Nello scendere al cancello della villa don Clemente si domandava con ansia
segreta: l’avrà riconosciuta o no? E se l’ha riconosciuta, quale impressione
gli avrà fatto? Giunto al cancello, si voltò a colui che aveva chiamato
Benedetto, gli scrutò il viso, un viso scarno, pallido, intellettuale. Non vi
lesse turbamento. Quegli occhi lo fissavano attoniti, quasi dicendo: perché mi
guarda? Il monaco pensò: forse non l’ha riconosciuta o forse non suppone che io
sappia del suo arrivo. Passò il braccio sotto quello del compagno, pigliò,
tenendoselo stretto senza parlare, a sinistra, verso la fragorosa gola oscura
dell’Aniene. Fatti pochi passi sotto gli alberi che fiancheggiano la via, gli
disse: «Non mi domandi della riunione?» con maggiore dolcezza che le parole
indifferenti non comportassero. Quegli rispose:
«Sì, mi racconti.»
La voce era fioca e vuota di desiderio. Don Clemente si disse: «l’ha
riconosciuta» e parlò della riunione come persona preoccupata di altro, senza
calore, senza cura di particolari; né fu interrotto mai dal compagno con
domande o commenti.
«Ci si è sciolti» diss’egli «senza conchiuder nulla, anche perché sono
arrivati dei forestieri. Così non ho potuto nemmeno combinar niente per te col
signor Giovanni. Ma, domani, o tutti o in parte, credo che ci riuniremo ancora.
E tu» soggiunse esitante «sei disposto a ritornare o non sei disposto?»
Benedetto rispose nel medesimo tôno sommesso di prima e sempre camminando:
«Le forestiere che ho vedute, restano?»
Don Clemente gli strinse il braccio forte forte.
«Non so» diss’egli. E soggiunse con un’altra stretta, commosso:
«Se avessi saputo…!»
Benedetto aperse la bocca per parlare ma si trattenne. Procedettero così in
silenzio verso le due nere fronti della gola fragorosa, e, lasciata la strada
maestra volgente a cavalcar l’Aniene sul ponte di San Mauro, presero la
mulattiera dei Conventi che sale alla fronte di sinistra. Là in faccia
l’obliquo scoglio enorme parve a don Clemente, in quel momento, simbolo
minaccioso di una demoniaca forza ferma sul cammino di Benedetto; come gli
parve minacciosa simbolicamente la cresciuta oscurità, minaccioso il cresciuto
rombo profondo del fiume nella solitudine.
Passato l’Oratorio di san Mauro, dove la mulattiera dei Conventi gira a
sinistra, sul fianco del monte, verso la Madonnina dell’Oro e un’altra
mulattiera entra diritta nella gola per i ruderi delle Terme neroniane,
Benedetto si sciolse dolcemente dal braccio del monaco e si fermò.
«Senta, padre» diss’egli. «Avrei bisogno di parlarle. Forse un poco a
lungo.»
«Sì, caro, ma è tardi. Entriamo nel monastero.»
Benedetto abitava nell’Ospizio dei pellegrini, la casa rustica dove sono
anche le stalle di Santa Scolastica a cui si accede da un cortile che comunica
per un cancello grande colla via pubblica e per un cancello piccolo con il
corridoio del monastero, che dalla via pubblica mette alla chiesa e al secondo
dei tre chiostri.
«Non vorrei entrare nel monastero, stanotte, padre mio» diss’egli.
«Non vorresti entrare?»
Altre volte Benedetto, nei tre anni passati al servizio libero del
monastero, aveva ottenuto da don Clemente licenza di passar la notte fuori,
sulla montagna, pregando. Il Maestro pensò tosto che fosse giunto per il
discepolo uno di quei terribili cimenti interni che gli facevano fuggire il
povero giaciglio e le ombre chiuse, complici del Maligno nel martoriargli la
immaginazione.
«Mi ascolti, padre» disse Benedetto.
Il suo accento fu così fermo, significò a don Clemente tanta gravità di
prossime parole, che questi non credette di dover insistere sull’ora inoltrata.
Uditi in alto zoccoli ferrati di cavalcature scendere alla loro volta, i due
uscirono sul breve piano erboso che porta umili avanzi delle magnificenze
neroniane incontro ad archi sperduti nel carpineto selvaggio dell’altra sponda,
membra un tempo delle uniche Terme, cui ora divide in profondo il pianto
dell’Aniene. Sopra quegli archi era la dimora del prete diabolico e delle
peccatrici insidianti ai figli di San Benedetto. Il monaco pensò a Jeanne
Dessalle. Là in fondo alla gola, alte sopra il monte Preclaro e il monte di
Jenne Vecchio, splendevano le due stelle di cui si era parlato sulla terrazza
dei Selva come di luci sante.
Aspettarono che passassero le cavalcature. Passate che furono, Benedetto
abbracciò il suo maestro in silenzio. Don Clemente, sorpreso, sentendolo scosso
da tremiti, da sussulti, immaginando che lo avesse turbato così la vista di
quella signora, gli ripeteva:
«Coraggio, caro, coraggio, questa è una prova che il Signore ti manda.»
Benedetto gli mormorò:
«Non è quello che Lei pensa.»
E ricomposto, pregò il Maestro di sedere sopra un rudero al quale egli
stesso, postosi ginocchioni sull’erba, appoggiò le braccia incrociate.
«Da questa mattina» diss’egli «io ho segni di una volontà nuova del Signore
a mio riguardo, senza ch’io possa intendere quale. Ella sa cosa mi è avvenuto
tre anni sono in quella piccola chiesa dove stavo pregando mentre la mia povera
moglie era per morire.»
«Vuoi parlare della tua Visione?»
«No, prima della Visione, tenendo chiusi gli occhi, mi sono lette nelle
palpebre le parole di Marta: «Magister
adest et vocat te». Questa mattina, mentre Lei celebrava,
all’Elevazione, mi sono vedute nel mio interno le stesse parole. Ho creduto a
un ritorno automatico di ricordi. Dopo la Comunione ebbi un momento di ansia,
parendomi che Cristo mi dicesse nell’anima: non intendi, non intendi, non
intendi? Passai la giornata in un’agitazione continua, benché cercassi di affaticarmi
più del solito nell’orto. Nel pomeriggio stetti un poco a leggere sotto il
leccio dove si raccolgono Loro padri. Avevo Sant’Agostino: «De opere
monachorum». Passa gente sulla strada alta, discorrendo forte. Io alzo il
viso, meccanicamente. Poi, non so perché, invece di riprendere la lettura,
chiudo il libro, mi metto a pensare. Pensavo a quello che scrive Sant’Agostino
del lavoro manuale dei monaci, pensavo alla Regola di san Benedetto, a Rancé, e
come si potrebbe ritornare, nell’Ordine benedettino, al lavoro manuale. Poi, in
un momento di stanchezza, avendo però in cuore quella grandezza immensa di
Sant’Agostino, ho creduto proprio di udire una voce dalla strada alta: «Magister adest et vocat te». Sarà stata
un’illusione, sarà stato per Sant’Agostino, per un ricordo inconscio del «Tolle,
lege», non dico di no, ma intanto tremavo, tremavo come una foglia. E mi
venne questo dubbio pauroso: che il Signore mi voglia monaco? Ella lo sa, padre
mio, perché gliel’ho detto ancora forse due o tre volte, che questo si
accorderebbe con la fine della mia Visione, almeno in una cosa. Le ho però
anche detto, quando Lei mi consigliava, come don Giuseppe Flores, di non
credere nella Visione, che appunto per me questa era una ragione di non
crederci, non solo perché mi sento indegno di essere sacerdote, ma più ancora
perché mi ripugna stranamente di entrare in qualsiasi Ordine religioso. Però,
se Iddio me lo imponesse! Se questa grande ripugnanza fosse appunto una prova!
