La luce veniva meno, nello studio di Giovanni Selva, sul tavolino ingombro
di libri e di carte. Giovanni si alzò, aperse la finestra di ponente.
L’orizzonte ardeva, dietro il prossimo Subiaco, sulla obliqua fuga dei monti
Sabini che da Rocca di Canterano e Rocca di Mezzo vanno verso Rocca San
Stefano. Subiaco, l’aguzza catasta di case e casupole grigie che si appunta
nella Rocca del Cardinale, si era velata di ombra; non si moveva fronda degli
ulivi affollati a tergo della villetta rossa dalle persiane verdi, ritta in testa
dello scoglio tondo cui la pubblica via cinge al piede; non si moveva fronda
della gran quercia pendente al suo fianco, sopra il piccolo oratorio antico di
S. Maria della Febbre. L’aria, odorata d’erbe selvagge e di pioggia recente,
spirava fresca da Monte Calvo. Erano le sette e un quarto. Nella conca bella
che l’Aniene riga le campane suonarono; prima la grossa di Sant’Andrea, poi le
querule di Santa Maria della Valle e in alto, a destra, dalla chiesetta bianca
presso la grande macchia, quelle dei Cappuccini, poi altre ancora, lontane. Una
femminile voce sommessa, soave, una voce di venticinque anni, disse dall’uscio
socchiuso alle spalle di Giovanni, quasi timidamente, in francese:
«Posso venire?»
Giovanni si volse a mezzo, sorridendo, stese un braccio, raccolse e strinse
a sé la giovine signora senza rispondere.
Ella sentì che non doveva parlare, che suo marito seguiva con l’anima la
luce moribonda e il canto mistico delle campane. Gli piegò il capo sull’omero e
solo dopo un minuto di silenzio religioso, gli disse piano:
«Diciamo la nostra preghiera?»
Una stretta del caro braccio le rispose. Né le labbra di lei né quelle di
lui si apersero. Soltanto gli occhi dell’una e dell’altro ingrandirono
aspirando all’Infinito, si colorarono di riverenza e di tristezza, dei pensieri
che non si dicono, dell’incerto futuro, delle porte oscure che mettono a Dio.
Le campane tacquero e la signora Selva pose negli occhi del marito gli azzurri
suoi, avidi, gli porse la bocca. La testa canuta dell’uomo e la bionda della donna
si congiunsero in un lungo bacio che avrebbe fatto stupire il mondo. Maria
d’Arxel si era innamorata a ventun’anno di Giovanni Selva per averne letto un
libro di filosofia religiosa, tradotto in francese. Scrisse all’ignoto autore
parole tanto calde di ammirazione che Selva le rispose accennando ai suoi
cinquantasei anni e ai suoi capelli bianchi La signorina replicò che sapeva,
che non offriva né chiedeva amore, che avrebbe soltanto desiderato qualche rigo
di tanto in tanto. Le sue lettere lucevano d’ingegno infuocato. Giunsero a
Selva mentr’egli si dibatteva in una oscura crisi, in una lotta amarissima che
non accade raccontare qui. Pensò che questa Maria d’Arxel poteva essere una
stella di salute. Le scrisse ancora.
«Sai che anniversario è oggi » disse Maria. «Ti ricordi?»
Giovanni ricordava; era l’anniversario del loro primo incontro. Le due anime
si erano rivelate l’una all’altra, nella corrispondenza, sino al fondo, con
indicibili ardori di sincerità; e le persone non si erano vedute che nei
ritratti. Sin dalla quarta o dalla quinta lettera scambiata, Giovanni aveva
chiesto alla signorina sconosciuta il suo; attesa, temuta domanda. La signorina
consentì a patto di riavere tosto la fotografia, e spasimò fino a che non le
giunse di ritorno con parole dolcissime dell’amico rapito dalla giovanilità
intellettuale, appassionata, del viso di lei, dalla dolcezza degli occhi
grandi, dalla eleganza del busto. Poi, quando si erano accordati d’incontrarsi,
venendo lui dal lago di Como e lei da Bruxelles, a Hergyswyl, presso Lucerna,
erano state febbri di terrori per l’uno e per l’altra. Ella pensava:
«Il ritratto piacque, ma le movenze della persona vera, una linea, un colore
delle vesti, il modo dell’incontro, le parole prime, il tono della voce possono
forse distrugger d’un colpo il suo amore.»
Egli pensava:
«Conosce il mio viso guasto dagli anni, i miei capelli bianchi, li ama nei
ritratti ma ogni giorno più mi sciupa, forse al vedermi questo incredibile
amore cadrà di un colpo.»
Egli era giunto a Hergyswyl qualche ora prima di lei col piroscafo; ella,
partita il mattino da Basilea, vi era arrivata nel pomeriggio con la
Brünigbahn.
«Sai» soggiunse Maria «quando non ti vidi alla stazione il mio primo
sentimento fu di piacere; tremavo tanto! Il secondo no, il secondo fu di
terrore.»
Giovanni sorrise.
«Questo non me lo hai mai raccontato» diss’egli.
La giovine moglie lo guardò, sorrise alla sua volta.
«Anche tu, forse, non mi hai detto proprio tutto tutto di quei momenti.»
Giovanni le prese il collo fra le mani, le mormorò all’orecchio:
«Vero.»
Ella trasalì, rise di aver trasalito; e Giovanni rise con lei.
«Cosa, cosa?» diss’ella, rossa in viso, malcontenta e tuttavia ridente. Suo
marito le sussurrò ancora, in tono di grande mistero:
«Che avevi il cappello in disordine.»
«No, non è vero! Non è vero!»
Scintillante di riso e fremente insieme all’idea di un gran pericolo corso
senza saperlo, ella protestò che non era possibile, che si era tanto guardata,
prima di arrivare a Hergyswyl, nello specchietto del suo nécessaire.
E riandarono insieme scherzando, baciando ella spesso il petto di lui ed
egli i capelli di lei, ogni momento di quell’ora passata da due anni. Giovanni
non l’aveva attesa alla stazione dov’era una folla di villeggianti, ma pochi
passi lontano, sulla via dell’albergo. L’aveva veduta venire, alta, snella, con
una piccola fronda in seno di olea fragrans, il segno convenuto; le era
andato incontro a capo scoperto, si erano stretta la mano forte forte, senza
parlare. Egli aveva fatto cenno al portiere, che seguiva con la valigia della
viaggiatrice, di precederli. Poi si erano incamminati adagio, stretti alla gola
da una emozione senza nome. Ell’aveva sussurrato per la prima, con la sua voce
dolce e fine di dama:
«Mon ami.»
Allora egli aveva parlato sommessamente, con parole rotte, della sua
ebbrezza, del suo amore, del suo rapimento, e non si era poi accorto di avere
oltrepassato l’albergo e per ben due volte né l’una né l’altro avevano udito il
portiere chiamarli alle spalle: «Monsieur! Madame! C’est ici!
C’est ici!» Poi la viaggiatrice era salita nella sua camera, sorridente,
ma pallida di stanchezza e di mal di capo. Giovanni aveva ripreso a passeggiare
fra gli orti e i frutteti piani di Hergyswyl, a caso, respirando da uomo
spossato per l’eccesso del sentire, benedicendo ogni sasso e ogni foglia del
verde angolo di terra straniera, il lago che gli dorme in seno, la folla, in
faccia, delle grandi religiose montagne, benedicendo Iddio che gli aveva
donato, alla sua età, un tale amore. Ed era ritornato presto, troppo presto,
all’albergo. I due soli ospiti del piccolo albergo in quel giorno di maggio, un
vecchio professore tedesco e sua figlia, erano saliti al Pilato. Nel salottino
di lettura non c’era nessuno. In quel salottino Maria e Giovanni avevano
passato due ore felici, tenendosi per mano, parlando a bassa voce, palpitando
spesso di paura che qualcuno entrasse.
«Ti ricordi» disse Maria «che nel salottino, di fianco al canapè dove
eravamo seduti, ci stava un caminetto?»
«Sì, cara.»
«E che faceva freddo benché fosse maggio, tanto che un cameriere è venuto ad
accendere il fuoco?»
«Sì, e mi ricordo che allora ti ho fatto piangere.»
«Potresti ripeterla oggi, quella cosa?»
«Oh no!»
