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Don Clemente celebrò messa verso le sette, parlò coll’Abate e poi si recò
all’Ospizio dei pellegrini. Trovò Benedetto addormentato con le braccia in
croce sul petto, le labbra socchiuse, il viso composto a una visione interna di
beatitudine. Gli accarezzò i capelli, lo chiamò sottovoce. Il giovine si
scosse, alzò, smarrito, il capo, balzò dal letto, afferrò e baciò la mano a don
Clemente che la ritrasse con un impeto di umiltà frenato subito dal suo pudore
d’anima, dalla coscienza dignitosa del suo ministero.
«Dunque?» diss’egli. «Il Signore ti ha parlato?»
«Sono nella Sua volontà» rispose Benedetto «come una foglia nel vento. Come
una foglia che non sa niente.»
Il monaco gli prese il capo a due mani, lo attirò a sé, gli posò le labbra
sui capelli, ve le tenne a lungo in una silenziosa comunicazione di spirito.
«Devi andare dall’Abate» diss’egli. «Dopo verrai da me.»
Benedetto lo fissò, lo interrogò senza parole: perché questa visita? Gli
occhi di don Clemente si velarono di silenzio e il discepolo si umiliò in uno
slancio muto ma visibile di obbedienza.
«Subito?» diss’egli.
«Subito.»
«Posso lavarmi al torrente?»
Il Maestro sorrise:
«Va, lavati al torrente.»
Lavarsi all’acqua che talvolta, per abbondanza di pioggie, suona nella valle
Pucceia a levante del monastero e taglia di rigagnoli la via del Sacro Speco
sotto Santa Crocella, era il solo piacere fisico che Benedetto si concedesse.
Piovigginava; nebbie fumavano lente nel vallone alto, le tremole acque tenui si
dolevano a Benedetto fuggendo attraverso la via, gli tacevano contente nel cavo
delle mani, gl’infondevano per la fronte, gli occhi, le guance, il collo, fino
al cuore, un senso della loro anima casta, dolce, un senso di bontà Divina.
Benedetto si versò l’acqua sul capo largamente, e lo spirito dell’acqua gli
alitò nel pensiero. Sentì che il Padre lo avviava per novo cammino, che ve lo
avrebbe portato nella Sua mano potente. Benedisse riverente la creatura per la
quale gli si era infuso tanto lume di grazia, l’acqua purissima; e ritornò
all’Ospizio. Don Clemente, che lo attendeva nel cortile, trasalì al vederlo;
tanto gli parve trasfigurato. Sotto la selva umida dei capelli in disordine gli
occhi avevano una quieta gioia celestiale, e lo scarno viso di avorio una
spiritualità occulta quale fluiva dai pennelli del Quattrocento. Come poteva
quel volto accordarsi con gli abiti contadineschi? Don Clemente si applaudì in
cuor suo di un pensiero concepito nella notte e già espresso all’Abate: dare a
Benedetto un vecchio abito di converso. Prima di concedere o rifiutare il
proprio consenso, l’Abate voleva vedere Benedetto, parlargli.
L’Abate aspettava Benedetto suonando un pezzo di sua composizione con le
nocche delle dita, e accompagnando il suono con diabolici storcimenti delle
labbra, delle narici, delle sopracciglia. Udito bussar discretamente all’uscio,
non rispose né tralasciò di suonare. Terminato il pezzo, lo ricominciò, lo
suonò una seconda volta da capo a fondo. Poi stette in ascolto. Fu bussato
ancora, più lievemente di prima. L’Abate esclamò:
«Seccatore!»
E, strappati alcuni accordi, si pose a fare delle scale cromatiche. Dalle
scale cromatiche passò agli arpeggi. Poi stette ancora in ascolto, per tre o
quattro minuti. Non udendo più nulla, andò ad aprire, vide Benedetto che
s’inginocchiò.
«Chi è costui?» diss’egli, ruvido.
«Il mio nome è Piero Maironi» rispose Benedetto «ma qui al monastero mi
chiamano Benedetto.»
E fece l’atto di prender la mano dell’Abate per baciarla.
«Un momento!» disse l’Abate, accigliato, ritraendo e alzando la mano. «Cosa
fate qui?»