Volevo parlarle quando siamo andati dai Selva, ma Lei aveva fretta, non era
possibile. Là, su quel fascio di legne, sotto quelle rubinie, ho avuto l’ultimo
colpo. Ero stanco, tanto stanco, e mi sono lasciato vincere dal sonno per
cinque minuti. Ho sognato che camminavo con don Giuseppe Flores sotto le arcate
del cortile pensile di Praglia. Io gli dicevo piangendo: 'Ecco, è stato qui.' E
don Giuseppe mi rispondeva con tanto affetto: 'sì ma non pensi a questo, pensi
che il Signore La chiama.' E io replicavo: 'ma dove, dove mi chiama?' con tanta
angoscia che mi svegliai. Udii una voce dall’alto della casa. Si rispose dal
fondo del giardino, in francese. Vidi una signora uscire correndo dal fondo
della villa, udii i saluti che si scambiarono lei e le persone arrivate,
distinsi quella voce. Subito non la riconobbi con certezza, ma poi, siccome le
voci si avvicinavano, non dubitai più. Era lei. Per un attimo sbigottii, ma fu
proprio un attimo. Mi si fece una gran luce nella mente.»
Benedetto alzò il viso e le mani giunte. La voce gli s’infiammò di ardore
mistico.
«Magister adest» diss’egli. «Comprende? Il Divino Maestro era con me,
non avevo niente a temere, padre mio. E non temetti niente, né lei, né me. La
vidi montare sul piazzaletto. Il mio sentimento fu: se c’incontriamo soli, le
parlerò come a una sorella, le domanderò perdono, Iddio mi darà forse per lei
una parola di verità, le mostrerò di sperare per l’anima sua e non di temere
per la mia!»
Don Clemente non poté a meno d’interromperlo. «No no no, figlio mio»
diss’egli, quasi atterrito, prendendogli il capo a due mani, pensando appunto
come avrebbe potuto evitare un simile incontro, come allontanare Benedetto. I
Selva, i Selva! Bisognava avvertire i Selva.
«Comprendo che Lei mi dica così» riprese Benedetto affannosamente «ma se la
incontro, non devo io cercare di metterla a parte del mio bene come cercai di
metterla a parte del male? E non mi ha insegnato Lei che l’amare Dio sopra ogni
cosa e il porre sopra ogni cosa la salute dell’anima propria non possono andare
insieme? Che quando si ama non si pensa mai a sé? Che si desidera solamente
fare la volontà dell’amato e si vorrebbe che tutti la facessero? Che in questo
modo uno si salva certo e che chi ha sempre in mente la salute dell’anima
propria arrischia di perderla?»
«Bene bene bene, caro» rispose il padre, accarezzandogli la testa. «Tu
intanto domani vai a Jenne e ci stai fino a che non ti richiamo io. Ti do una
lettera per l’arciprete, che è una buona persona, e stai con lui. Hai capito? E
adesso andiamo al monastero perché è tardi.»
Si alzò e fece alzare Benedetto.
Sopra il loro capo l’orologio di Santa Scolastica suonava le ore. Erano
dieci? Erano undici? Don Clemente non le aveva contate dal principio e temeva
il peggio, aveva perduta, per tante diverse emozioni, la misura del tempo. Che
andava mai a capitare! Chi avrebbe previsto? E che accadrebbe ora? Uscirono dal
piano erboso e s’incamminarono per la ripida, sassosa mulattiera, don Clemente
davanti, Benedetto alle sue spalle, ambedue con l’anima in tempesta,
silenziosi, rispondendo ai loro pensieri la scura voce dell’Aniene. Ecco, ad
una svolta, i lumi lontani di Subiaco. Pochi; sono forse le undici! In breve
l’angolo nero del recinto di Santa Scolastica sorge a fronte dei viandanti. Per
quali occulte vie, pensa Benedetto, non lo ha condotto Iddio dalle logge di
Praglia, dove Jeanne lo ha tentato e vinto, a questa faticosa salita nelle
tenebre, verso un altro luogo santo, con lei vicina e il cuore fondato in
Cristo! Intanto le ragioni della prudenza pratica, prementi, in quella
distretta, su don Clemente e le ragioni della santità ideale, insegnate da lui
al diletto discepolo in tempo di calma, si contendevano la sua volontà non più
tanto ferma; le prime da vicino con violenza imperiosa, le seconde da lontano,
con la sola bellezza severa e mesta. Le due «luci sante», alte sopra l’angolo
nero del recinto, lo guardavano appunto, come gli parve, severe e meste. Oh
terra impura, pensò, terra trista! E forse prudenza impura, prudenza trista, la
prudenza terrena!
Giunti all’angolo, i due viandanti presero a sinistra voltando le spalle al
rombo profondo dell’Aniene, passarono davanti al cancello grande del monastero
e, girato l’altro canto del recinto, giunsero, per la galleria oscura che corre
sotto la biblioteca, a una porticina. Don Clemente suonò. C’era da aspettare
alquanto perché alle nove o poco dopo tutte le chiavi del monastero si portano
all’Abate.
«Dunque mi permette» chiese Benedetto «di restare fuori?»
Le altre volte che il Maestro glielo aveva permesso, egli era salito a
passar la notte in preghiera sui greppi nudi del Colle Lungo, imminenti al
monastero, o su quelli del Taleo o sulla costa petrosa che si taglia movendo
dall’oratorio di Santa Crocella al bosco del Sacro Speco. Il Maestro esitò un
poco, non ci aveva più pensato. E il discepolo gli era parso quel giorno più
smunto, più esangue del consueto; temeva per la sua salute alquanto logora
dalle fatiche del lavoro campestre, dalle penitenze, dal vivere disagiato.
Glielo disse.
«Non pensi al mio corpo» supplicò il giovane, umile e ardente. «Il mio corpo
è infinitamente lontano da me! Abbia solo paura che io non faccia il possibile
per conoscere la Volontà Divina!»
Soggiunse che avrebbe pregato anche per aver lume circa questo incontro e
che mai aveva sentito Iddio come pregando la notte sui monti. Il Maestro gli
prese il capo a due mani, lo baciò in fronte.