Così dicendo, Giovanni baciò riverente la bianca fronte della donna sua come
una cosa santa. Quando a Hergyswyl il cameriere era venuto ad accendere il
fuoco nel salottino, Giovanni aveva lasciato la mano diletta e, indugiandosi
colui, aveva detto: «il vecchio ceppo brucierà bene sino alla fine, ma chi sa
quanto possa durare la vampa giovine?» Maria non aveva risposto, lo aveva
guardato con occhi dilatati, offuscati nel freddo tocco dell’ingiusto sospetto,
come vetri di una serra infocata nel tocco del gelo esterno.
No, Giovanni non aveva mai più pensata una cosa simile. Si dicevano spesso,
egli e Maria, che non v’era forse sulla terra un’altra unione come la loro,
altrettanto piena e penetrata di pace per la sicurezza solennemente grave e
dolce che, comunque Iddio avesse a disporre le esistenze loro dopo la morte,
certo l’uno e l’altro spirito sarebbero stati congiunti nell’amore della Divina
Volontà. Però non lasciavano di confidare al Signore il sospiro dell’anima. La
preghiera che avevano dianzi pregata insieme contemplandola nel proprio interno,
era stata composta da Giovanni e diceva così:
«Padre, sia di noi come pregò Gesù l’ultima sera; una vita con Esso in Voi,
per l’eternità.» Eran due e uno anche in presente, nel senso più stretto ed
esatto della parola, perché pure nella loro unità spirituale si vedeva la
dualità; come a una corrente cerulea talvolta si confonde una corrente verde e
nel primo lor fluire commisto balenano qua e là rotte ondate color di bosco,
rotte ondate color di cielo. Giovanni era un mistico che di ogni amore umano si
faceva in cuore un’armonia col divino. Sua moglie, venuta per lui dal
protestantesimo a un cattolicismo assetato di ragione, gli si era infusa quanto
aveva potuto nell’anima mistica; ma in lei l’amore di Giovanni soverchiava ogni
altro sentimento. Ella era ricca, egli agiato; vivevano tuttavia quasi
poveramente, per aver modo di liberalità larghe, l’inverno in Roma, dall’aprile
al novembre in Subiaco, nella modesta villetta di cui avevano appigionato il
secondo piano. Non spendevano abbondantemente che in libri e nella
corrispondenza. Giovanni preparava un’opera sulle ragioni della morale
cristiana. Sua moglie leggeva per lui, scriveva sunti, pigliava note.
«Mi piacerebbe tanto andare a Hergyswyl, l’anno venturo» diss’ella. «Vorrei
che tu vi scrivessi l’ultimo capitolo del libro, il capitolo della Purità!»
Giunse le mani, così dicendo, felice nella visione del paesello appiattato
fra i meli in fondo al piccolo golfo, del lago sereno, delle grandi montagne
religiose, di giorni tranquilli dati al lavoro e alla contemplazione in pace.
Conosceva tutto il disegno dell’opera di suo marito e la tesi di ogni capitolo
con i suoi principali argomenti.
Il capitolo della Purità le piaceva più di tutti, per la forte trama
razionale. Suo marito intendeva porvi e sciogliervi questo problema:
«Perché il Cristianesimo esalta come un elemento di perfezione umana la
rinuncia che contraddice alle leggi della Natura, che travaglia l’uomo di lotte
fierissime senza giovare a nessuno, che a possibili vite umane chiude la via
dell’esistere?» La risposta doveva discendere dallo studio del fenomeno morale
nelle sue origini storiche e nel suo sviluppo, cui erano dedicati i primi
capitoli dell’opera. Selva vi dimostrava con l’esempio de’ bruti che si
sacrificano per la prole o per i compagni del branco e sono talvolta capaci di
unioni strettamente monogamiche, come nella natura animale inferiore lo stimolo
morale si palesi e si venga sviluppando in antagonismo con gli stimoli
dell’istinto corporeo. Egli vi sosteneva l’ipotesi che si elaborasse così
progressivamente nelle specie inferiori la coscienza umana. Si proponeva ora di
rifarsi da queste conclusioni e determinare il principio generale che la
rinuncia al piacere corporeo per una soddisfazione di ordine superiore
significa sforzo della specie verso una superiore forma di esistenza. Avrebbe
quindi esaminato il fatto straordinario di quegl’individui umani che agli
stimoli del piacere corporeo, grandemente ringagliarditi per la complicità
dell’intelligenza e della immaginazione col senso, contrappongono energie di
rinuncia più forti ancora, senz’altro obbietto che di onorare la Divinità.
Avrebbe dimostrato che parecchie religioni ne forniscono esempi, che la
rinuncia vi è glorificata, che resta però sempre un atto libero dell’individuo.
Avrebbe riconosciuto che sarebbe atto biasimevole e stolto se non rispondesse a
un misterioso impulso della stessa natura, dell’elemento detto spirituale che
persiste nell’antico antagonismo con gli stimoli dell’istinto corporeo per
effetto di una legge cosmica. Inconscii collaboratori di Colui che governa
l’Universo, gli eroi della rinuncia suprema si credono di onorarlo col semplice
sacrificio, mentre incarnano in fatto, giusta il Divino Disegno, la energia
progressiva della specie, preparano al proprio elemento spirituale il potere di
crearsi una forma corporea superiore, più simile ad esso; onde la purità loro è
perfezione umana, è altezza in cui la natura nostra culmina e tocca i nebulosi
principii d’una ignota natura sovrumana.
«Se io penso alla Purità incarnata» disse Giovanni «mi vedo davanti don
Clemente. Ti ho detto che viene alla riunione di stasera? Scenderà subito dopo
cena.»
Maria trasalì. «Oh! » diss’ella, «e io che dimenticavo! Mi ha scritto Noemi.
Partiva da Milano ieri, con i Dessalle. Si fermano a Roma forse un paio di
giorni e poi vengono.»
«Te ne sei ricordata perché ho nominato don Clemente» disse Giovanni
sorridendo.
«Sì» rispose sua moglie «ma però, sai che non credo.»
L’alta fronte, gli occhi azzurri di don Clemente tanto sereni e puri, come avrebbero
conosciuta la passione? Anche nella voce soffice, sommessa, quasi timida del
giovane benedettino era, secondo Maria, un troppo delicato pudore, un candore
troppo virgineo.
«Non credi» replicò Giovanni «e forse avrai ragione, forse non sarà Maironi.
Però stasera converrà pure fargli sapere, in qualche modo, che questa signora
Jeanne Dessalle sta per venire a Subiaco e che visiterà, naturalmente, i
Conventi. È anche il Padre foresterario, lui; dovrebbe accompagnarla.»
Di questo non c’era dubbio. Lo avvertirebbe lei, Maria. Poiché non lo
credeva l’amante della Dessalle, le sarebbe più facile di parlargliene con
semplicità. Che cosa terribile, però, se fosse veramente lui, Maironi, e
nessuno l’avvertisse e si trovassero improvvisamente a fronte del monastero,
egli e questa donna! Era certo, Giovanni, che il frate venisse alla riunione?
Sì, n’era certissimo. Don Clemente ne aveva ottenuto il permesso dal Padre
Abate, stando lui, Giovanni, al monastero; e gliel’aveva detto subito. Verrebbe
e condurrebbe seco quel garzone ortolano di cui gli aveva parlato, per
farglielo conoscere. Così un’altra volta l’ortolano verrebbe solo e
gl’insegnerebbe a rincalzar le patate nel campicello dietro la villa che
Giovanni aveva pure preso in affitto per lavorarlo con le proprie mani. Questa
del lavoro manuale era una piccola mania di Giovanni, venutagli tardi, che
dispiaceva un poco a Maria, parendole cosa non più conveniente alle sue
abitudini, alla sua età. La rispettava, però, e tacque. In quel momento la
ragazza di Affile che li serviva entrò ad avvertire che quei signori stavano
salendo la scala, e che la cena sarebbe pronta subito.
Tre persone salivano infatti per la scaletta a chiocciola del villino.
Giovanni scese loro incontro. Il primo era il suo giovane amico di Leynì, che
si scusò, salutandolo, di precedere i compagni, due ecclesiastici.
«Sono il cerimoniere» diss’egli. E li presentò lì sulla scala:
«Il signor abate Marinier, di Ginevra. Don Paolo Farè, di Varese, che Lei
conosce già di nome.»
Selva rimase un po’ perplesso ma poi si affrettò a far salire i suoi
visitatori, li avviò alla terrazza dov’erano già disposte delle sedie.
