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Il rombo del tuono svegliò, dopo le due, Noemi, che da pochi momenti aveva
potuto prender sonno. Ella dormiva nella camera vicina a quella di Jeanne, con
l’uscio aperto. Jeanne la chiamò subito. Avevano conversato fino alle due e
Noemi, esausta, aveva finalmente ottenuto dall’instancabile amica, dopo molto
pregare inutile, di essere lasciata in pace. Finse di non udire. Jeanne la
chiamò da capo:
«Noemi! Il temporale! Ho paura!»
«Non hai paura niente!» rispose Noemi, irritata. «Taci! Dormi!»
«Ho paura! Vengo da te!»
«Proibisco!»
«Allora vieni tu!»
Noemi replicò un «vuoi finirla?» tanto risoluto che l’altra si chetò. Per
poco. La voce di bambina dolente, che Noemi conosceva bene, ricominciò:
«Non hai dormito abbastanza? Non puoi parlare, adesso? Avrai dormito tre
ore!»
Noemi accese uno zolfanello e guardò l’orologio col quale alla mano aveva
prima invocato il silenzio.
«Ventidue minuti!» diss’ella. «Basta!»
Jeanne tacque un momento e poi mise fuori quei piccoli hm! – hm! – hm! che
son preludio al pianto di un bambino viziato. E seguì la voce sommessa:
«Non mi vuoi niente bene! – Hm! Hm! – Abbi pietà, parliamo un poco! – Hm!
Hm!»
Noemi sospirò nella sua lingua nativa:
«Oh, mon Dieu!»
E si rassegnò con un secondo sospiro:
«Avanti! Cosa puoi dirmi che tu non abbia già detto in quattr’ore?»
Il tuono ruggì ma Jeanne oramai non se ne curava più.
«Domattina andremo al monastero» diss’ella.
«Ma sì, va bene!»
«Andremo noi due sole?»
«Ma sì, è già inteso!»
La voce piagnolosa tacque un momento e riprese:
«Tu non mi hai mica promesso, ancora, che qui in casa non dirai niente?»
«Dieci volte te l’ho promesso!»
«Sai, non è vero, cosa devi dire per quello svenimento di ieri sera, se ti
domandano?»
«Lo so!»
«Devi dire che quel padre non è lui, che ho perduta una illusione e che mi
sono sentita male per questo.»
«Ma mio Dio, Jeanne, queste son venti, delle volte!»
«Come sei cattiva, Noemi! Come non mi vuoi bene!»
Silenzio.
La voce di Jeanne riprende:
«Dimmi quello che pensi. Credi proprio che mi abbia dimenticata?»
«Non rispondo più.»
«Rispondi, invece! Una parola sola! Dopo ti lascio dormire.»
Noemi pensa un poco e poi risponde asciutta, per finirla:
«Ebbene, credo di sì. Credo che non ti abbia mai amata!»
«Questo lo dici perché te l’ho detto io» ribatte Jeanne, aspra, senza
lagrime nella voce. «Tu non puoi
saperlo!»
«Bon, ça!» brontolò Noemi. «C’est
elle qui me l’a dit et je ne dois pas le savoir!»
Silenzio.
La voce flebile:
«Noemi.»
Nessuna risposta.
«Noemi, ascolta.»
Niente. Jeanne si mette a piangere e Noemi cede.
«Ma, santo cielo, cosa vuoi?»
«Piero non può sapere che mio marito è morto.»
«Bene. E allora?»
«Allora non può sapere che sono libera.»
«E dunque?»
«Stupida! Mi fai venire una rabbia!»
Silenzio. Jeanne sa bene quale specie di rabbia è la sua. L’amica pensa
troppo come lei stessa che vorrebbe tanto essere contraddetta nel suo
presentimento doloroso, avere una parola di speranza.
Rise un riso lieve, forzato:
«Noemi, fai l’offesa, adesso, apposta, per non parlare.»
Silenzio.
Jeanne riprende, mansueta:
«Senti. Non credi che avrà della tentazioni?»
Silenzio.
Jeanne non si cura, stavolta, che Noemi non risponda. Esclama:
«Sarebbe bella che proprio adesso non avesse più intenzioni!»
Il suo sdegno è tanto comico che Noemi, pure molto scandolezzata, non può a
meno di ridere; e ride anche lei. Noemi ride; però anche la sgrida di queste
sciocchezze enormi che dice senza riflettere. Perché Noemi conosce Jeanne e sa
che Jeanne in questo momento non è la vera Jeanne, conscia e signora di sé; o
forse è la Jeanne più vera ma non certo quella che starà a fronte di Piero
Maironi se mai s’incontrano.