«Va» diss’egli.
«E Lei pregherà per me?»
«Sì, nunc et semper.»
Passi nel corridoio. Una chiave gira nella toppa. Benedetto si dilegua come
un’ombra.
Il buon vecchio fra Antonio, portinaio del monastero, aperse, non mostrò di
essersi atteso a vedere anche Benedetto, e con quel rispetto dignitoso in cui
si confondevano la sua umiltà d’inferiore e la sua coscienza di onesto
famigliare antico, disse a don Clemente che il padre Abate lo attendeva nel suo
alloggio. Don Clemente salì con un lanternino al corridoio grande dove
mettevano l’alloggio dell’Abate e, poco discosto, la sua cella stessa.
L’Abate, padre Omobono Ravasio da Bergamo, lo stava aspettando in un
salottino male rischiarato da una povera lucernina a petrolio. Il salottino,
nella sua severa modestia ecclesiastica, non aveva di singolare che una tela
del Morone, bel ritratto d’uomo, due piccole tavole con teste d’angeli di
maniera luinesca, un piano a coda, carico di musica. L’abate, appassionato per
i quadri, la musica e il tabacco da fiuto, dedicava a Mozart e a Haydn gran
parte del tempo non largo che gli concedevano i suoi doveri religiosi e le cure
del governo. Era intelligente, alquanto bizzarro, ricco di una cultura
letteraria, filosofica e religiosa ferma sdegnosamente sul 1850. Piccolo,
canuto, aveva una fisonomia arguta. Certi suoi modi orobii, certe familiarità
ruvide avevano meravigliato i monaci, avvezzi alle maniere squisitamente signorili
del suo predecessore, nobile romano. Veniva da Parma ed era entrato in carica
da soli tre giorni.
Don Clemente gli s’inginocchiò davanti, gli baciò la mano.
«Che mode avete voialtri a Subiaco?» disse l’Abate. «Fate venire le dieci
alle undici?»
Don Clemente si scusò. Aveva tardato per un dovere di carità. L’Abate lo
fece sedere.
«Figlio mio» diss’egli. «Voi soffrite il sonno?»
Don Clemente sorrise, non rispose.
«Ebbene» riprese l’Abate «voi ne avete buttato via un’ora e adesso io ho le
mie ragioni di prendervene un altro poco. Vi devo parlare di due cose. Mi avete
chiesto il permesso di recarvi a visitare certi signori Selva. Ci siete andato?
Sì? Potete dirmi di essere tranquillo nella vostra coscienza?»
Don Clemente fu pronto a rispondere con un lieve gesto di sorpresa:
«Eh, sì!»
«Bene bene bene» fece l’Abate; e fiutò, contento, una grossa presa di
tabacco. «Io non conosco questi signori Selva, ma c’è a Roma chi li conosce o
crede di conoscerli. Non è uno scrittore, il signor Selva? Non ha scritto di
religione? Mi figuro che sarà un rosminiano, a giudicare dalla gente che ce
l’ha su con lui; gente indegna di allacciar le scarpe a Rosmini, ma
intendiamoci! Rosminiani sicuri sono quelli di Domodossola e non quelli che
hanno moglie, eh? Dunque stasera, dopo cena, ho ricevuto una lettera da Roma.
Mi scrivono – un pezzo grosso, capite, – che appunto stasera si doveva tenere
in casa di questo falso cattolico signor Selva un conciliabolo di altri insetti
malefici come lui, e che probabilmente vi ci sareste recato anche voi, e che io
dovevo impedirlo. Non so cosa avrei fatto, perché se parla il Santo Padre
obbedisco, se non parla il Santo Padre rifletto; ma per vostra fortuna voi
eravate già fuori. Del resto c’è della brava gente che scoverà qualche eretico anche
in Paradiso. Adesso voi mi dite che la vostra coscienza è tranquilla. Dunque
non devo credere alla lettera?»
Don Clemente rispose che certamente a casa Selva non ci erano venuti né
eretici, né scismatici. Vi si era parlato della Chiesa, dei suoi mali, di
possibili rimedî, ma come lo stesso padre Abate avrebbe potuto parlarne.
«No, figlio mio» rispose l’Abate. «Ai mali della Chiesa e ai possibili
rimedî non ci ho a pensar io. Ossia, ci posso pensare ma non ho a parlarne che
a Dio perché ne parli poi Lui a chi tocca. E così fate anche voi. Tenete a
mente, figlio mio! I mali ci sono e i rimedî ci saranno, ma questi rimedî, chi
sa? possono essere veleni e bisogna lasciarli adoperare al Grande Medico. Noi,
preghiamo. Se non si credesse alla comunione dei Santi, cosa si starebbe a fare
nei monasteri? E in quella casa, figlio mio, per la nostra pace, non ci
ritornare! Non me lo chiedere più!»
Passando paternamente così dal voi al tu, l’Abate posò una
mano affettuosa sulla spalla del suo monaco afflitto di non poter rivedere quei
buoni amici e anche particolarmente di non poter l’indomani mattina conferire
col signor Giovanni, avvertirlo del pericolo che correva Benedetto, avvisare
insieme al riparo.
«Sono cristiani aurei» diss’egli con voce sommessa, dolente.
«Lo credo» rispose l’Abate «Credo che saranno migliori assai di questi
zelanti che scrivono di queste lettere. Vedi che non faccio complimenti. Tu sei
di Brescia, eh? Bene, io sono di Bergamo. Noi si direbbe che sono piaghe.
Sono infatti piaghe della Chiesa. Io risponderò a tôno. I miei monaci non
prendono parte a congreghe di eretici. Ma tu a, casa Selva, non ci
ritornerai.»
Don Clemente baciò rassegnato la mano del paterno vecchio.
«Adesso all’altro argomento!» disse costui. «Apprendo che qui nell’Ospizio dei
pellegrini, dove di regola non ci dovrebbe abitare stabilmente che il vaccaro,
ci sta da tre anni un giovine che ci avete collocato voi; oh, col permesso del
mio predecessore, s’intende! Un giovine che vi è molto legato, che voi dirigete
spiritualmente, che fate anche studiare in biblioteca. Vero che lavora
nell’orto, vero che mostra una pietà grande, ch’è di edificazione a tutti, ma
però, siccome non pare che abbia intenzione di farsi religioso, questo suo
soggiorno nell’Ospizio nostro dove occupa un posto da tre anni, è poco
regolare. Cosa me ne potete dire? Sentiamo.»
Don Clemente sapeva che alcuni suoi confratelli, e non i più vecchi ma
proprio i più giovani, non approvavano l’ospitalità concessa dall’Abate defunto
a Benedetto. Neppure andava loro troppo a sangue che don Clemente e lui fossero
tanto legati. Qualche dispiacere per questo, don Clemente l’aveva già avuto.
Comprese che quei tali non avevano perduto tempo, che stavano già lavorando il
nuovo Abate. Il suo bel viso si colorò di rossore. Egli non rispose subito,
volendo prima spegnersi dentro il suo corruccio con un atto di perdono mentale;
poi disse ch’era suo dovere e suo desiderio d’informarlo.