«E Dane?» diss’egli, inquieto a di Leynì, pigliando a braccetto.«E il
professor Minucci? E il padre Salvati?»
«Sono qui» rispose il giovine sorridendo. «Sono all’Aniene. Le
racconterò, è tutta una storia, verranno subito»
Intanto l’abate Marinier esclamava uscendo sulla terrazza:
«Oh, c’est admirable!»
E don Paolo Farè, da buon comasco, mormorava:«sì, bello, bello,» col tôno
discreto di chi pensa:«Ma se vedeste il mio paese!».
Sopraggiunse Maria, si rinnovarono le presentazioni e di Leynì raccontò la
sua storia, mentre Marinier girava i piccoli occhi scintillanti per il
paesaggio, dalla piramide di Subiaco, quinta fosca del chiaro sfondo di
ponente, ai prossimi carpineti selvaggi del Francolano che serra, scuro e
grande, il levante.
Don Farè divorava con gli occhi Selva, l’autore di scritti critici sul
Vecchio e Nuovo Testamento, e particolarmente di un libro sulle basi della
futura teologia cattolica, che avevano innalzata e trasfigurata la sua fede. La
storia del barone di Leynì era che alla stazione di Mandela tirava un gran
vento, che il professore Dane temeva forte di esservisi buscata
un’infreddatura, che sospettando di non trovare cognac in casa di un
odiatore dell’alcool come il signor Selva, ed essendo anche l’ora in cui soleva
pigliare ogni giorno due uova, s’era fermato all’Albergo dell’Aniene per
avere le uova e il cognac; che sulla terrazza della trattoria, verso il
fiume, c’era troppa aria e negli stanzini attigui troppa poca; che si era fatto
servire il suo pasto in una camera dell’albergo e aveva rimandato le uova due
volte; che loro erano partiti a piedi lasciando il professore Minucci e il
padre Salvati a tenergli compagnia.
Poiché il delicato, freddoloso professore Dane non c’era, Giovanni propose
il cenare sulla terrazza. Ne smise però subito l’idea vedendo che garbava poco
all’abate di Ginevra. L’elegante, mondano Marinier, amico di Dane, aveva la
stessa cura del proprio individuo, con maggiore dissimulazione e senza scuse di
salute. Non aveva cenato all’Aniene con l’amico suo perché la cucina
dell’Aniene gli era parsa, in una sua prima visita a Subiaco, troppo
semplice, e sperava dalla signora Selva una cena francese. Di Leynì sapeva bene
quanto la speranza fosse fallace; maliziosamente, non lo aveva istruito. Nel
salottino da pranzo appena ci capivano i cinque commensali. Guai se fossero
venuti anche gli altri due! Per verità né l’abate Marinier, né don Farè erano
attesi. Altri, invece, mancava. Mancavano un frate e un prete, uomini
conosciuti, che avrebbero dovuto venire dall’alta Italia. Si erano scusati
l’uno e l’altro, per lettera, con vivo rincrescimento di Selva e di Farè pure,
e del di Leynì. Marinier si scusò, invece, di essere venuto. Era stato Dane, il
colpevole. E per don Paolo Farè il colpevole era stato di Leynì. Selva
protestò. Amici di amici, come non sarebbero graditi? E tanto di Leynì quanto
Dane sapevano di potere accompagnare persone di loro fiducia, persone che
dividessero le loro idee. Maria non parlava; Marinier le piaceva poco. Anche le
pareva che Dane e di Leynì avrebbero fatto bene a non portare altri senza
avvertire. Parlò Marinier, dopo aver esplorato con gli occhi, aggrottando
lievemente le sopracciglia, una zuppa di fave.
«Io non so» diss’egli «se recheremo noia alla signora Selva discorrendo un
poco adesso di quello che sarà poi il discorso della riunione.»
Maria lo rassicurò. Ella non avrebbe partecipato alla riunione ma pigliava
moltissimo interesse allo scopo.
«Bene» proseguì Marinier «allora sarà molto utile per me che io conosca
esattamente questo scopo, perché Dane me ne ha parlato non con tanta
precisione, e io non posso esser sicuro di dividere le vostre idee in tutto.»
Don Paolo non seppe trattenere un gesto d’impazienza. Anche Selva parve un
po’ seccato, perché davvero un consenso in certe idee fondamentali era
necessario. Senza di esso la riunione poteva riescire peggio che inutile,
pericolosa.
«Ecco» diss’egli «siamo parecchi cattolici, in Italia e fuori d’Italia,
ecclesiastici e laici, che desideriamo una riforma della Chiesa. La desideriamo
senza ribellioni, operata dall’autorità legittima. Desideriamo riforme dell’insegnamento
religioso, riforme del culto, riforme della disciplina del clero, riforme anche
nel supremo governo della Chiesa. Per questo abbiamo bisogno di creare
un’opinione che induca l’autorità legittima ad agire di conformità sia pure fra
venti, trenta, cinquant’anni. Ora noi che pensiamo così siamo affatto
disgregati. Non sappiamo l’uno dell’altro, eccetto i pochi che pubblicano
articoli o libri. Molto probabilmente vi è nel mondo cattolico una grandissima
quantità di persone religiose e colte che pensano come noi. Io ho pensato che
sarebbe utilissimo, per la propaganda dalle nostre idee, almeno di conoscerci.
Stasera ci si riunisce in pochi per una prima intesa.»
Mentre Giovanni parlava, gli altri tenevano gli occhi sull’abate ginevrino.
L’abate guardava nel suo piatto. Seguì un breve silenzio. Giovanni lo ruppe il
primo.
«Il professore Dane» diss’egli «non Le aveva detto questo?»
«Sì sì» rispose l’abate, levando finalmente gli occhi dal piatto «qualche
cosa di simile.»
Il tono fu d’uno che approvasse poco. Ma perché, allora, era venuto? Don
Paolo faceva smorfie di malcontento, gli altri tacevano. Vi fu un momento
d’imbarazzo. Marinier disse:
«Ne parleremo stasera.»
«Sì» ripeté Selva, tranquillo. «Ne riparleremo stasera.»
Pensava che avrebbe trovato nell’abate un avversario e che Dane aveva
commesso un errore di giudizio e di tatto invitandolo alla riunione. Si
confortò in pari tempo con la tacita riflessione che l’udirsi rappresentare
tutte le obbiezioni possibili sarebbe utile; e che un amico del professore Dane
sarebbe almeno onesto, non propalerebbe nomi e discorsi ancora da tacersi.
Invece il giovine di Leynì si crucciava di questo pericolo, sapendo quante e
quanto diverse amicizie tenesse l’abate Marinier in Roma, dove dimorava da
cinque anni per certi suoi studi storici; e si crucciava di non avere saputo
della sua venuta in tempo di scriverne ai Selva, per suggerir loro che
intraprendessero la sua conquista incominciando dal palato. La mensa di casa
Selva, sempre nitidissima e fiorita, era, quanto ai cibi, molto parsimoniosa,
molto semplice. I Selva non bevevano vino mai. Il vino chiaretto, acerbetto di
Subiaco non poteva che inasprire un uomo avvezzo ai vini di Francia.
La ragazza di Affile aveva già servito il caffè quando arrivarono, a un
punto, don Clemente a piedi da Santa Scolastica, Dane, il padre Salvati, e il
professore Minucci in un legno a due cavalli da Subiaco. Ma don Clemente,
ch’era seguito dal suo ortolano, vista la carrozza movere verso il cancello del
villino e non dubitando che portasse gente a casa Selva, affrettò il passo
perché Giovanni e l’ortolano potessero vedersi, parlarsi un minuto, prima della
riunione.
I Selva e i loro tre commensali si erano levati da cena e Maria, uscendo, a
braccio del cavalleresco abate Marinier, sulla terrazza, vide, benché annotasse
già, il benedettino sul ripido sentiero che sale dal cancello aperto sulla via
pubblica. Lo salutò dall’alto e lo pregò di aspettare, a piè della scala, che
gli facessero lume. Scese ella stessa col lume la scala a chiocciola, accennò a
don Clemente di volergli parlare e diede un’occhiata significativa all’uomo che
gli stava dietro le spalle. Don Clemente si voltò a costui, gli disse di stare
ad attenderlo lì fuori sotto le rubinie; e saliti, al muto invito della signora,
alcuni scalini, sostò ad ascoltarla.