Il tuono tace e Jeanne vorrebbe vedere il tempo che fa, ma le pesa di
scendere dal letto, teme di sentirsi male, teme il dubbio di non poter salire
fra qualche ora al monastero. Teme poi anche le difficoltà che gli ospiti
farebbero se il tempo fosse troppo cattivo; le preme dunque di sapere come si
dispone il cielo. Bisogna che scenda Noemi, la schiava cui ben di rado riescono
vittoriose le ribellioni. Noemi scende, apre la finestra, esplora il buio con
la mano distesa. Minute frettolose goccioline le titillano la mano. Il buio si
varia un poco agli occhi di lei. Ella distingue, lì sotto, Santa Maria della
Febbre, grigia sul campo nero. Le si rischiara la nuvolaglia pesante, vi
nereggiano su le braccia della quercia imminente a destra, i profili delle
montagne. Le minute frettolose goccioline titillano titillano la mano distesa,
che si ritrae. Jeanne domanda:
«Dunque?»
«Piove.»
Ella sospira: «che noia!» come se avesse a piovere in eterno. E le
goccioline prendono maggior voce, riempiono di sommesse parole la camera, si
affiochiscono ancora. Jeanne non ha inteso le sommesse parole, non ha inteso
che l’uomo di cui ha pieno il cuore giace svenuto sulla petraia deserta che la
pioggia lava.
A mattina inoltrata la signora Selva, un po’ inquieta per non avere ancora
veduto comparire né l’una né l’altra delle due signore, entrò pian piano nella
camera di sua sorella. Noemi era quasi vestita e le accennò di tacere. Jeanne
dormiva, finalmente. Le due sorelle uscirono insieme, si recarono nello studio
di Giovanni che ve le attendeva. Dunque? Don Clemente era proprio l’uomo?
Marito e moglie desideravano sapere, per regolarsi. Giovanni non dubitava più e
sua moglie dubitava ancora. Noemi Noemi doveva sapere! Giovanni chiuse l’uscio,
mentre Maria, interpretando il silenzio di sua sorella per una conferma,
insisteva: «ma davvero? ma davvero?»
Noemi taceva. Avrebbe forse tradito il segreto dell’amica nell’intento di
cospirare con i Selva per la sua felicità, se non l’avesse trattenuta il dubbio
di un disaccordo con i Selva e anche il senso di qualche cosa di malfermo in sé
stessa. Probabilmente i Selva, cattolici, non desideravano che l’uomo fuggito
dal mondo vi ritornasse. Lei, protestante, non poteva pensare così. Almeno non
lo avrebbe dovuto. Lei doveva pensare che Iddio si serve meglio nel mondo e nel
matrimonio. Lo pensava, ma non si nascondeva che se il signor Maironi adesso
sposasse Jeanne non lo potrebbe stimare molto. Insomma era meglio tacere la
strana verità.
«Cosa pensate?» diss’ella.» Che quell’ecclesiastico di ieri sera, che è
passato davanti a noi dopo tutta quella vostra mimica, fosse l’amante antico? È
quello il vostro don Clemente? Bene, non è lui.»
«Ah! Proprio no?» esclamò Giovanni fra sorpreso e incredulo. Sua moglie
trionfò.
«Ecco!» diss’ella.
Ma Giovanni non si diede per vinto. Domandò a Noemi se fosse ben certa di
quello che diceva, e come potesse spiegare il tramortimento della signora
Dessalle. Noemi rispose che non c’era da spiegar niente. Jeanne soffriva di
anemia ed era soggetta ad accessi di spossatezza mortale. Giovanni tacque, poco
persuaso. Se proprio era stato così, come poteva Noemi affermare con tanta
sicurezza che don Clemente non era l’uomo? Nelle parole, nel fare, nel viso di
sua cognata, Giovanni sentiva qualche cosa di poco chiaro, di poco naturale.
Maria s’informò della notte. Come l’aveva passata la signora Dessalle?
Inquieta? Ma di quale inquietudine?
«È stata inquieta! Che vi debbo dire?» fece Noemi, un po’ seccata. E si
accostò alla finestra aperta come per spiare le intenzioni delle nuvole.
Giovanni fece un passo verso di lei, risoluto di venire a capo delle sue
reticenze. Ella lo presentì e si affrettò ad un rifugio, a chiedergli il suo
pronostico del tempo.
Il cielo era tutto coperto, grandi nuvole basse traboccavano dai dorsi di
Monte Calvo sopra i Cappuccini e la Rocca. L’aria era tepida, il fragore
dell’Aniene, forte. Giù in basso il curvo nastro della strada di Subiaco
traspariva fosco di mota fra i fogliami degli ulivi. Giovanni rispose:
«Pioggia.»
Noemi domandò subito quanta strada ci fosse dal villino ai Conventi. A Santa
Scolastica venti minuti. Perché lo domandava? Udito che Jeanne intendeva
andarvi con Noemi quella mattina stessa, Maria protestò. Con un tempo simile?