«Questo giovine» diss’egli «è un tale Piero Maironi, di Brescia. Ell’avrà
udito nominare la famiglia. Suo padre, don Franco Maironi, sposò una
donna senza nobiltà né ricchezza. Egli allora non aveva più i genitori, viveva
colla nonna paterna, la marchesa Maironi, donna imperiosa, orgogliosa.»
«Oh!» esclamò l’Abate. «L’ho conosciuta! Uno spavento! Mi ricordo! A Brescia
la chiamavano la marchesa Haynau! Aveva dodici gatti! Una gran parrucca nera!
Mi ricordo!
«Io non l’ho conosciuta che per fama» ripigliò don Clemente, sorridendo,
mentre l’Abate si faceva passare con una buona presa di tabacco e un mugolio
gutturale il cattivo sapore di quell’antipatica memoria.
«La nonna, dunque, non volle assolutamente saperne di questo matrimonio
disuguale. Gli sposi furono ospitati da uno zio della sposa, ella pure orfana.
Lui, don Franco, si fece soldato nel 1859 e morì di ferite. Sua moglie morì
poco dopo. Il figliuolo venne raccolto dalla nonna Maironi e, morta lei, da
certi Scremin, suoi parenti veneti. La nonna lo lasciò ricchissimo. Sposò una
figlia di questi Scremin, che disgraziatamente perdette la ragione poco dopo le
nozze, credo. Lui ne fu afflittissimo, condusse vita ritirata fino a che
s’incontrò, per sua sventura, in una signora divisa dal marito. Allora venne un
periodo di traviamento; traviamento di costume e traviamento di fede. Quando,
pare un miracolo del Signore!, ecco che sua moglie viene a morire e nel morire
ricupera la ragione, fa venire il marito, gli parla, muore come una Santa.
Questa morte gli volta il cuore verso Dio, egli lascia la signora, lascia le
ricchezze, lascia tutto, fugge di notte da casa sua senza dire a nessuno dove
va. Siccome aveva conosciuto me a Brescia una volta che ci andai per una
malattia di mio padre, e sapeva ch’ero a Subiaco, siccome anche aveva caro il
nostro Ordine e certe memorie della nostra povera Praglia, è capitato qua. Mi
ha raccontato la sua storia, mi ha supplicato di aiutarlo a condurre una vita
di penitenza. Credetti che aspirasse a entrare nell’Ordine. Egli mi disse
invece di non sentirsene degno, di non aver potuto ancora conoscere, circa
questo punto, la Divina Volontà, di volere intanto far penitenza, lavorare
colle proprie mani, guadagnarsi il pane, un poverissimo pane. Mi disse altre
cose, mi parlò di certi fatti sovrannaturali che gli sarebbero intervenuti. Io
ne parlai subito al padre Abate di allora e si combinò così: alloggiarlo
nell’Ospizio, farlo lavorare nella chiusura come aiuto all’ortolano e fornirgli
il vitto magrissimo ch’egli desiderava. In tre anni non ha preso né vino, né
caffè, né latte, né un uovo. Pane, polenta, frutta, erbaggi, olio, acqua pura:
non ha preso altro. La sua vita è stata una vita di Santo, ciascuno glielo può
dire. E si crede il più gran peccatore del mondo!»
«Hm!» fece l’Abate, pensoso. «Hm! Capisco! Ma perché non entra nell’Ordine? Altra
cosa: so che ha passato qualche notte fuori.»
Don Clemente sentì ancora corrersi un fuoco al viso.
«In preghiera» diss’egli.
«Sarà così ma forse non tutti crederanno. Sapete cosa dice Dante:
«Sempre a quel ch'ha faccia di menzogna
Dee l’uom chiuder la bocca quant’ei puote,
Però che senza colpa fa vergogna.»
«Oh!» esclamò don Clemente arrossendo, nella sua dignità vereconda, per
coloro che potessero aver concepito un vile sospetto.
«Scusate, figlio mio» disse l’Abate. «Non si accusa. Si biasimano le apparenze.
Non riscaldatevi. È meglio pregare in casa. E questi fatti soprannaturali, dite
su, cosa sono?»
Don Clemente rispose che erano state visioni, voci udite nell’aria.
«Hm! Hm!» fece ancora l’Abate con un complicato gioco di rughe, di labbra e
di sopracciglia, come se avesse inghiottito un sorso di aceto. «Avete detto che
si chiama?… Il nome proprio?»
«Piero, ma quando è venuto ha desiderato separarsi da questo nome, mi ha
pregato d’imporgliene un altro. Ho scelto Benedetto; mi parve il più
appropriato.»
L’Abate, a questo punto, espresse la volontà di vedere il signor Benedetto e
ordinò a don Clemente di mandarglielo l’indomani mattina, dopo il coro. Allora
don Clemente si turbò un poco, dovette confessare che non poteva prometterlo
assolutamente perché appunto anche in quella notte il giovine era uscito a
pregare ed egli non sapeva con certezza a quale ora sarebbe rientrato. L’Abate
s’inquietò molto, borbottò una sequela di rimbrotti e di riflessioni acide. Don
Clemente si decise perciò a raccontare l’incontro colla signora Dessalle,
l’antica amante, quel ch’era poi seguito per via, la sua idea di mandare
Benedetto a Jenne e di farvelo rimanere fino a che la signora non fosse
partita. Il superiore lo ascoltò a ciglia aggrottate, con un continuo brontolîo
sordo.
«Qui» esclamò finalmente «si torna a san Benedetto! Si torna alle insidie
delle peccatrici! Vada vada vada, il nostro Benedetto! A questo Jenne e anche
più in là! E non mi dicevate questo? Vi pareva poco? Vi pareva niente che si
ordissero intorno al monastero delle trame di questa fatta? Andate, adesso;
andate pure!»
Don Clemente fu per rispondere che non sapeva se si ordissero trame, se la
signora avesse riconosciuto o no il suo discepolo, che a ogni modo egli aveva
già espresso a Benedetto il proposito di allontanarlo; ma impose silenzio a
questo inutile sfogo di amor proprio, e prese, ginocchioni, congedo.