Ella gli parlò, frettolosa, dei suoi tre ospiti e particolarmente dell’abate
Marinier. Disse che stava in pena per suo marito il quale aveva posto tanto
amore e tanta fede nell’idea di questa associazione cattolica e ora si
troverebbe a fronte di una inattesa opposizione. Desiderava che don Clemente lo
sapesse, che fosse preparato. Glielo diceva lei perché suo marito non poteva in
quel momento lasciare i suoi ospiti. E si congedava, nel tempo stesso, da don
Clemente, non avendo intenzione, lei donna e tanto ignorante, di assistere alla
seduta. Forse lo avrebbe riveduto fra pochi giorni, al monastero. Non era il
Padre foresterario, egli? Ella verrebbe forse fra tre o quattro giorni a Santa
scolastica con una sua sorella…
A questo punto la signora Selva alzò involontariamente il lume per vedere
meglio il suo interlocutore in viso, e subito se ne pentì come di un mancato
rispetto a quell’anima certamente santa, certamente pari di virile e verginale
bellezza all’alta, snella persona, al viso eretto abitualmente in atto quasi di
franca modestia militare, tanto nobile nella fronte spaziosa, negli occhi
cerulei chiari, spiranti a un punto dolcezza femminea e maschio fuoco.
«Ci sarà pure» disse a bassa voce, vergognando di sé «un’amica intima di mia
sorella, certa signora Dessalle.»
Don Clemente voltò la testa di scatto, e Maria n’ebbe il contraccolpo,
tremò. Era dunque lui! Egli le rivolse subito il viso da capo. Era un po’
acceso ma composto.
«Scusi» diss’egli «questa signora, come si chiama?»
«Chi? La Dessalle?»
«Sì.»
«Si chiama Jeanne.»
«Che età può avere?»
«Non lo so. Tra i trenta e i trentacinque anni direi.»
Adesso Maria non comprendeva più. Il padre faceva queste domande con tanta
indifferente calma! Ne arrischiò una essa pure.
«Lei la conosce, padre?»
Don Clemente non rispose.
Sopraggiungeva in quel momento il povero gottoso Dane, che con grande stento
si era trascinato su dal cancello a braccio del professore Minucci. Erano amici
di casa l’uno e l’altro; la signora Selva fece loro un’accoglienza gentile ma
lievemente distratta.
La seduta si tenne nello studiolo di Giovanni. Era così piccolo che il
bollente don Farè, non potendosi tenere aperte le finestre per un dovuto
riguardo ai reumi di Dane, vi si sentiva soffocare e lo disse con la sua
rudezza lombarda. Gli altri finsero di non udire, meno di Leynì, che gli
accennò silenziosamente di non insistere, e Giovanni che aperse l’uscio del
corridoio e l’altro vicino che dal corridoio mette sulla terrazza. Dane sentì
subito un odore di bosco umido e bisognò chiudere. Sullo scrittoio ardeva una
vecchia lampada a petrolio. Il professore Minucci soffriva di occhi e chiese
timidamente un paralume, che fu cercato, trovato e posto. Don Paolo si fremette
dentro: «questa è un’infermeria!» e anche il suo amico di Leynì, a cui pareva
che tante piccole cure si dovessero in quel momento dimenticare, ebbe uno
spiacevole senso di freddo. Lo ebbe lo stesso Giovanni ma riflesso; sentì
l’impressione che del Dane e forse anche del Minucci doveano riportare coloro,
fra i presenti, che non li conoscevano. Egli li conosceva. Il Dane, con tutti i
suoi reumi e i nervi e i sessantadue anni, possedeva, oltre al sapere grande,
una indomita vigoria di spirito, un coraggio morale a tutta prova. Andrea Minucci,
malgrado il biondo pelo rabbuffato, gli occhiali, certa rigidezza di movimenti,
che gli davano un aspetto di erudito tedesco, era una giovane anima delle più
ardenti, provata dalla vita, non effervescente alla superficie come l’anima del
prete lombardo, ma chiusa nel proprio fuoco, severa, probabilmente più forte.
Giovanni prese la parola con animo franco. Ringraziò i presenti e scusò gli
assenti, il frate e il prete, dolendosi però molto che mancassero. Disse che a
ogni modo la loro adesione era sicura e insistette sul valore di
quest’adesione. Soggiunse parlando più alto e più lento, tenendo gli occhi
sull’abate Marinier, che per ora stimava prudente non divulgare niente né della
riunione, né delle deliberazioni che vi si prendessero; e pregò tutti a considerarsi
legati al silenzio da un impegno di onore. Quindi espose l’idea che aveva
concepita, lo scopo della riunione, un po’ più diffusamente che non avesse
fatto a cena.
«E adesso» conchiuse «ciascuno dica quel che pensa.»
Seguì un silenzio profondo. L’abate Marinier stava per parlare quando si
alzò in piedi, stentatamente, Dane. Il suo pallido viso scarno, fine, pregno
d’intelletto, era atteggiato a gravità solenne.
«Io credo» diss’egli in un italiano esotico, rigido e tuttavia caldo di vita
«che trovandoci noi sul cominciamento di una comune azione religiosa, dobbiamo
fare due cose; subito! Prima cosa! Dobbiamo raccogliere l’anima nostra in Dio,
silenziosamente, ciascuno la sua, fino a sentire la presenza, in noi, di Dio
stesso, il desiderio Suo stesso, nel nostro cuore, della Sua propria gloria. È
questo che io faccio e prego fare con me.»
Ciò detto, il professore Dane s’incrociò le braccia sul petto, piegò il
capo, chiuse gli occhi. Tutti si alzarono e, meno l’abate Marinier, giunsero le
mani. L’abate se le raccolse al petto con un ampio gesto, abbracciando l’aria.
Si poté udire un gemer dolce della lucerna, un passo al piano terreno. Marinier
fu il primo a guardar sottecchi se gli altri pregavano ancora.
Dane rialzò il capo e disse:
«Amen.»
«Seconda cosa!» soggiunse. «Noi ci proponiamo di obbedire sempre l’autorità
ecclesiastica legittima…»
Don Paolo Farè scattò. «Secondo!»
Un vibrare di subiti pensamenti, un fremere sordo di parole non nate scosse
ogni persona. Dane disse lentamente: «esercitata con le debite norme.» Quel
moto discese a un mormorio di consenso, posò. Dane riprese:
«Ancora questo! Mai non sarà odio né su nostro labbro, né in nostro petto
verso nessuno!»
Don Paolo scattò da capo. «Odio no ma sdegno sì! Circumspiciens eos cum
ira!»
«Sì» disse don Clemente con la sua dolce voce velata «quando avremo
edificato Cristo in noi, quando sentiremo una collera di puro amore.»
Don Paolo, che gli stava vicino, non rispose niente, lo guardò con le lagrime
agli occhi, gli afferrò una mano per baciargliela. Il benedettino la ritrasse
spaventato, tutto una fiamma in viso.
«E non edificheremo Cristo in noi» disse Giovanni, commosso anche lui,
felice di quel mistico soffio che gli pareva spirare nell’adunanza «se non
purificheremo nell’amore le nostre idee di riforma; se, quando venisse il
momento di operare, non ci purificheremo prima le mani e gli strumenti. Questo
sdegno, questa ira che Lei, don Paolo, dice, è una grande potenza del Maligno
sopra di noi, appunto perché ha un’apparenza e qualche volta, come nei Santi,
una sostanza di bontà. In noi è quasi sempre vera inimicizia perché non
sappiamo amare. La preghiera a me più cara dopo il Pater noster è la
preghiera dell’Unità, la preghiera che ci unisce allo spirito di Cristo quando
prega il Padre così: «ut et ipsi in nobis unum sint.» Abbiamo sempre il
desiderio e la speranza dell’unità in Dio con i fratelli che sono divisi da noi
nelle idee. E adesso, dunque, dite se accettate la proposta di fondare l’associazione
che io vi propongo. Prima discutete questo e poi, se la proposta è accettata,
si vedrà in qual modo sia da porla in atto.»
Don Paolo esclamò impetuosamente che il principio nemmanco era da discutere
e Minucci osservò in tono sommesso che lo scopo della riunione era stato
conosciuto da tutti i presenti prima d’intervenire, che perciò, intervenendo,
essi lo avevano implicitamente approvato, avevano implicitamente consentito di
legarsi per un’azione comune, salvo appunto a decidere sui modi e le forme.
L’abate Marinier chiese di parlare.