«Lavoro nell’orto del monastero» rispose Benedetto.
«Sciocco!» esclamò l’Abate. «Domando cosa state facendo qui davanti alla mia
porta!»
«Ero per venire da Vostra Paternità.»
«Chi vi ha detto di venire da me?»
«Don Clemente.»
L’Abate tacque, considerò lungamente l’uomo inginocchiato, poi brontolò
qualche cosa d’incomprensibile e finalmente gli porse la mano a baciare.
«Alzatevi!» diss’egli ancora brusco. «Entrate! Chiudete l’uscio!»
L’Abate, entrato che fu Benedetto, parve dimenticarlo. Inforcò gli occhiali,
si pose a sfogliare libri e a leggere carte, voltandogli le spalle. Benedetto
aspettava diritto in piedi, con ossequio militare, ch’egli parlasse.
«Maironi di Brescia?» disse l’Abate, con la voce ostile di prima e senza
voltarsi.
Avuta la risposta, continuò a sfogliare e a leggere. Finalmente si levò gli
occhiali e si voltò.
«Cosa siete venuto a fare» diss’egli «qui a Santa Scolastica?»
«Sono stato un gran peccatore» rispose Benedetto. «Iddio mi ha chiamato
fuori del mondo e fuori ne son venuto.»
L’Abate tacque un momento, guardò fisso il giovine, disse con dolcezza
ironica:
«No, caro.»
Trasse la tabacchiera, la scosse ripetendo dei piccoli «no – no – no» quasi
sotto voce, guardò nel tabacco, vi piantò le dita e levati gli occhi da capo su
Benedetto, gli disse articolando lentamente le parole:
«Questo non è vero.»
Ghermita la presa con il pollice, l’indice e il medio, alzò la mano rapidamente
come per gettar il tabacco in aria e proseguì con il braccio alzato:
«Sarà vero che siete stato un gran peccatore, ma non è vero che siate venuto
fuori del mondo. Non siete né fuori né dentro.»
Fiutò rumorosamente la sua presa e ripeté:
«Né fuori né dentro.»
Benedetto lo guardava senza rispondere. Vi era in quegli occhi qualche cosa
di tanto grave e di tanto dolce che l’Abate riabbassò i suoi alla tabacchiera
aperta, tornò a frugarvi, a giocherellare col tabacco.
«Non vi capisco» diss’egli. «Siete nel mondo e non siete nel mondo. Siete
nel monastero e non siete nel monastero. Ho paura che la testa vi serva come a
vostro bisnonno, a vostro nonno e a vostro padre. Belle teste!»
Il viso di avorio di Benedetto si colorò lievemente.
«Sono anime in Dio» diss’egli «superiori a noi; e le parole Sue vanno contro
un comandamento di Dio.»
«Fate silenzio!» esclamò l’Abate. «Dite di avere lasciato il mondo e siete
pieno del suo orgoglio. Se volevate lasciare il mondo sul serio, dovevate
cercare di farvi novizio! Perché non l’avete cercato? Avete voluto venir qua in
villeggiatura, ecco la storia. O forse avevate degl’impegni a casa vostra, dei
pasticci, mi capite! Nec nominentur in nobis. E avete voluto
liberarvi per farne poi degli altri. E contate delle frottole a quel buon don
Clemente, prendete il posto a un povero pellegrino, eh dite su, magari cercando
di darla a intendere ai frati, che è facile, e a Domeneddio, che è difficile,
con orazioni e sacramenti. Non dite di no!»
Il lieve rossore si era dileguato dal viso di avorio, le labbra apertesi un
momento a parole pacatamente severe non si muovevano più, gli occhi penetranti
fissavano l’Abate con la dolce gravità di prima. E l’Abate parve inasprito da
quel silenzio tranquillo.
«Parlate, dunque!» diss’egli «Confessate! Non vi siete anche vantato di doni
speciali, di visioni, che so io, di miracoli forse anche? Siete stato un gran
peccatore? Mostrate che non lo siete ancora! Scolpatevi, se potete. Dite come
avete vissuto, spiegate la vostra pretensione che Iddio vi abbia chiamato,
giustificatevi di essere venuto a mangiare il pane dei frati a ufo, perché
frate non avete voluto essere e quanto a lavorare avete lavorato ben poco!»