Ritolto il lanternino che aveva lasciato nel corridoio, non entrò nella sua
cella. Percorse lento lento il corridoio sino al fondo, scese lento lento, non
senza qualche sosta, per una scaletta a chiocciola, nell’altro corridoio
strettissimo che mette al Capitolo. Il pensiero del diletto discepolo orante
nella notte sul monte, l’aspettazione delle risoluzioni che prenderebbe dopo
avere comunicato con Dio, le coperte ostilità dei fratelli, i cipigli e i dubbî
dell’Abate, il timore ch’egli ponesse Benedetto nella necessità di scegliere
fra i voti monastici e il bando dal convento, gli accumulavano sul cuore un
peso spossante. Il fervore mistico di Benedetto, quella sua grande inconscia
umiltà, i suoi progressi nella intelligenza della Fede giusta le idee che
originavano dal signor Giovanni, certi lumi nuovi che gli scaturivano,
conversando, dal pensiero, la forza crescente del mutuo affetto, gli avevano
fatto concepire speranze di una prossima rivelazione, in quel naufrago del
mondo, della Divina Grazia, della Divina Verità, della Divina Potenza, per il
bene delle anime. Lo avevano detto, alla riunione di casa Selva: ci vorrebbe un
Santo. Lo aveva detto per il primo quell’abate svizzero. Secondo altri era
desiderabile un Santo laico. E questo era pure il suo pensiero, e gli pareva
provvidenziale che a Benedetto ripugnasse la vita monastica. Quasi quasi gli
parve provvidenziale anche la venuta della signora, che lo costringeva a
lasciare il convento. Ma che gli succedeva ora sul monte? Che gli diceva Iddio
nel cuore? E se…
Questo balenare di un se nuovo, inatteso, formidabile, arrestò il
meditabondo nel suo lento cammino. «Magister
adest et vocat te.» Forse lo stesso Maestro Divino chiamava Benedetto a
servirgli sotto le vesti del monaco.
Egli cessò, sbigottito, di pensare, e dal Capitolo, posato il lanternino,
entrò nella chiesa, mosse diritto alla cappella del Sacramento. Con quella
dignità che nessuna tempesta interna poteva togliere alle movenze signorili
della persona, alla pura bellezza del viso, si compose sull’inginocchiatoio nel
mezzo della cappella, fra le quattro colonne, sotto la lampada; e alzò gli
occhi al Tabernacolo.
Il Maestro della Via, della Verità e della Vita, il Diletto dell’anima, era
là e dormiva come la procellosa notte sul mare di Genezareth, fra Gadara e la
Galilea, nella barca che altre barche travagliate dai flutti seguivano per le
tenebre sonore. Era là e pregava come un’altra notte, solo, sul monte. Era là e
diceva con la sua dolce voce eterna: – venite a me, voi dolenti; voi cui la
vita è grave, tutti venite a me. – Era là e parlava, il Vivente: credete in me
che sono con Voi, ristoro vostro e pace, io l’Umile, figlio del Potente, io il
Mite, figlio del Terribile, io lavoratore dei cuori per il regno della
giustizia, per la futura unità di voi tutti meco nel Padre mio. Era là, il
Pietoso, nel Tabernacolo e spirava l’invito ineffabile: vieni, apriti,
abbandonati a me.
E Clemente si abbandonò, gli disse quello che non aveva mai confessato
neppure a sé stesso. Sentiva nell’antico monastero, tutto, tranne Cristo nel
Tabernacolo, morire. Come cellula dell’organismo ecclesiastico, elaboratrice di
calore cristiano radiante al mondo, il monastero si ossificava nella vecchiaia
inesorabile. Onorandi fochi di fede e di pietà chiuse nelle forme tradizionali,
simili alle fiamme dei ceri accesi sugli altari, vi consumavano i loro
involucri umani inviandone al cielo il vapore invisibile, senza che una sola
onda calorifica o luminosa ne vibrasse al di là delle muraglie antiche. Le
correnti dell’aria viva non vi entravano più e i monaci non uscivano più a
cercarle come nei primi secoli, lavorando nei boschi e sui prati, cooperando
alle vitali energie della natura, nell’atto stesso che magnificavano Iddio col
canto. I colloquii con Giovanni Selva lo avevano indirettamente condotto, poco
a poco, a sentire così della vita claustrale nelle sue forme presenti, pure
essendo convinto che ha indestruttibili radici nell’anima umana. Ma forse ora
per la prima volta gli avveniva di guardare il suo sentimento in faccia. Era da
un pezzo suo voto, era sua speranza che Benedetto diventasse un grande operaio
del Vangelo; non un operaio comune, un predicatore, un confessore, bensì un
operaio straordinario; non un soldato dell’esercito regolare, impedito
dall’uniforme e dalla disciplina, bensì un libero cavaliere dello Spirito
Santo; ma la Regola monastica non gli si era mai ripresentata in tale
antagonismo con il suo ideale di un Santo moderno. E se ora la Volontà Divina
si manifestasse a Benedetto proprio diversa dal desiderio suo?
Ah non era egli già quasi sull’orlo di un peccato mortale? Non presumeva già
egli quasi, polvere tracotante, di giudicare le vie di Dio? Prosternato
sull’inginocchiatoio, s’immerse nell’Onnipotente, anelando senza parole al
perdono, alla rivelazione, in Benedetto, della Volontà Divina, adorandola da
quel momento qualunque fosse. Nell’alzarsi con un naturale defluire dell’onda
mistica dal cuore, con gli occhi vôlti ancora all’altare ma non più fissi nel
Tabernacolo, non poté a meno di pensare alla Dessalle e al discorso di
Benedetto. La mediocre pala di quell’altare rappresenta la martire Anatolia che
offre dal paradiso la palma simbolica ad Audax, il giovine pagano che tentò
sedurla e ne fu invece condotto a Cristo. La Dessalle aveva sedotto Benedetto;
per quanto Benedetto si fosse studiato di scolpare lei e d’incolpare sé, don
Clemente non dubitava che le cose fossero andate così. Se ora egli operasse la
conversione di lei? Se fosse giusto che la tentasse? Se il sentimento di
Benedetto fosse realmente più cristiano che il timore suo e gli spasimi del
padre Abate? Don Clemente si dibatteva in testa questi problemi attraversando a
capo basso la chiesa. Anatolia e Audax! Gli sovvenne che un forestiere
scettico, udita da lui la spiegazione del quadro, aveva detto: sì, ma se non li
avessero ammazzati, né l’uno né l’altra? E se Audax avesse avuto moglie? E
queste beffarde parole gli erano parse una indegna profanazione. Le ripensò e,
sospirando, raccattò da terra il lanternino posato nel Capitolo.