«Me ne rincresce veramente» diss’egli sorridendo, «ma per legarmi io non ho
portato con me il menomo filo. Io sono pure di coloro che vedono molte cose
andar male nella Chiesa e tuttavia, quando il signor Selva mi ha bene spiegato,
prima a cena e ora qui, la sua idea che non avevo bene compresa dal mio amico
professore Dane, mi si sono affacciate obbiezioni che credo serie.»
«Già» pensò Minucci che aveva udito parlare di certe ambizioni del Marinier
«se vuoi far carriera non ti devi mettere con noi.» E soggiunse forte:
«Dica!»
«In primo luogo, signori» cominciò il fine abate «mi pare che abbiate
principiato dalla seconda riunione. Dirò con un rispetto grande che voi mi
parete bravissime persone, le quali si mettano festosamente a sedere per
giuocare insieme alle carte, e non possono andare avanti perché uno ha le carte
italiane, un altro le francesi, un altro le tedesche e non s’intendono. Io ho
udito parlare di idee comuni, ma forse vi ha fra noi piuttosto una comunanza di
idee negative. Noi siamo d’accordo, probabilmente, in questo, che la Chiesa
Cattolica è venuta somigliando a un tempio antichissimo di grande semplicità
originaria, di grande spiritualità, che il seicento, il settecento e
l’ottocento hanno infarcito di pasticci. Forse i più maligni di voi diranno
pure che vi si parla forte solamente una lingua morta, che le lingue vive
appena vi si possono parlare piano e che il sole vi prende alle finestre un
colore falso. Ma io non posso credere che siamo poi tutti d’accordo nella
qualità e nella quantità dei rimedii. Prima dunque di iniziare questa
frammassoneria cattolica, io credo che vi converrebbe intendervi circa le
riforme. Dirò di più; io credo che anche quando fosse fra voi un pienissimo
accordo nelle idee, io non vi consiglierei di legarvi con un vincolo sensibile
come propone il signor Selva. La mia obbiezione è di una natura molto delicata.
Voi pensate certo di poter navigare sicuri sott’acqua come pesci cauti, e non
pensate che un occhio acuto di Sommo Pescatore o
vice-Pescatore vi può scoprire benissimo e un buon colpo di
fiocina cogliere. Ora io non consiglierei mai ai pesci più fini, più saporiti,
più ricercati, di legarsi insieme. Voi capite cosa può succedere quando uno è
colto e tirato su. E, voi lo sapete bene, il grande Pescatore di Galilea
metteva i pesciolini nel suo vivaio, ma il grande Pescatore di Roma li frigge.»
«Questa è buona!» fece don Paolo con un sussulto di riso. Gli altri
tacevano, gelidi. L’abate continuò:
«Non credo poi che con questa lega possiate far niente di buono. Le
associazioni fanno progredire forse i salari, forse le industrie, forse i
commerci; la scienza e la verità, no. Le riforme si faranno un giorno, perché
le idee sono più forti degli uomini e camminano; ma voi, armandole in guerra e
facendole marciare per compagnie, le esporrete a un fuoco terribile che le
arresterà per un pezzo. Sono gl’individui, i Messia, che fanno progredire la
scienza e la religione. Vi è un Santo fra voi? Oppure sapete dove prenderlo?
Prendetelo e mandatelo avanti. Parola ardente, grande carità, due o tre piccoli
miracoli, suggeritegli quello che deve dire e il vostro Messia farà più che
tutti voi insieme.»
L’abate tacque e Giovanni prese la parola.
«Forse il signor abate» diss’egli «non ha potuto formarsi ancora un giusto
concetto della unione che noi desideriamo. Noi ci siamo associati testé in una
preghiera silenziosa e intensa, cercando di tenerci uniti nella Presenza
Divina. Questo indica il carattere della nostra unione. Considerando i mali che
affliggono la Chiesa, i quali, in sostanza, sono disaccordi del suo elemento
mutabile umano con il suo elemento immutabile di Verità Divina, noi ci vogliamo
unire in Dio Verità col desiderio ch’Egli tolga questi disaccordi; e vogliamo
sentirci uniti. Una tale unione non ha bisogno di intelligenze circa idee
particolari, benché alcuni di noi ne abbiamo alquante di comuni. Noi non
pensiamo di promuovere un’azione collettiva né pubblica né privata per attuare
una riforma o l’altra. Io sono abbastanza vecchio per ricordare i tempi del
dominio austriaco. Se i patrioti lombardi e veneti si raccoglievano allora a
parlare di politica, non era mica sempre per congiure, per atti di rivoluzione;
era per comunicarsi notizie, per conoscersi, per tener viva la fiamma
dell’idea. È questo che noi vogliamo fare nel campo religioso. Lo creda il
signor abate Marinier, quell’accordo negativo ch’egli diceva può bastare
benissimo. Facciamo che si allarghi, che abbracci la maggioranza dei fedeli
intelligenti, che salga nella gerarchia; vedrà che gli accordi positivi vi
matureranno dentro occultamente come semi vitali dentro la spoglia caduca del
frutto. Sì, basta un accordo negativo. Basta di sentire che la Chiesa di Cristo
soffre, per unirci nell’amore di nostra Madre e almeno pregare per essa, noi e
i nostri fratelli che, come noi, la sentono soffrire! Che ne dice, signor
abate?»
L’abate mormorò con un lievissimo sorriso:
«C’est beau mais ce n’est pas
la logique.»
Don Paolo scattò:
«Ma che logica!»
«Ah!» rispose il Marinier con una maligna faccia compunta. «Se rinunciate
alla logica…!»
Don Paolo, tutto acceso, era per protestare ma il professore Dane gli
accennò di chetarsi.
«Noi non vogliamo rinunciare alla logica» diss’egli. «Solamente non è facile
misurare il valore logico di una conclusione in materia di sentimento, di
amore, di fede, come è facile misurare il valore logico di una conclusione in
materia di geometria. Nella materia nostra il procedimento logico è occulto.
Certo il mio caro amico Marinier, una delle menti acutissime che io conosco,
non ha voluto dire questa cosa in risposta al mio caro amico Selva, che quando
una persona molto amata da noi cade inferma, è necessario a noi di accordarci
sulla cura che le faremo, prima di correre insieme al suo letto!»
«Queste sono bellissime figure» disse l’abate Marinier alquanto vivacemente.
«Ma sapete bene che le similitudini non sono argomenti!»
Don Clemente, che stava in piedi nell’angolo tra l’uscio del corridoio e la
finestra, e il professore Minucci seduto presso a lui, fecero atto di parlare.
Subito si arrestarono, volendo ciascuno dei due cedere la parola all’altro.
Selva propose che prima parlasse il monaco. Tutti guardarono a quel nobile viso
di arcangelo, arrossente ma eretto. Don Clemente esitò un poco, e quindi parlò
con la sua voce soffice, velata di modestia:
«Il signor abate Marinier ha detto una cosa che io credo molto vera. Ha
detto: ci vuole un Santo. Io pure lo credo. Chi sa? Io non dispero che possa
già esistere.»
«Lui» mormorò don Paolo.
«Ora» proseguì don Clemente «io vorrei dire al signor abate Marinier: siamo
in qualche maniera i profeti di questo Santo, di questo Messia, prepariamo le
sue vie, che poi significa solo far sentire universalmente il bisogno di un
rinnovamento di tutto che nella religione nostra è veste, non corpo della
verità, anche se questo rinnovamento sarà doloroso per certe coscienze. Ingemiscit
et parturit! E far sentire tutto ciò stando sopra un terreno assolutamente
cattolico, aspettando le nuove leggi dalle autorità vecchie, dimostrando però
che se non si cambiano le vesti portate da tanto tempo, fra tante intemperie,
nessuna persona civile si avvicinerà più a noi, e Dio non voglia che molti di
noi le svestano senza permesso, per un disgusto insopportabile. Vorrei anche
dire al signor abate Marinier, se me lo permette: non abbiamo troppi timori
umani!»
Un mormorio caldo di assenso gli rispose e Minucci scattò tutto vibrante.
Mentre parlava l’abate Marinier, di Leynì e Selva lo avevano visto bollire
accigliato; e appunto Giovanni, che conosceva il carattere fiero di quel
mistico asceta, si era proposto, facendo parlare prima don Clemente, di dargli
tempo a chetarsi. Egli scattò. La parola non gli veniva fluida, gli si rompeva
per soverchio impeto, e rotta gli sgorgava dal labbro a ondate, precisa, però,
e potente nel vigoroso accento romano:
«Ecco! Non abbiamo timori umani! Noi vogliamo cose troppo grandi e le
vogliamo troppo fortemente per avere timori umani! Noi vogliamo comunicare nel
Cristo vivo, quanti sentiamo che il concetto della Via, della Verità e della
Vita si… si… si…– si dilata, ecco, si dilata nel nostro cuore, nella nostra
mente! E rompe tante – come dirò? – vecchie fasce di formole che ci stringono,
che ci soffocano, che soffocherebbero la Chiesa, se la Chiesa fosse mortale!
Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente, quanti abbiamo sete – sete, signor
abate Marinier! Sete! Sete! – che la nostra fede, se perde di estensione,
cresca di intensità – a cento doppi, cresca, viva Dio! – e possa radiare fuori
di noi, e possa, dico, purificare come il fuoco, prima il pensiero e poi
l’azione cattolica – ecco. Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente quanti
sentiamo ch’Egli prepara una lenta ma immensa trasformazione religiosa per
opera di profeti e di Santi, la quale si opererà con sacrificio, con dolore,
con divisione di cuori; quanti sentiamo che i profeti sono sacri al soffrire e
che queste cose non ci vengono rivelate dalla carne o dal sangue ma dall’Iddio
vivo nelle anime nostre! Comunicare, vogliamo, tutti, di ogni paese, ordinare
la nostra azione. Massoneria Cattolica? Sì, Massoneria delle Catacombe. Lei
teme, signor abate? Teme che si taglino tante teste con un colpo solo? Io dirò:
dov’è la scure per un tal colpo? Uno alla volta tutti si possono colpire: oggi
il professore Dane, ad esempio, domani don Farè, posdomani qui il padre; ma il
giorno in cui quella fantastica fiocina del signor abate Marinier pescasse,
attaccati a un filo, laici di grido, preti, frati, vescovi, cardinali
fors’anche, quale sarà, ditemi, il pescatore, piccolo o grande, che non lascerà
cadere nell’acqua, spaventato, la fiocina e ogni cosa? – Ma poi mi perdoni,
signor abate, se io dico a Lei e ai prudenti come Lei: dov’è la vostra fede?
Esiterete voi, per paura di Pietro, a servire Cristo? Uniamoci contro il
fanatismo che lo ha crocifisso e che avvelena ora la Sua Chiesa e se ne avremo
a soffrire, ringraziamone il Padre: «beati estis cum persecuti vos fuerint et
dixerint omne malum adversum vos, mentientes, propter me.»
Don Paolo Farè saltò in piedi e abbracciò l’oratore. Di Leynì si affisava in
lui con occhi accesi di entusiasmo. Dane, Selva, don Clemente, l’altro frate
tacevano, imbarazzati, sentendo, specie i tre ecclesiastici, che Minucci era
trascorso troppo, che le sue frasi sulla estensione e la intensità della fede,
sul timore di Pietro, non erano misurate, che tutta l’intonazione del suo
discorso era stata troppo bellicosa e non si accordava né col mistico esordio
di Dane né con le parole usate da Selva a delineare il carattere dell’unione
proposta. L’abate di Ginevra non aveva levato un momento dal viso di Minucci,
mentr’egli parlava, i suoi piccoli occhi brillanti. Guardò l’amplesso di don
Paolo con un misto d’ironia e di pietà, poi si alzò in piedi:
«Sta bene» diss’egli. «Io non so se il mio amico Dane in particolare divida
le opinioni del signore. Veramente ne dubito un poco. Il signore ha nominato
Pietro. Ecco, mi pare che qui ci si dispone a uscire dalla barca di Pietro
sperando forse di camminare sopra le onde. Io dico umilmente che non ho fede
abbastanza e andrei subito al fondo. Io intendo di restare nella barca e forse
tutt’al più adoperarvi qualche piccolo remo secondo la mia intenzione, perché,
come ha detto il signore, sono molto pauroso. È dunque necessario che ci
separiamo e non mi resta che a domandarvi perdono di essere venuto. Ho anche
bisogno di una piccola passeggiata per la mia vile digestione.– «Caro amico»
soggiunse rivolgendosi a Dane «ci ritroveremo all’Aniene.»
E mosse verso Selva con la mano stesa, per accomiatarsi. Subito gli furono
tutti attorno, meno don Paolo e Minucci, per non lasciarlo partire. Egli
insisteva tranquillo, arrestava ora con un gelido sorrisetto, ora con una
parolina graziosamente sarcastica, ora con un gesto elegante gli assalitori troppo
veementi. Di Leynì si voltò a Farè, gli accennò di unirsi agli altri; ma il
focoso don Paolo gli rispose con una violenta spallata, con una smorfia di
fastidio. Intanto dal gruppo che attorniava il Marinier una voce toscana si
alzò sopra le altre:
«Stia bono! Non si è ancora deciso niente! Aspetti! Io non ho ancora detto
la mia!»
Era il padre Salvati, scolopio, che aveva parlato; un vecchio dai capelli
candidi, dal volto rubizzo, dagli occhi vivaci.
«Non si è ancora deciso niente!» ripeté. «Io, per esempio, per l’unione ci
sto ma io vorrei una cosa e i discorsi che si son fatti me ne arieggiano
un’altra. Progresso intellettuale, sta bene; rinnovamento delle formole della
fede secondo vogliono i tempi, sta bene; riforma cattolica, benissimo! Io sto
con Raffaello Lambruschini, che era un grand’omo; io sto con i Pensieri di
un solitario; ma per il signor professore Minucci il carattere della
riforma mi pare che avrebbe a essere sopra tutto intellettuale e questo,
scusate…»
Qui Dane alzò la sua bianca, piccola mano di dama.
«Permetta, padre» diss’egli. «Il mio caro amico Marinier vede che si ritorna
a discutere. Io lo prego di rimettersi a sedere.»
L’abate levò un poco le ciglia in su, mise un sospiro scettico e obbedì. Gli
altri sedettero pure, soddisfatti. Non si fidavano della discrezione
dell’abate, sarebbe stato un grosso guaio ch’egli fosse partito ab irato.
Il padre Salvati riprese a parlare.
Egli era contrario a che s’imprimesse al movimento riformista un carattere
sopra tutto intellettuale, non tanto per il pericolo di Roma quanto per il
pericolo di turbare nella loro fede semplice una quantità immensa di anime
tranquille. Voleva che l’Unione si proponesse anzi tutto una grande opera
morale, il richiamo dei credenti alla pratica della parola evangelica.
Illuminare i cuori era secondo lui il primo dovere di uomini, che aspiravano a
illuminare gl’intelletti. Evidentemente non importava tanto di trasformare
secondo un ossequio razionale la fede cattolica nella Bibbia, quanto di rendere
effettiva la fede cattolica nella parola di Cristo. Bisognava dimostrare che
generalmente dai fedeli si onora Cristo con le labbra ma che il cuore del
popolo è lontano da lui; dimostrare quanto posto sia lasciato agli egoismi da
certe pietà fervorose che credono santificarsi…
Qui don Paolo e Minucci brontolarono:
«Questo non c’entra.»
Il Salvati esclamò che c’entrava benissimo e che avessero la bontà di
aspettare. Continuò a dire di un pervertimento generale nel concetto del dovere
cristiano intorno alla ricerca e all’uso della ricchezza, pervertimento
difficilissimo a raddrizzare perché indurato da secoli e secoli nelle coscienze
cristiane con la piena complicità del clero.
«Il tempo, signori» esclamò il vecchio frate «domanda un’azione francescana.
Ora io non ne vedo segno. Vedo antichi Ordini religiosi che non hanno più forza
di agire sulla Società. Vedo una Democrazia Cristiana amministrativa e politica
che non ha lo spirito di S. Francesco, che non ama la santa Povertà. Vedo una
società di studi francescani; trastulli intellettuali! Io intenderei che noi si
provvedesse all’azione francescana. Dico se si vuole una riforma cattolica!»
«Ma come?» domandò Farè. Minucci brontolò seccato:
«Non è questo.»
Selva sentiva disgregarsi le anime che si erano unite in un primo slancio.