«Padre» rispose Benedetto e il tôno severo della voce, la severa dignità del
volto mal si accordavano con la mansuetudine umile delle parole, «questo è
buono per me peccatore che da tre anni vivo, per lo spirito, nella mollezza e
nelle delizie, vivo nella pace, vivo nell’affetto di persone sante, vivo in
un’aria piena di Dio. Le Sue parole sono buone e dolcissime all’anima mia, sono
una grazia del Signore, mi hanno fatto sentire con le loro punte quanto
orgoglio vi è ancora in me che non lo sapevo, perché nel disprezzarmi da me
sentivo piacere. Come servo, poi, della santa Verità, le dico che la durezza
non è buona neppure con uno che inganna, perché forse la soavità lo farebbe
pentire del suo inganno; e che nelle parole della Paternità Vostra non è lo
spirito del nostro Padre solo e vero, al quale sia gloria.»
Nel dire «al quale sia gloria» Benedetto cadde ginocchioni, acceso in viso
da un fervore augusto.
«Sei tu, peccatore tristo, che vuoi fare il maestro?» esclamò l’Abate.
«Ha ragione, ha ragione» rispose Benedetto di slancio, affannosamente e
giungendo le mani. «Ora Le dico il mio peccato. Desiderai l’amore illecito, mi
compiacqui della passione di una donna ch’era d’altri come d’altri ero io e
l’accettai. Lasciai ogni pratica di religione, non curai di dare scandalo.
Questa donna non credeva in Dio e io disonorai Dio presso di lei colla mia fede
morta, mostrandomi sensuale, egoista, debole, falso. Iddio mi richiamò colla
voce dei miei morti, di mio padre e di mia madre. Mi allontanai allora dalla
donna che mi amava, ma senza vigore di volontà, ondeggiando nel mio cuore fra
il bene e il male. In breve ritornai a lei, tutto ardente di peccato,
conoscendo di perdermi e risoluto a perdermi. Non vi era più un atomo di
volontà buona nell’anima mia quando una mano morente, cara, santa, mi afferrò e
mi salvò.»
«Guardatemi bene» disse allora l’Abate senza farlo alzare. «Avete mai fatto
sapere a nessuno ch’eravate qui?»
«A nessuno. Mai.»
L’Abate rispose secco:
«Non vi credo.»
Benedetto non batté ciglio.
«Voi sapete» ripigliò l’Abate «perché non vi credo.»
«Lo suppongo» rispose Benedetto piegando il viso. «Peccatum meum contra
me est semper.»
«Alzatevi!» comandò l’inflessibile Abate. «Io vi caccio dal monastero. Ora
vi recherete a salutare don Clemente nella sua cella e poi partirete per non
ritornare mai più. Avete inteso?»
Benedetto assentì del capo, ed era per piegare il ginocchio all’omaggio di
rito quando l’Abate lo trattenne con un gesto.
«Aspettate» diss’egli.
Rinforcò gli occhiali, prese un foglio di carta e vi scrisse, stando in
piedi, alcune parole.
«Cosa farete» disse scrivendo «quando sarete fuori?»
Benedetto rispose piano:
«Il bambino preso in braccia dal padre mentre dormiva, sa egli cosa il padre
farà di lui?»
L’Abate non replicò niente, finì di scrivere, pose il foglio in una busta, la
chiuse, la tese, senza voltare il capo, a Benedetto che gli stava dietro le
spalle.
«Prendete» disse «portate a don Clemente.»
Benedetto gli chiese il permesso di baciargli la mano.
«No, no, andate via, andate via!»
La voce dell’Abate tremava di collera. Benedetto ubbidì. Appena fu nel
corridoio udì l’uomo incollerito strepitare sul piano.