Invece di avviarsi alla sua cella si recò nel secondo chiostro a guardare il
dorso del Colle Lungo, dove forse Benedetto stava in orazione. Alcune stelle
brillavano sul roccioso dorso grigio macchiato di nero e il loro lume oscuro
mostrava nel chiostro il piazzale, gli arboscelli sparsi, la torre possente
dell’Abate Umberto, le arcate, le mura vecchie di nove secoli e, sulla ogiva
del portale grande dove don Clemente stava contemplando, la doppia riga dei
fraticelli di sasso che vi salgono in processione. Il chiostro e la torre si
affermavano nella notte con maestà di potenza. Era proprio vero che stessero
morendo? Nel lume delle stelle il monastero pareva più vivo che nel sole,
grandeggiava in una mistica comunione di senso religioso con gli astri. Era
vivo, era pregno di effluvi spirituali diversi, confusi in una persona unica,
come le diverse pietre tagliate e scolpite a comporre la unità del suo corpo,
come diversi pensamenti e sentimenti in una coscienza umana. Le vetuste pietre,
sature di anime commiste ad esse in amore, sature di desiderii santi e di santo
dolore, di gemiti e di preci, radiavano un che oscuro, penetrante nel
subcosciente. A quei lavoratori di Dio che nelle ore aride vi si ritraessero
dal mondo a breve riposo, potevano rinfondere forza come d’estate al falciatore
in deserti montani una fonte. Ma perché le pietre durassero vive, un continuo
fiume di vita doveva pure trapassar per esse, un fiume di spiriti adoranti,
contemplanti. Don Clemente sentì quasi rimorso dei pensieri volontariamente
accolti in chiesa circa la decrepitezza del monastero, pensieri radicati nel
suo giudizio personale, piacenti al suo amor proprio, quindi viziati di quella
concupiscenza dello spirito che i suoi diletti Mistici gl’insegnavano a
discernere e ad aborrire. Giunte le mani, fissò il dorso selvaggio del monte
dove si figurava Benedetto pregante, fece un atto mentale di rinuncia, di umile
abbandono delle proprie idee circa l’avvenire di quel giovine. Benedisse Iddio
se lo voleva laico, benedisse Iddio se lo voleva monaco, se scopriva la Sua
volontà e se non la scopriva. «Si
vis me esse in luce sis benedictus, si vis me esse in tenebris sis iterum
benedictus.» E si avviò alla sua cella.
Nel grande corridoio dove le due fioche lampade ardevano ancora, passando
davanti all’uscio dell’Abate, ripensò la conversazione avuta col vecchio e
quelle sue massime circa i mali della Chiesa e la opportunità di operare contro
di essi. Ricordò un discorso del signor Giovanni sulle parole «fiat voluntas
tua» che il comune dei fedeli intende soltanto come un atto di
rassegnazione, e che implicano, invece, il dovere di lavorare con tutte le
nostre forze per il prevalere della legge divina nel campo della libertà umana.
Il signor Giovanni gli aveva fatto battere il cuore più forte e l’Abate glielo
aveva fatto battere più fiacco. Quale dei due aveva detto la parola di Vita e
di Verità?
La sua cella era l’ultima a destra, presso il balcone che guarda la conca
rigata dall’Aniene, Subiaco e i monti Sabini. Prima di entrar nella sua cella
don Clemente si fermò a guardar i lumi lontani di Subiaco, pensò alla villetta
rossa, più vicina ma invisibile, pensò a quella donna. Trame, aveva detto
l’Abate. Amava ella ancora Piero Maironi? Aveva scoperto, sapeva ch’egli si era
rifugiato a Santa Scolastica? Lo aveva riconosciuto? Se sì, che meditava di
fare? Probabilmente non aveva preso stanza nel minuscolo quartiere dei signori
Selva; probabilmente alloggiava in un albergo di Subiaco. Quei lumi lontani
erano fuochi di un campo nemico? Si fece il segno della croce ed entrò nella
sua celletta per un breve sonno fino alle due, ora di coro.
Benedetto prese la via del Sacro Speco. Oltrepassato, all’altro angolo del
monastero, il letto asciutto di un torrentello, raggiunto a destra l’oratorio
antichissimo di Santa Crocella, salì per la petraia che ruina giù verso il
rombo dell’Aniene di fronte ai carpineti del Francolano, erto e nero fino alla
croce del vertice, incoronata di stelle. Prima di toccare l’Arco che mette al
bosco del Sacro Speco, uscì di via, si arrampicò a sinistra, cercando il posto
dell’ultima sua veglia, alto sui tetti quadrati e sulla torre tozza di Santa
Scolastica. La ricerca del sasso dove aveva pregato ginocchioni un’altra
dolorosa notte, sviandogli il pensiero dal mistico foco in cui era chiuso,
glielo raffreddò. Se ne avvide tosto, ne sentì un rammarico affannoso, una
impazienza di ricuperar calore acuita dal timore di non riuscirvi, dal senso di
esserne in colpa, dal ricordo di altre aridità tristi. Gelava, gelava sempre
più. Cadde ginocchioni, chiamò Iddio con uno spasimo di preghiera. Come piccola
fiamma inutilmente apposta ad un fascio di legna verde, lo slancio della
volontà gli venne meno senza movere il cuore inerte e mancò in uno stupido
ascoltare del rombo eguale dell’Aniene. La mente gli ritornò in un assalto di
terrore. Forse la notte passerebbe intera così; forse al gelo arido seguirebbe
la tentazione calda! Impose silenzio al fervere delle immaginazioni, si
raccolse nel proposito di non smarrirsi d’animo. Allora sorse in lui l’idea
chiara che spiriti nemici gli erano sopra. Se avesse veduto intorno a sé
fiammeggiare occhi diabolici nei fessi delle pietre, ne sarebbe stato meno
certo. Sentiva in sé il vaporare di un veleno, sentiva un’assenza di amore,
un’assenza di dolore, un tedio, un peso, l’aggravarsi di un assopimento
mortale. Ricadde nello stupido ascoltare il rumore del fiume, fissi gli occhi
senza sguardo al bosco nero del Francolano. Gli passò nella visione interna,
lento automa, la immagine del prete malvagio vissuto là colla sua corte di
peccatrici. Sentì stanchezza di star ginocchioni, si accasciò su sé stesso. Ecco
ancora l’automa lento. Si voltò con un faticoso sforzo a sedere, abbandonò le
mani sui ciuffi dell’erba soffice, fra sasso e sasso, odorante. Chiuse gli
occhi nella dolcezza di quel tocco morbido, dell’odor selvaggio, del riposo; e
vide Jeanne pallida sotto l’ala obliqua di un cappello nero, piumato, che gli
sorrideva con gli occhi umidi di lagrime. Il cuore gli batté forte, forte,
forte; un filo, un filo solo di volontà buona lo tratteneva sulla china
dell’abbandono all’invito di quel volto. Spalancò gli occhi, mise, a braccia
distese, a mani aperte, un lungo gemito. E subito pensò che qualche viandante
notturno potesse averlo udito, trattenne il respiro, stette in ascolto.
Silenzio; silenzio di tutte le cose fuorché del fiume. Il cuore gli si venne
chetando. «Dio mio, Dio mio» mormorò, inorridito del pericolo corso,
dell’abisso intravvisto. Si afferrò con gli occhi, con l’anima, al gran dado
sacro, lì sotto, di santa Scolastica, al torrione tozzo, tanto buono, che
amava. Trapassò con lo spirito l’ombre e i tetti, attrasse in sé la visione
della chiesa, della lampada ardente, del Tabernacolo, del Sacramento, vi si
affisse avido. Si raffigurò con uno sforzo i chiostri, le celle, le grandi
croci presso i giacigli dei monaci, il volto serafico del suo Maestro addormentato.