Sentiva che Dane, Minucci, probabilmente anche Farè, intendevano, com’egli
stesso intendeva, iniziare un movimento intellettuale e che quella divampata
francescana era venuta fuor di tempo e fuor di luogo. Era tanto più inopportuna
quanto più calda di verità viva. Perché molta verità c’era senza dubbio nelle
parole del padre Salvati, egli lo riconosceva, egli che si era più volte
dibattuto nel pensiero il dubbio se non convenisse promovere, per il bene della
Chiesa un’azione piuttosto morale che intellettuale. Ma egli non sentiva in sé
le attitudini all’apostolato francescano e non le vedeva negli amici suoi,
neppure nel più ardente, Luigi Minucci, un solitario, un asceta schivo della
folla come lui, Selva. Le ragioni del Salvati valevano a guastare e non a
edificare. Giovanni sentiva segrete ironie andare al Marinier e anche al Dane,
di cui si conoscevano i gusti poco francescani, il palato difficile, i nervi
delicati, gli affetti dati a cagnolini e a pappagalli. Se si voleva riescire a
qualche cosa, conveniva correre al riparo.
«Mi perdoni» diss’egli «il carissimo padre Salvati se io gli osservo che il
suo discorso, tanto caldo di spirito cristiano, è intempestivo. Mi pare ch’egli
consenta con noi nel desiderio di una riforma cattolica. Stasera non è davanti
a noi che una proposta; quella di promuovere una specie di Lega fra quanti
hanno lo stesso desiderio. Ora decidiamo questo!»
Lo scolopio non si arrese. Non poteva comprendere una Lega inattiva, e
un’azione secondo le idee degli intellettuali non gli piaceva. L’abate
ginevrino esclamò:
«Je l’avais bien dit!»
E si alzò per andarsene davvero, stavolta. Selva non lo permise, propose di
sciogliere la seduta, pensando di richiamare l’indomani o più tardi il professore
Dane, Minucci, di Leynì, Farè. Con Salvati non c’era niente a fare, ed era
meglio lasciar partire Marinier dandogli a credere che tutto fosse andato a
monte. Minucci indovinò il suo pensiero e tacque, l’inconsiderato don Paolo non
capì nulla e strepitò che si doveva deliberare, votare subito. Selva, e per
ossequio a Selva, di Leynì, lo fecero aspettare. Fremeva, però; fremeva contro
lo svizzero, sopra tutto. Dane e don Clemente erano poco soddisfatti, quale per
una ragione, quale per un’altra. Dane era molto irritato in cuor suo contro
Marinier e si doleva di averlo portato con sé; don Clemente avrebbe voluto dire
che le parole del padre Salvati erano state molto belle e sante e non
intempestive perché anzi era bene che ciascuno lavorasse giusta la vocazione
propria, gl’intellettuali per una via, i francescani per un’altra. Colui che
chiama provvederebbe a coordinare l’azione dei chiamati; le diverse vocazioni
potevano benissimo stare insieme nella Lega. Avrebbe voluto dire così ma non fu
pronto, lasciò passare il momento, anche per verecondia intellettuale, per
paura di non dir bene, per un riguardo verso Selva, che desiderava
evidentemente di troncare. E fu troncato, tutti si alzarono, uscirono sulla
terrazzina, meno Dane e Giovanni.
L’abate Marinier intendeva recarsi l’indomani a Santa Scolastica e al Sacro
Speco; poi, forse, ritornare a Roma per Olevano e Palestrina, una via nuova per
lui. Chi gliela poteva indicare di lì? Gliela indicò don Clemente. Era la
stessa che aveva percorso venendo da Subiaco. Passava lì sotto, valicava
l’Aniene poco più a sinistra, sul ponte di S. Mauro, volgeva a destra, saliva
verso i monti Affilani, là di fronte. L’aria veniva, odorata di boschi, dalla
gola stretta ond’esce il fiume sonoro sotto i Conventi. Il cielo era coperto,
salvo sul Francolano. Là sopra il gran monte nero tremolavano due stelle.
Minucci le mostrò a di Leynì. «Guardi» diss’egli «quelle due stelline come
sfavillano! Dante le direbbe le fiammelle di San Benedetto e di Santa
Scolastica che sfavillano vedendo nell’ombra un’anima simile ad esse.»
«Voi parlate di Santi?» fece Marinier, accostandosi. «Io ho domandato poco
fa se avete un Santo e vi ho augurato di possederne uno. Queste sono figure
oratorie, perché so bene che non lo avete. Se lo aveste, il vostro Santo
sarebbe subito ammonito dalla questura o spedito in China dalla Chiesa.»
«Ebbene?» rispose di Leynì «E se fosse ammonito?»
«Se fosse ammonito oggi, sarebbe imprigionato domani.»
«Ebbene?» replicò il giovane. «E S. Paolo, signor abate?»
«Eh, mio caro, S. Paolo, S. Paolo...!»
Con questa reticenza l’abate Marinier intendeva probabilmente dire che S.
Paolo era S. Paolo. L’altro pensò invece che Marinier era Marinier. Don
Clemente osservò che neppure tutti i Santi si potevano mandare in China. Perché
non sarebbe laico il futuro Santo?
«Questo lo credo» esclamò il padre Salvati. Invece l’entusiasta don Faré si
teneva certo che sarebbe Sommo Pontefice. L’abate rise. «Idea semplice ed
eccellente» diss’egli. «Ma io sento la carrozza che viene a pigliarci, Dane, me
e chi vuol venire con noi a Subiaco; per cui vado a congedarmi dal signor
Selva.»
Si chinò dal parapetto a cogliere una frondetta dell’olivo piantato nel
terrazzo del piano inferiore.
«Dovrò presentargli questo» disse. «E anche a Loro signori» soggiunse con un
gesto grazioso, sorridendo. E uscì della terrazza.
Si udì infatti, giù nella strada, il rumore di un legno a due cavalli che,
venendo da Subiaco, girò lo scoglio sul quale la villetta è assisa e si fermò davanti
al cancello. Pochi momenti dopo vennero nella terrazza Maria Selva e Dane col
suo gran pastrano e il grandissimo cappello nero a cencio. Seguivano Giovanni e
l’abate.
«Chi viene con noi?» disse Dane.
Nessuno parlò. S’intesero, sul rumore fondo dell’Aniene, voci e passi che
salivano dal cancello verso la villa. Minucci che stava sull’angolo di levante
della terrazza, guardò e disse:
«Signore. Due signore.»
Maria trasalì. «Due signore?» diss’ella. Balzò al parapetto, vide due figure
chiare che salivano lentamente, facevano allora la prima svolta del ripido
viottolo. Non era possibile distinguerne le forme, erano ancora troppo giù e
faceva troppo scuro. Giovanni osservò che probabilmente si trattava di persone
dirette al primo piano, a visitare i padroni di casa. Il professore Dane
sorrise misteriosamente.
«Potrebbero venire anche al secondo» diss’egli. Maria esclamò:
«Lei sa qualche cosa!» e gridò abbasso:
«Noemi! Est ce vous?»
La voce limpida di Noemi rispose:
«Oui, c’est nous!»
Si udì un’altra voce femminile dirle forte:
«Che bambina! Dovevi tacere!»
Maria mise un piccolo grido di gioia e disparve, corse giù per la scala a
chiocciola.
«Lei sapeva, professore Dane?» fece Selva. Sì, Dane sapeva, aveva veduto a
Roma la signora Dessalle, conosciuta da lui nella sua villa del Veneto, nella
villa degli affreschi del Tiepolo. Suo fratello, il signor Carlino Dessalle,
era rimasto a Firenze. Lei e la signorina d’Arxel volevano fare una sorpresa,
gli avevano proibito di parlare. Il nome Dessalle richiamò alla mente di Selva,
in un baleno, quello cui subito non aveva pensato, la presenza di don Clemente,
il dubbio che fosse lui l’amante scomparso di quella signora, la necessità di
evitare un incontro che poteva essere terribile per l’una e per l’altro. Del
colloquio fra sua moglie e il padre egli non sapeva, naturalmente. Intanto si
udì Maria scender di corsa il sentiero, poi suonare le esclamazioni e i saluti
festosi. Dane, inquieto per la troppo lunga fermata sulla terrazza, propose di
scendere. Quelle signore si erano certo servite della carrozza che veniva a
prender lui! Anche don Clemente pareva molto inquieto. Selva si affrettò,
dissimulando la commozione propria, di prenderlo a braccetto.
«Se Lei non vuole imbarazzarsi con signore» diss’egli «venga subito con me
che La faccio passare dal Casino, per il sentiero alto.» Il padre parve
contentissimo, i due partirono in gran fretta, il benedettino senza nemmeno
salutare.
«È anche tardi» diss’egli «Ho detto all’Abate, chiedendogli il permesso, che
sarei ritornato alle nove e mezzo.»
