guardando l'acqua, l'acqua che aveva preso Maria. Il suo pensiero veniva
pigliando una forma precisa non dentro a lei ma laggiù nell'acqua. Essa lo
considerò. Morire, finire. Lo conosceva, lo aveva veduto ancora questo pensiero
guardando nell'acqua così, molto tempo addietro, prima di cominciare le
evocazioni col professore. Poi era scomparso. Adesso ritornava. Era un pensiero
dolce e pietoso, pieno di riposo e di abbandono, pieno di pace. Faceva bene di
starlo a guardare poiché anche la fede negli spiriti era perduta. Morire,
finire. L'altra volta molto aveva potuto contro il fascino dell'acqua la
immagine del vecchio zio. Ora poteva meno. Lo zio era caduto, dalla morte di
Maria in poi, in un mutismo quasi completo che Luisa attribuiva a un principio
di apatia senile. Ella non aveva capito come nell'animo del vecchio vi fossero
insieme al dolore disapprovazioni profonde; quanto lo urtassero le quotidiane
ripetute visite al cimitero e i fiori e le gite misteriose a Casarico e, sopra
tutto, l'abbandono completo della chiesa. Se non fosse stata così presa dalla
sua morta, avrebbe potuto intender meglio lo zio almeno in quest'ultimo punto
della chiesa, perché adesso il vecchio silenzioso ci andava lui, in chiesa, più
di prima, tornava col cuore alla religione di suo padre e di sua madre
praticata sinora freddamente, per abitudine, per ossequio alle tradizioni di
casa. Pareva a Luisa ch'egli fosse diventato alquanto ottuso e che se ai
bisogni suoi fosse provveduto non gli occorrerebbe altro. Per le cure materiali
v'era la Cia e le risorse che bastavano per tre meglio avrebbero bastato per
due. Luisa credette veder l'acqua salire un palmo. E Franco? Franco si
desolerebbe, piangerebbe per qualche anno e poi sarebbe più felice. Franco
aveva il segreto di consolarsi presto. L'acqua parve salire un altro palmo.
Nello stesso momento in cui ella s'era affacciata al parapetto, Franco,
passando in via di Po davanti a San Francesco di Paola, aveva veduto lumi e
udito l'organo. Era entrato. Appena detta una preghiera, il pensiero dominante
lo aveva ripreso, il suono dell'organo gli si era trasformato in un fragore di
trombe, di tamburi e d'armi e, mentre un canto di pace si levava sull'altare, a
lui era parso caricar con furore il nemico. A un tratto si vide in mente
l'immagine di Luisa vestita a lutto, pallida. Si mise a pensare a lei, a
pregare per lei con fervore intenso.
Allora là sul sagrato di Oria ella sentì un freddo, un'uggia, un mancar
della tentazione. Volle richiamarla e non poté. L'acqua ridiscendeva. Una voce
intima le disse: e se il professore si è ingannato? Se non è vero che il
tavolino abbia risposto prima di si e poi di no? Se non è vero di questi
spiriti menzogneri? Si tolse dal parapetto e sali, a passi lenti, in casa.
Trovò lo zio in cucina, seduto sotto la cappa del camino, con le molle in
mano e col bicchiere di latte accanto. La Cia e la Leu cucinavano.
«Dunque», disse lo zio, «sono andato alla Ricevitoria. Il Ricevitore è a
letto con l'itterizia, ma ho parlato col Sedentario.»
«Di che cosa, zio?»
«Di Lugano, della tua andata a Lugano il 25. Mi ha detto che chiuderà un
occhio e che passerai.»
Luisa tacque, stette a guardar il fuoco meditabonda. Poi diede certi ordini
alla Leu per l'indomani e pregò lo zio di venire in salotto con lei.
«Cosa serve?», diss'egli con la solita semplicità. «Non avrai gran segreti.
Stiamo qui che c'è il fuoco.»
La Cia accese il lume. «Usciremo noi», diss'ella.
Lo zio fece la sua solita smorfia di compassione per le altrui sciocchezze
ma tacque, bevve il suo bicchier di latte e lo porse silenziosamente a Luisa.
Luisa prese il bicchiere e disse piano:
«Non ho ancora deciso».