Durò nello sforzo quanto poté, reprimendosi dentro con angoscia un balenar
frequente dell’obliquo cappello piumato e del viso pallido, fino a che i baleni
gli si affiochirono, gli si perdettero giù nelle profondità inconscie
dell’anima. Allora sorse faticosamente in piedi e lento come se la maestà di
una grandezza pensata governasse gli stessi suoi moti, giunse le mani, vi piegò
il mento su. Fermò il pensiero nella preghiera dell’Imitazione: «Domine, dummodo voluntas mea recta et firma ad
te permaneat, fac de me quidquid tibi placuerit.» Non vi era commozione
nel suo interno, pareva che gli spiriti di nequizia se ne fossero allontanati;
ma neppure vi erano discesi angeli. La mente stanca gli posò nel senso delle
cose esterne, delle vaghe forme, dei fiochi biancori nell’ombra, del lontano
ululo di un gufo nei carpineti, del tenue aroma d’erba che le mani giunte
odoravano ancora. L’aroma selvaggio gli richiamò il momento in cui aveva posato
le mani sull’erba, prima che gli apparisse il sorriso triste di Jeanne. Sciolse
le mani impetuoso, tornò con gli occhi avidi al monastero. No no, Iddio non
avrebbe permesso ch’egli fosse vinto, Iddio lo serbava alle opere sue. Allora
dal profondo dell’anima, senza che il volere vi avesse parte, gli si levarono fantasmi
non più evocati, per consiglio del Maestro, da quando era venuto a Santa
Scolastica; fantasmi della visione affidata in iscritto alla custodia di don
Giuseppe Flores.
Egli si vide ginocchioni a Roma in piazza San Pietro, di notte, fra
l’obelisco e la fronte del tempio immenso, illuminato dalla luna. La piazza era
vuota; il rumore dell’Aniene gli diventò il rumore delle fontane. Dalla porta
del tempio si porgeva sulla gradinata un gruppo di uomini vestiti di rosso, di
violetto e di nero. Lo fissavano minacciosi, appuntando gl’indici verso Castel
Sant’Angelo, come per intimargli di partirsi dal luogo sacro. Ma ecco, questa
non era più la Visione, questo era un immaginar nuovo! Egli sorgeva, diritto e
fiero, in faccia al manipolo nemico. Gli ruggiva improvviso alle spalle un
rombo di moltitudini accorrenti che irrompevano nella piazza dalle bocche di
tutte le vie, a fiumi. Un’ondata lo travolgeva con sé acclamando al riformatore
della Chiesa, al vero Vicario di Cristo, lo posava sulla soglia del tempio. Di
là egli si volgeva come ad affermare autorità sull’Orbe. In quel momento gli
folgorò nel pensiero Satana offrente a Cristo il regno del mondo. Precipitò a
terra, si stese bocconi sulle pietre, gemendo nello spirito: «Gesù, Gesù, non
son degno, non son degno di venir tentato come Te!» E porse le labbra strette,
le affisse al sasso, cercando Iddio nella creatura muta, Iddio, Iddio, il
sospiro, la vita, la pace ardente dell’anima. Un soffio di vento gli corse
sopra, gli mosse l’erbe intorno.
«Sei Tu» egli gemette «sei Tu, sei Tu?»
Il vento tacque.
Benedetto si stringe i pugni alle guancie, leva il capo puntando i gomiti al
sasso, sta in ascolto senza saper di che. Sospira, si ripone a sedere. Iddio
non gli parlerà. L’anima stanca tace, vuota di pensiero. Passa il tempo, lento.
L’anima stanca richiama a fatica per suo ristoro l’ultima parte della Visione,
il suo ascendere, per un notturno cielo tempestoso, incontro ad angeli
discendenti. E pensa torbidamente: se questa sorte mi aspetta, perché
rattristarmi? Se sarò tentato non sarò vinto e se sarò vinto Iddio mi rialzerà.
Neppure è necessario di domandargli cosa voglia da me. Perché non scendo a
dormire?
Benedetto si alzò, greve il capo di stanchezza plumbea. Il cielo si era
tutto coperto di nuvole pesanti fino ai monti di Jenne, dove la valle dell’alto
Aniene gira. Appena Benedetto poteva discernere la tenebra nera del Francolano,
in faccia, e i lividori, a’ suoi piedi, della petraia. Mosse per discendere e
al secondo passo si arrestò. Le gambe non lo reggevano, un soffio di sangue gli
accese il viso. Era quasi digiuno da trent’ore. Non aveva preso che un tozzo di
pane a mezzodì. Si sentì punger la persona da miriadi di spilli, batter forte
il cuore, annebbiar la mente. Quali viluppi di serpi gli si attorcigliavano ai
piedi simulando la innocenza dell’erba? E qual demonio sinistro lo attendeva lì
sotto, carponi sulla pietra, simulando un cespuglio per avventarglisi? Non lo
aspettavano i demonii anche nel monastero? Non si annidavano negli occhi del
torrione? Non avevano quegli occhi una fiamma nera? No, no, adesso non più;
adesso lo fissavano semichiusi e beffardi. Il rombo dell’Aniene, questo? No, il
ruggito dell’Abisso trionfante. Non credeva interamente a quello che vedeva, a
quello che udiva, ma tremava tremava come una festuca nel vento e le miriadi di
spilli gli camminavano per tutta la persona. Cercò svincolar i piedi dai
viluppi di serpi, non gli riuscì. Dal terrore alla collera: «devo potere!»
esclamò, forte. Dalla gola fosca di Jenne gli rispose il sordo rumor del tuono.
Guardò a quella volta. Un lampo aperse le nubi sopra il negrore del monte
Preclaro e sparì. Benedetto si provò di levar i piedi dalle serpi e ancora la
leonina voce del tuono lo minacciò.
«Cosa faccio?» si diss’egli, cercando raccapezzarsi. «Perché voglio
scendere?»
Non lo sapeva più, ebbe bisogno di uno sforzo mentale per ricordare. Ecco,
aveva pensato di scendere a dormire perché la preghiera era inutile a un uomo
sicuro di salire al cielo. E un lampo arse anche dentro di lui:
«Io tento Iddio!»
Le serpi lo stringevano, il demonio strisciava carponi alla sua volta per la
petraia tutta infernalmente viva di spiriti feroci, le fiamme nere ardevano
negli occhi del torrione, ruggendo sempre l’Abisso a trionfo. Ma il rugghio
sovrano del tuono romoreggiò per le nubi: «Non
tentare il Signore Iddio tuo.» Benedetto levò al cielo il viso e le mani
congiunte, adorando, come poté, con l’ultimo lume della offuscata coscienza,
vacillò, allargò le braccia, afferrò l’aria, piegò lentamente all’indietro,
stramazzò riverso sulla china, giacque senza moto.