L’ultimo tratto bisognava farlo a piedi. Non potevano aspettare, rimandare a
domani, a dopo domani?
«Quando te l’ha detto?» chiese Giovanni, quasi brusco.
Noemi esitò e poi rispose:
«Stanotte.»
Comprese, nel dire la parola, che suggeriva sospetti, specie dopo
quell’attimo di esitazione; e attese un assalto, incerta se resistere o cedere.
«Noemi!» esclamò Giovanni, severo.
Ella lo guardò, soffusa il viso di un lieve rossore. Non disse neppure – che
c’è? –; tacque.
«Non negare!» ripigliò suo cognato. «Questa signora ha riconosciuto don
Clemente. Non negare, dillo, è un dovere di coscienza per te! Non è possibile
di permettere che s’incontrino!»
«Quello che ho detto è vero» rispose Noemi, ferma oramai della via che
terrebbe. Nella sua voce senza sdegno, quasi sommessa, era una implicita
confessione di non aver detto la verità intera.
«Non lo ha riconosciuto? Però tu, qualche cosa sai!»
«So qualche cosa» rispose Noemi «sì, ma non posso dire quello che so. Vi
dico solo di far avvertire subito don Clemente che la signora Dessalle e io si
va stamane a visitare i Conventi. Altro non vi dico e vado a vedere se Jeanne
si è svegliata.»
Ella uscì di volo. I Selva si guardarono. Che significava questo voler
avvertire don Clemente? Maria lesse nel pensiero di suo marito qualche cosa che
le dispiacque, che non avrebbe voluto gli venisse alle labbra.
«Scrivi questo biglietto a don Clemente, intanto» diss’ella.
Ma Giovanni, prima di scrivere, volle pur dire quello che pensava. Per lui
vi era una sola spiegazione possibile. Don Clemente era veramente l’uomo. Noemi
aveva promesso alla signora Dessalle di non dirlo ma voleva impedire
l’incontro. Maria esclamò vivacemente: «Oh Noemi, mentire, no!» e poi arrossì,
sorrise, abbracciò suo marito come se temesse di averlo offeso. Perché appunto
Giovanni si era offeso una volta di certe parole sfuggite a lei sulla poca
sincerità degl’italiani e adesso un’ombra di quella nube poteva forse ritornare
per effetto della sua esclamazione. Egli fu punto infatti, più dall’abbraccio
che dalla protesta, e arrossì pure, ricordando, e sostenne che al posto di
Noemi anche Maria avrebbe negato. Maria tacque, uscì dallo studio, brillandole negli
occhi una lagrima importuna. Giovanni si compiacque, in principio, di avere
rintuzzata una tenerezza offensiva e si mise a scrivere il biglietto per don
Clemente. Non l’aveva finito di scrivere e il suo corruccio gli era già
diventato rimorso. Si alzò, uscì in cerca della moglie. Era nel corridoio con
Noemi che discorreva piano. Volse tosto il viso a lui, lo intese, gli sorrise
con gli occhi ancora umidi, gli fé cenno di accostarsi e di parlar sotto voce.
Che c’era? C’era che Jeanne voleva partire subito per Santa Scolastica. Noemi
avvertì ch’era appena svegliata e che questo subito significava un’ora e
mezzo, almeno. Ma bisognava mandare a Subiaco per una carrozza, poiché Jeanne
non era in grado di fare a piedi che lo stretto necessario, l’ultimo tratto di
via.
Un tocco di campanello richiamò Noemi. Jeanne l’aspettava, impaziente.
«Che cameriera pettegola!» diss’ella, tra sorridente e crucciata. «Cosa sei
andata a raccontare a tua sorella?»
Noemi la minacciò di andarsene. Jeanne giunse le mani, supplichevole. E le
domandò fissandola negli occhi, scrutandone l’anima:
«Come mi pettino? Come mi vesto?»
Noemi rispose sbadatamente:
«Ma come vuoi!»
L’altra batté il piede a terra, sbuffando. Allora Noemi capì.
«Da contadina» diss’ella.
«Sciocchissima creatura!»
Noemi rise.
Jeanne gemette il solito ritornello:
«Non mi vuoi bene! Non mi vuoi bene!»
Allora Noemi si fece seria, le domandò se volesse proprio riprenderselo, il
suo Maironi.
«Voglio esser bella!» esclamò Jeanne. «Ecco!»
Ella era veramente bella così, nella sua veste da camera di un giallo
ardente, con il suo fiume di capelli bruni, cadenti un palmo sotto la cintura.
Era molto più bella e più giovine che la sera prima. Aveva negli occhi quella
intensità di vita che prendevano un tempo quando Maironi entrava nella stanza
dov’era lei, quando anche solo ella ne udiva il passo nell’anticamera.