Scesero a precipizio la scala a chiocciola; ma quando uscirono sul
piazzaletto delle robinie, Jeanne Dessalle vi metteva il piede dall’altro capo
con Maria e Noemi.
Non era tanto buio, sotto le robinie, che Maria non potesse riconoscere suo
marito e don Clemente nelle due ombre che uscivano di casa sua. Ella, che a
fianco di Jeanne precedeva sua sorella, prontamente piegò e fece piegare a
destra la sua vicina, verso il piccolo casino ch’è un’appendice della villa,
voltando le spalle a questa. Dal canto suo, Selva, vedendo l’atto di sua
moglie, prontamente sussurrò al padre:
«Scenda diritto, subito!»
Ma non valse.
Non valse perché Noemi, meravigliata di veder sua sorella svoltare a destra,
si fermò esclamando:
«Dove andate?» e don Clemente, forse per aver veduta questa signora ferma
sulla sua via, invece di passare e scendere, andò a raccogliere l’ortolano che
lo attendeva nell’angolo più oscuro del piazzaletto, dove il fianco della casa
s’incontra col monte. Chiamò «Benedetto!» e si volse a Selva. «Se Lei volesse
mostrargli il campicello?» Giovanni rispose: «A quest’ora?» mentre sua moglie
diceva piano a Noemi: «C’è forestieri che partono, lasciamoli passare, restiamo
qui al casino.» Ella le accennò in pari tempo del capo così risolutamente che
la Dessalle se ne avvide, pensò tosto a qualche mistero.
«Perché?» disse. «Sono terribili?» E rallentò il passo. Invece Noemi che
aveva afferrato l’intenzione della sorella, non però le ragioni occulte, mise
troppo zelo a secondarla, abbracciò alla vita le due compagne, le spinse verso
il casino. Jeanne Dessalle ebbe un moto istintivo di ribellione, si voltò di
botto dicendo: «che fai?» vide Selva che veniva alla loro volta e che subito
salutò allargando le braccia, come per nascondere don Clemente, il quale,
seguito dall’ortolano, passò frettolosamente a cinque passi da Jeanne, prese la
discesa.
Noemi, che al saluto di suo cognato si era pure voltata, corse ad
abbracciarlo. Intanto Selva si compiacque di vedere che don Clemente era
sfuggito all’incontro. Selva, scioltosi dall’abbraccio di Noemi, stese la mano
a Jeanne, che non se ne avvide, mormorò, trasognata, qualche incomprensibile
parola di saluto. In quel momento uscirono dalla villa Dane, Marinier, Faré, di
Leynì, il padre Salvati. I due Selva mossero loro incontro, lasciando Noemi e
la Dessalle ad aspettare in disparte. I saluti di commiato furono abbastanza
lunghi. Dane desiderava salutare anche la Dessalle. Maria non la scorse più
dove l’aveva lasciata, suppose che lei e Noemi fossero entrate in casa girando
alle loro spalle, s’incaricò dei saluti del professore. Finalmente quando i
cinque discesero, accompagnati da Giovanni, si udì chiamare da Noemi:
«Maria!»
Un accento particolare nella voce di sua sorella le disse che era accaduto
qualche cosa. Accorse; la signora Dessalle, seduta sopra un fascio di legna,
nell’angolo lasciato cinque minuti prima dall’ortolano di Santa Scolastica,
ripeteva con voce debole: «niente, niente, niente, adesso entriamo, adesso
entriamo.» Noemi, tutta palpitante, raccontò che l’amica si era sentita mancare
a un tratto mentre quei signori discorrevano e che a lei era appena riuscito di
trarla fino a quel fascio di legna.
«Andiamo, andiamo» ripeté Jeanne e si sforzò di alzarsi, si trascinò,
sorretta dalle altre due, fino all’uscio della villa, sedette sullo scalino,
aspettando un po’ d’acqua che poi assaggiò appena. Altro non volle e presto si
rimise tanto da poter salire, adagio adagio, le scale. Si scusava ad ogni sosta
e sorrideva; ma la fantesca che saliva innanzi col lume, a ritroso, venne quasi
meno ella stessa vedendo quegli occhi smarriti, quelle labbra bianche, quel
terribile pallore. La condussero al canapè del salottino; e là, dopo un momento
di silenzioso abbandono a occhi chiusi, poté dire alla signora Selva, sorridendo
ancora, ch’erano affetti di anemia e che c’era avvezza. Noemi e Maria si
parlarono piano fra loro. Jeanne intese le parole «a letto» e assentì del capo
con uno sguardo di gratitudine. Maria aveva disposto per lei e per Noemi la
migliore camera del piccolo alloggio, la camera d’angolo opposta allo studio di
Giovanni, dall’altra parte del corridoio. Mentre Jeanne vi si avviava
stentatamente a braccio di Noemi, ritornò Selva che aveva accompagnato gli
amici sino al cancello. Sua moglie ne udì il passo sulla scala, gli scese
incontro, lo trattenne. Si parlarono al buio, sotto voce. Era dunque lui, ma
come lo aveva riconosciuto? Eh, Giovanni aveva ben cercato di frapporsi, nel
momento pericoloso, fra la signora e don Clemente, il padre era anche passato quasi
di corsa, ma egli aveva sospettato subito, perché la Dessalle non aveva quasi
risposto al suo saluto, non gli aveva stesa la mano, era rimasta come una
statua. Anche il padre, quando aveva udito sulla terrazza ch’era arrivata la
signora Dessalle, si era mostrato inquieto; poi aveva mostrato un vivo
desiderio di evitarla; si era però serbato molto padrone di sé. Oh sì, molto
padrone di sé! Questo era pure il giudizio di Maria che raccontò il suo
colloquio con lui, lì in fondo alla scala. Marito e moglie salirono lentamente,
compresi di quello straordinario dramma, di quel dolor mortale della povera
donna, dell’impressione terribile che doveva aver riportato anche lui, dopo
tutto, della notte che passerebbero l’uno e l’altra; pensosi di quel che accadrebbe
l’indomani, di quel che farebbe lui, di quel che farebbe lei.
«Per queste cose è bene di pregare, non è vero?» disse Maria.
«Sì, cara, è bene. Preghiamo ch’ella sappia donare il suo amore e il suo
dolore a Dio» rispose suo marito.
Entrarono, tenendosi per mano, nella camera nuziale, divisa in due da un
cortinaggio pesante. Si affacciarono alla finestra guardando il cielo,
pregarono silenziosamente. Un alito di tramontana passò come un lamento per la
quercia che pende sulla piccola Santa Maria della Febbre.
«Povera creatura!» disse Maria. Parve a lei e a suo marito di amarsi anche
più teneramente del solito e tuttavia sentirono ambedue, senza dirselo, che
qualche cosa li tratteneva dal bacio dell’amore.
Jeanne, appena Noemi ebbe chiuso dietro a sé l’uscio della loro camera, le
si avvinghiò al collo, ruppe in singhiozzi irrefrenabili. La povera Noemi,
avendo compreso, per l’effetto vedutone, che quell’ecclesiastico passato in
fretta davanti all’amica sua era Maironi, si struggeva di pietà. Disse parole
della più ardente, della più soave tenerezza con la voce di chi blandisce un
bambino che soffre. Jeanne non rispondeva, singhiozzava sempre.
«È quasi meglio, cara» si arrischiò a dire Noemi «è quasi meglio che tu
sappia, che tu non possa illuderti; è quasi meglio che tu lo abbia veduto con
quell’abito!»
Stavolta udì rispondersi, fra i singhiozzi, tanti appassionati «no, no» così
strani nel loro impeto quasi non doloroso, che ne rimase interdetta. Riprese
quindi i suoi conforti ma più timidamente.
«Sì, cara, sì, cara, perché non essendoci più rimedio…»
Jeanne alzò il viso tutto lagrimoso.
«Non capisci che non è lui?» diss’ella. Noemi si sciolse, stupefatta, dalle
sue braccia.
«Come, non è lui? Tutto questo perché non è lui?»
Ancora Jeanne le si lanciò al collo. «Non è quel frate che mi è passato
davanti» disse fra i singhiozzi «è l’altro!»
«Chi, l’altro?»
«Quell’uomo che lo seguiva, che è partito con lui!»
Noemi neppure se n’era accorta, di quest’uomo. Jeanne le strinse il collo da
soffocarla, con un riso convulso.
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