Il suo corpo giaceva immobile nel vento del temporale, come un tronco
schiantato, fra il dibattersi delle ginestre e il mareggiare dell’erba. L’anima
dovette chiudersi nel contatto centrale con l’Essere senza tempo e senza
spazio, perché Benedetto, al primo ritorno della coscienza, non ebbe senso né
del luogo né dell’ora. Sentiva una levità strana delle membra, una spossatezza
fisica piacevole, una infinita dolcezza interna; prima sul viso, poi sulle mani
tanti minuti titillamenti come di animati atomi amorosi dell’aria: teneri
sussurri di voci timide intorno a quello che gli pareva il suo letto. Si rizzò
a sedere, guardò smarrito ma in pace; dimentico del dove e del quando, ma tanto
in pace, tanto contento della quieta fonte interna di un indistinto amore che
gli fluiva in tutti i vasi della vita e se ne spandeva per le cose intorno, per
le dolci piccole vite fatte amorose a lui. Sorridendo fra sé del suo proprio
smarrimento, riconobbe il dove e il come. Il quando, no. Neppure ne sentì
desiderio, neppure si domandò se dalla caduta fossero trascorse ore o minuti,
tanto lo appagava il beato presente. Il temporale era disceso verso Roma. Nel
mormorio della pioggia senza vento, piana piana, nella voce grande dell’Aniene,
nella riposata maestà dei monti, nell’odore selvaggio della petraia umida,
nello stesso proprio cuore, Benedetto sentiva un Divino confuso alla creatura,
un’ascosa essenza di paradiso. Sentiva di fondersi con le anime delle cose come
piccola voce in un coro immenso, di essere uno con la montagna odorante, con
l’aria beata. E così sommerso nel mare della paradisiaca dolcezza, abbandonate
le mani sulle ginocchia, socchiusi gli occhi, blandito dalla pioggia piana
piana, godeva non senza un vago desiderio che tanta soavità fosse conosciuta
dalla gente che non crede, dalla gente che non ama. Nel declinare del rapimento
gli ritornarono a mente i perché della presenza sua sul monte deserto nelle
tenebre della notte, e le incertezze del domani, e Jeanne, e l’esilio dal
monastero. Ma ora incertezze e dubbî erano indifferenti all’anima sua ferma in
Dio, come al Francolano immobile i tremolii del suo manto di foglie.
Incertezze, dubbî, ricordi della mistica Visione gli si disciolsero nel
profondo abbandono alla Divina Volontà, che avrebbe disposto di lui a suo
piacimento. La immagine di Jeanne, contemplata quasi dall’alto di una
inaccessibile torre, gli moveva solo il desiderio di operare fraternamente per
lei. La tranquilla ragione ripigliando intero l’ufficio suo, egli si accorse di
esser molle di pioggia fin dentro le vesti; e la pioggia, piana piana,
continuava. Che fare? Rientrare all’Ospizio dei pellegrini no perché il vaccaro
dormiva; svegliarlo per farsi aprire non avrebbe voluto né sarebbe stato
facile. Pensò di riparare sotto i lecci del Sacro Speco. Alzatosi
faticosamente, ebbe un assalto di vertigini. Aspettò un poco e poi scese adagio
adagio sulla via che da Santa Scolastica mette all’Arco d’ingresso nel bosco.
Là nella nera ombra dei grandi lecci chini e protesi, a braccia sparse, sulla
china del monte, fra il chiarore fioco, a sinistra, della costa esterna al
bosco, cadde a sedere, sfinito.
Desiderava un po’ di cibo e non osò domandarlo al Signore, parendogli
domandare un miracolo. Si dispose ad attendere il giorno. L’aria era tepida, il
suolo quasi asciutto, radi goccioloni battevano qua e là dal fogliame dei
lecci. Benedetto si assopì di un sopor lieve che appena gli velava le
sensazioni, tramutandole in sogno. Si figurò di stare in un sicuro asilo di
preghiera e di pace, all’ombra di braccia sante, protese sopra il suo capo; e
gli pareva di doverlo abbandonare per ragioni di cui gli era evidente l’impero,
benché non avesse coscienza della loro natura. Poteva uscirne per una porta cui
metteva capo la via discendente al mondo, poteva uscirne dalla parte opposta,
per un cammino ascendente a solitudini sacre. Pendeva incerto. Il batter vicino
di una grossa goccia gli fece aprire gli occhi. Dopo un primo momento di
torpore riconobbe l’Arco a destra, cui metteva capo il cammino discendente
verso Santa Scolastica, Subiaco, Roma; a sinistra il cammino ascendente verso
il Sacro Speco. E notò attonito che dall’uno e dall’altro lato, fuori dei
lecci, le pietre scoperte erano molto più chiare di prima, che tanti minuti
chiarori traforavano il fogliame sopra il suo capo. Giorno? Si fa giorno?
Benedetto avrebbe creduto oltrepassata di poco la mezzanotte. Le ore suonano a
Santa Scolastica; una, due, tre, quattro. È giorno e sarebbe anche più chiaro
se il cielo non fosse tutto una pesante nube dai monti di Subiaco a quelli di
Jenne, quantunque non piova più. Un passo da lontano; qualcuno sale verso
l’Arco.
Era il vaccaro di Santa Scolastica che, per un caso insolito, portava a
quell’ora il latte al Sacro Speco. Benedetto lo salutò. Colui all’udir questa
voce, tramortì e fu per lasciar cadere il vaso del latte.
«Oh, Benedè!» esclamò riconoscendo Benedetto. «Qui, siete?»
Benedetto gli chiese un sorso di latte per amor di Dio.
«Lo racconterete ai padri» diss’egli. «Direte ch’ero sfinito e che vi ho
chiesto un po’ di latte per amor di Dio.»
«Eh sì! eh sta bene! eh pigliate! eh bevete!» fece colui, rispettoso, avendo
Benedetto per un Santo. «Che ci avete passato la notte qui? Che ci avete preso
tutta quella pioggia? Dio come siete molle! Siete inzuppato come una spugna,
siete!»
Benedetto bevve.
«Benedico Iddio» diss’egli «per la bontà vostra e per la bontà del latte.»
Lo abbracciò e, anni dopo, il vaccaro, Nazzareno Mercuri, soleva raccontare
che mentre Benedetto lo stringeva fra le sue braccia non gli pareva esser lui;
che il sangue gli era diventato prima tutto un gelo poi tutto un foco; che il
core gli batteva forte forte come la prima volta che aveva ricevuto Cristo in
Sacramento; che un gran dolor di capo statogli addosso due giorni gli era
sfumato via; che allora egli aveva capito subito di trovarsi nelle braccia di
un Santo da miracoli e gli era caduto ginocchioni ai piedi. In fatto non
s’inginocchiò ma restò di sasso e Benedetto gli dovette dire due volte: «ora
andate, Nazzareno; andate, figliolo caro.» Avviatolo amorevolmente così al
Sacro Speco, s’incamminò egli stesso verso Santa Scolastica.
La petraia chiara era vôta di spiriti buoni e rei. Montagne, nuvole, le
stesse fosche mura del monastero e la torre parevano, nella luce scialba, gravi
di sonno. Benedetto entrò nell’Ospizio e coricatosi, senza spogliar le vesti
bagnate, sul misero giaciglio, si raccolse al petto le braccia in croce, si
addormentò profondamente.
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