«Vorrei la mia toilette di Praglia» diss’ella. «Vorrei comparirgli
davanti col mio mantello verde foderato di pelliccia, adesso in maggio. Vorrei
che vedesse subito quanto sono ancora la stessa e quanto voglio essere la
stessa. – Oh Dio Dio!»
Gettò le braccia, con un subito slancio, al collo di Noemi, le impresse la
bocca sulla spalla, soffocando un singhiozzo, mormorò parole che Noemi non
poteva distinguere.
«No no no» diceva «sono pazza, sono cattiva, andiamo via, andiamo via.»
Alzò il viso lagrimoso. «Andiamo a Roma» diss’ella.
«Sì sì» rispose Noemi, commossa «andiamo a Roma, partiamo subito. Adesso
domando a che ora c’è un treno.»
Jeanne l’afferrò di colpo, la trattenne. No, no, era una pazzia, cos’avrebbe
detto sua sorella? Era una pazzia, era una cosa impossibile. E poi, e poi, e
poi... Si coperse il viso, si mormorò dentro le mani che le bastava di vederlo,
di vederlo un solo momento, ma che partire senza vederlo non poteva, non
poteva, non poteva.
«Andiamo!» diss’ella, dopo un lungo silenzio, scoprendosi il viso.
«Vestiamoci! Mi vestirò come vorrai tu; di sacco, se vorrai, di cilicio.»
Ell’aveva ricuperato il suo sorriso cruccioso di prima.
«Chi sa?» disse. «Forse mi farà bene di vederlo vestito da contadino.»
«Io guarirei subito» mormorò Noemi; e arrossì, sentendo di aver detto una
grossa falsità.
Quando la signora Selva bussò all’uscio per avvertire che la carrozza era
pronta, Jeanne pregò Noemi, con umiltà comica, di lasciarle mettere il grande
cappello Rembrandt che prediligeva. Le nere ali piumate, curve sul viso
pallido, sui neri fuochi degli occhi, sull’alta persona avvolta in un mantello
scuro, parevan vive dell’anima stessa di lei, cupa, appassionata e altera. Ella
sentì, nel dare il buongiorno a Maria Selva, l’ammirazione che destava. La
sentì anche negli occhi di Giovanni, ma diversa, non simpatica. Appena
lasciatolo per scendere con Noemi al cancello dove la carrozza aspettava, le
domandò se avesse detto niente, proprio niente, a suo cognato. Avutane una
risposta rassicurante, mormorò:
«Mi pareva.»
Fatti pochi passi, le strinse forte il braccio, esclamò lieta come per una
scoperta improvvisa:
«Però sono ancora bella!»
Noemi non le dava retta. Noemi si domandava: il nome Dessalle avrà detto
qualche cosa al quel frate? Lo avrà egli udito da Maironi? Se Maironi gli ha
raccontato di questo amore, non potrebbe avere taciuto il nome della signora?
In fondo ell’aveva un’acuta curiosità di conoscere l’uomo che aveva ispirato a
Jeanne un sentimento così forte ed era scomparso dal mondo in un modo così
strano. Ma lo avrebbe voluto vedere da sola. Era uno sgomento di pensare che i
due s’incontrassero senza qualche preparazione. Almeno poter prima parlare a
questo frate, a questo don Clemente, accertarsi che sa, informarlo se non sa,
apprendere da lui qualche cosa di quell’altro, il suo stato d’animo, le sue
intenzioni! Basta, pensò salendo in carrozza, faccia la Provvidenza! E assista
questa povera creatura!
Nel metter piede a terra dove comincia la mulattiera, Jeanne propose
timidamente, come chi prevede un rifiuto e lo riconosce ragionevole, di salire
ai Conventi sola, colla guida di un monello corso da Subiaco dietro la
carrozza. Il rifiuto venne infatti e vivacissimo. Non era possibile! Che mai le
veniva in mente? Allora Jeanne supplicò di essere almeno lasciata sola con lui,
se lo avesse trovato. Noemi non seppe che rispondere.
«E se ti precedessi?» diss’ella. «Se domandassi del padre Clemente? Se
cercassi di capire cos’è, cosa fa e cosa pensa il tuo…»
Jeanne la interruppe, esterrefatta.
«Il padre? Parlare al padre?» esclamò squadernandole ambedue le mani sul
viso come per turarle la bocca. «Guai a te se parli al padre!»
S’incamminarono lentamente per la sassosa mulattiera. Jeanne si fermava
spesso, presa da tremiti, vibrando come un filo teso al vento. Porgeva allora
in silenzio a Noemi le mani gelate perché sentisse e le sorrideva. Nel mare
delle nebbie correnti a monte comparve, curioso anche lui, l’occhio smorto del
sole.
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