Prima di entrare nella celletta di don Clemente, Benedetto si fermò davanti
alla grande finestra che termina il corridoio. Ivi si era trattenuto, poche ore
prima, il Maestro a contemplare i lumi di Subiaco pensando la nemica, la
creatura di bellezza, d’ingegno, di naturale bontà, venuta forse a contendergli
il suo figliuolo spirituale, a contenderlo a Dio. Ora il figliuolo spirituale
era misteriosamente certo che la donna male amata da lui nel tempo del suo
gravitare cieco e ardente sulle cose inferiori, aveva scoperto la sua presenza
nel monastero e sarebbe venuta a cercarlo. Disceso dentro lo Spirito interno al
proprio cuore, egli vi attingeva un pio sentimento del Divino ch’era pure in
lei, ascoso a lei stessa, una mistica speranza che per qualche oscura via ella
pure arriverebbe un giorno al mare di verità eterna e di amore, che attende
tante povere anime erranti.
Don Clemente lo aveva udito venire e aperse a mezzo l’uscio della cella.
Benedetto entrò, gli porse la lettera dell’Abate.
«Debbo lasciare il monastero» diss’egli, sereno. «Subito e per sempre.»
Don Clemente non rispose, aperse la lettera. Letta che l’ebbe, osservò a
Benedetto, sorridendo, che la sua partenza per Jenne era stata decisa fin dalla
sera precedente. Vero, ma l’Abate aveva detto: per non ritornare mai più. Don
Clemente aveva le lagrime agli occhi e sorrideva ancora.
«Lei è contento?» disse Benedetto, quasi dolente.
Oh, contento! Come avrebbe potuto dire il suo Maestro, quel che
sentiva? Partiva il discepolo diletto, partiva per sempre, dopo tre anni di
dolce unione spirituale; ma ecco, l’ascosa Volontà si era manifestata, Iddio lo
toglieva dal monastero, lo chiamava per altre vie. Contento! Sì, afflitto
e contento, ma della sua contentezza non poteva dire il perché a Benedetto. La
parola divina non avrebbe avuto valore per Benedetto s’egli non la intendeva da
sé.
«Contento, no» diss’egli. «In pace, sì. Noi c’intendiamo, vero? E adesso
raccogliti per le mie parole ultime, che spero ti saranno care.»
Don Clemente, nel dir così a voce bassa, si colorò tutto di rossore.
Benedetto piegò il capo a lui che gl’impose ambo le mani con dignità soave.
«Desideri» disse la virile voce piana «dare tutto te stesso alla Verità
Suprema, alla sua Chiesa visibile e invisibile?»
Come se si fosse atteso a quell’atto e a quella domanda, Benedetto rispose
pronto con voce ferma:
«Sì.»
La voce piana:
«Prometti tu, da uomo a uomo, vivere senza nozze e povero fino a che io ti sciolga
della tua promessa?»
La voce ferma:
«Sì.»
La voce piana:
«Prometti tu essere sempre obbediente all’autorità della Santa Chiesa
esercitata secondo le sue leggi?»
La voce ferma:
«Sì.»
Don Clemente attirò a sé il capo del discepolo e gli parlò sulla fronte:
«Ho chiesto all’Abate di poterti dare un abito di converso, perché uscendo
di qua tu porti sopra di te almeno il segno di un umile ministero religioso.
L’Abate, prima di decidere, ha voluto parlarti.»
Qui don Clemente baciò il discepolo in fronte, significando così il giudizio
dell’Abate dopo il colloquio, chiudendo in quel bacio silenzioso parole di
lode, non credute convenienti al suo carattere paterno né alla umiltà del
discepolo. E non si avvide che il discepolo tremava da capo a piedi.
«Ecco» diss’egli «quel che l’Abate scrive dopo averti parlato.»
Mostrò a Benedetto il foglio dove l’Abate aveva scritto:
«Concedo. Fatelo partire subito perché io non sia tentato di trattenerlo.»
Benedetto abbracciò di slancio il suo Maestro e gli appoggiò la fronte a una
spalla, senza parlare. Don Clemente mormorò:
«Sei contento? Adesso te lo domando io.»
Ripeté due volte la domanda senza ottenere risposta. Venne finalmente un
sussurro:
«Posso non rispondere? Posso pregare un momento?»
«Sì, caro, sì.»