«Cosa?», fece lo zio bruscamente. «Cosa non hai deciso?»
«Se andrò all'Isola Bella.»
«Euh! Che diavolo?»
Lo zio Piero non la poteva neanche intendere una cosa simile.
«E perché non andresti?»
Ella rispose con tranquillità, come se dicesse una cosa ovvia:
«Ho paura di non poter lasciare Maria».
«Ah senti!», fece lo zio. «Siediti là.»
Le additò il sedile in faccia, sotto la cappa del camino, lasciò le molle e
disse con quella sua voce grave, onesta voce del cuore:
«Cara Luisa, hai perso la bussola».
E alzate le braccia con un «euh!» profondo, le lasciò ricadere sulle
ginocchia.
«Persa!», diss'egli. Stette un poco in silenzio, a capo chino, porgendo le
labbra con un brontolio di parole in formazione, che poi uscirono.
«Cose che non avrei mai creduto! Cose che paiono impossibili. Ma quando»
(così dicendo rialzò il capo e guardò Luisa in faccia) «si comincia a perderla,
la bussola, l'è fatta. E tu, cara, hai cominciato a perderla da un pezzo.»
Luisa trasalì.
«Eh sì!», esclamò lo zio a gola piena. «Hai cominciato a perderla da un
pezzo. Ed è questo che volevo dirti. Senti: mia madre ha perso dei figli, tua
madre ha perso dei figli, ho visto tante madri perdere dei figli e nessuna
faceva come te. Ci vuol altro, siamo tutti mortali e dobbiamo accettare la
nostra condizione. Si rassegnavano. Ma tu, no. E questo cimitero! E queste due,
tre, quattro visite al giorno! E questi fiori, e cosa so io, oh povero me! E
anche queste scempiaggini che fai a Casarico con quell'altro povero imbecille,
che voi credete farle in segreto e tutti ne parlano, persino la Cia! Oh povero
me!»
«No, zio», disse Luisa tristemente ma tranquillamente. «Non dir queste cose.
Non puoi capire.»
«Siamo intesi», rispose lo zio con tutta l'ironia di cui era capace. «Non
posso capire. Ma poi ce n'è un'altra. Tu non vai più in chiesa. Io non ti ho
mai detto niente perché in queste cose il mio principio è stato sempre di
lasciar fare a ciascuno quel che crede; ma quando ti vedo perdere, dirò così,
il buon senso e anche il senso comune, non posso a meno di farti riflettere che
se si voltano le spalle a Domeneddio, si fanno di questi guadagni. Adesso poi
questa idea di non voler andare a vedere tuo marito, in circostanze simili,
passa tutti i limiti.» «Vuol dire», riprese dopo una breve pausa, «che ci andrò
io.»
«Tu?», esclamò Luisa.
«Perché no? Io, sì. Contavo di accompagnarti ma, se non vieni, andrò solo.
Andrò a dire a tuo marito che hai perduto la testa e che spero di andar presto
anch'io a trovar la povera Maria.»
Mai nessuno aveva udito dal labbro dello zio Piero una parola tanto amara.
Fosse questo, fosse l'autorità dell'uomo, fosse il nome di Maria pronunciato
così, Luisa fu vinta.
«Andrò», diss'ella. «Ma tu devi restar qui.»
«Niente affatto», rispose lo zio contento. «Sono quarant'anni che non vedo
le Isole. Approfitto dell'occasione. E chi sa che non mi arruoli in cavalleria,
io?»
«E così», disse la Cia a Luisa dopo che lo zio era andato a letto. «Vuol
proprio partire anche il mio padrone? Cara lei, per amor del Cielo, non glielo
permetta!»
E le raccontò che due ore prima egli aveva stralunato gli occhi e piegata la
testa sul petto; che chiamato da lei non aveva risposto; che poi si era riavuto
e che alle premurose domande di lei era andato in collera protestando di non
aver avuto male, di aver sentito solo un po' di sonno. Luisa l'ascoltava in
piedi, col lume in mano, con gli occhi vitrei, divisa fra l'attenzione alle
parole che udiva e qualche altro pensiero assai diverso, assai lontano, dallo
zio, dalla casa, dalla Valsolda.
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