Accanto al lettuccio del monaco, alta sopra l’inginocchiatoio, una grande
croce nuda diceva: Cristo è risorto, configgi ora tu a me l’anima tua. Infatti
qualcuno, forse don Clemente, forse un suo predecessore, vi aveva scritto
sotto: «omnes superbiae motus ligno crucis affigat.» Benedetto si
stese bocconi a terra, posò la fronte ov’eran da posare le ginocchia. Per la
finestra aperta della cella uno scialbo lume del cielo piovoso batteva, di
sghembo, sul dorso dell’uomo prosteso e dell’uomo ritto in piedi con la faccia
levata verso la croce grande. Il mormorio della pioggia, il rombo dell’Aniene
profondo avrebbero detto a Jeanne uno sconsolato compianto di tutto che vive
sulla terra e ama. A don Clemente dicevano un consenso pio della creatura
inferiore con la creatura supplice al Padre comune. Benedetto non li udiva.
Egli si alzò, pacato in viso, vestì, a un cenno del Maestro, la tonaca di
converso stesa sul letto, cinse la cintura di cuoio. Vestito che fu, si mostrò,
aprendo le braccia e sorridendo, al Maestro, che si compiacque di vederlo così
dignitoso, così spiritualmente bello in quell’abito.
«Lei non ha inteso?» disse Benedetto. «Non ha pensato una cosa?»
No, don Clemente aveva pensato che quella gran commozione di Benedetto fosse
stata effetto di umiltà. Adesso capiva che altro gli sarebbe dovuto venire in
mente; ma cosa?
«Ah!» esclamò a un tratto. «Forse la tua Visione?»
Certo. Benedetto si era visto morire sulla nuda terra, all’ombra di un
grande albero, nell’abito benedettino; e argomento di non credere nella Visione
giusta i consigli di don Giuseppe Flores e di don Clemente gli era stata la
contraddizione di ciò con la sua ripugnanza strana per i voti monastici,
venutagli sempre crescendo da quando aveva lasciato il mondo. Ora questa
contraddizione pareva dileguarsi; pareva quindi risorgere la credibilità di un
carattere profetico della Visione. Don Clemente ne conosceva questa parte e
avrebbe potuto leggere nel cuore di Benedetto il suo sbigottimento al
riaffacciarsi di un misterioso disegno Divino sopra di lui, il suo terrore di
cadere in peccato di superbia. Non ci aveva pensato.
«Non pensarci neppure tu» diss’egli. E si affrettò a mutar discorso. Gli
diede una lettera e dei libri per l’arciprete di Jenne. Intanto l’arciprete lo
avrebbe ospitato. Se dovesse restare a Jenne o no, ritornare, in questo caso, a
Subiaco o recarsi altrove, glielo farebbe sapere la Divina Provvidenza.
«Padre mio» disse Benedetto «proprio non penso cosa sarà di me domani. Penso
unicamente questo: «magister adest et vocat me» ma non come una voce
sovrannaturale. Ho avuto torto di non capire che il Maestro è presente sempre e
chiama sempre: me, Lei, tutti. Basta farsi un po’ di silenzio nell’anima, la
sua voce si sente.»
Un raggio fioco di sole entrò nella cella. Don Clemente pensò subito che, se
cessasse di piovere, la signora Dessalle verrebbe probabilmente a visitare il
monastero. Non disse niente ma la sua inquietudine interna si tradì con un
trasalire della persona, con un’occhiata al cielo, che significarono a
Benedetto come fosse tempo di partire. Egli domandò in grazia di poter pregare,
prima nella chiesa di Santa Scolastica e poi al Sacro Speco. Il sole si
nascose, ricominciò a piovere, Maestro e discepolo scesero insieme nella
chiesa, vi si trattennero in preghiera l’uno accanto all’altro e fu quello il
loro solo addio. Benedetto prese la via del Sacro Speco alle nove. Uscì di
Santa Scolastica inosservato, mentre fra Antonio stava confabulando col messo
di Giovanni Selva. In quel momento, il lume del sole redivivo riaccese
rapidamente i vecchi muri, la via, il monte; acuto gioire, ali veloci di
uccelletti ruppero in ogni parte il verde, e alle sue labbra salì spontanea la
parola:
«Vengo.»
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