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Antonio Fogazzaro
Il santo

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      • 4. A fronte.
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Don Clemente celebrò messa verso le sette, parlò coll’Abate e poi si recò all’Ospizio dei pellegrini. Trovò Benedetto addormentato con le braccia in croce sul petto, le labbra socchiuse, il viso composto a una visione interna di beatitudine. Gli accarezzò i capelli, lo chiamò sottovoce. Il giovine si scosse, alzò, smarrito, il capo, balzò dal letto, afferrò e baciò la mano a don Clemente che la ritrasse con un impeto di umiltà frenato subito dal suo pudore d’anima, dalla coscienza dignitosa del suo ministero.

«Dunque?» diss’egli. «Il Signore ti ha parlato

«Sono nella Sua volontà» rispose Benedetto «come una foglia nel vento. Come una foglia che non sa niente.»

Il monaco gli prese il capo a due mani, lo attirò a sé, gli posò le labbra sui capelli, ve le tenne a lungo in una silenziosa comunicazione di spirito.

«Devi andare dall’Abate» diss’egli. «Dopo verrai da me.»

Benedetto lo fissò, lo interrogò senza parole: perché questa visita? Gli occhi di don Clemente si velarono di silenzio e il discepolo si umiliò in uno slancio muto ma visibile di obbedienza.

«Subito?» diss’egli.

«Subito.»

«Posso lavarmi al torrente

Il Maestro sorrise:

«Va, lavati al torrente

Lavarsi all’acqua che talvolta, per abbondanza di pioggie, suona nella valle Pucceia a levante del monastero e taglia di rigagnoli la via del Sacro Speco sotto Santa Crocella, era il solo piacere fisico che Benedetto si concedesse. Piovigginava; nebbie fumavano lente nel vallone alto, le tremole acque tenui si dolevano a Benedetto fuggendo attraverso la via, gli tacevano contente nel cavo delle mani, gl’infondevano per la fronte, gli occhi, le guance, il collo, fino al cuore, un senso della loro anima casta, dolce, un senso di bontà Divina. Benedetto si versò l’acqua sul capo largamente, e lo spirito dell’acqua gli alitò nel pensiero. Sentì che il Padre lo avviava per novo cammino, che ve lo avrebbe portato nella Sua mano potente. Benedisse riverente la creatura per la quale gli si era infuso tanto lume di grazia, l’acqua purissima; e ritornò all’Ospizio. Don Clemente, che lo attendeva nel cortile, trasalì al vederlo; tanto gli parve trasfigurato. Sotto la selva umida dei capelli in disordine gli occhi avevano una quieta gioia celestiale, e lo scarno viso di avorio una spiritualità occulta quale fluiva dai pennelli del Quattrocento. Come poteva quel volto accordarsi con gli abiti contadineschi? Don Clemente si applaudì in cuor suo di un pensiero concepito nella notte e già espresso all’Abate: dare a Benedetto un vecchio abito di converso. Prima di concedere o rifiutare il proprio consenso, l’Abate voleva vedere Benedetto, parlargli.

L’Abate aspettava Benedetto suonando un pezzo di sua composizione con le nocche delle dita, e accompagnando il suono con diabolici storcimenti delle labbra, delle narici, delle sopracciglia. Udito bussar discretamente all’uscio, non risposetralasciò di suonare. Terminato il pezzo, lo ricominciò, lo suonò una seconda volta da capo a fondo. Poi stette in ascolto. Fu bussato ancora, più lievemente di prima. L’Abate esclamò:

«Seccatore

E, strappati alcuni accordi, si pose a fare delle scale cromatiche. Dalle scale cromatiche passò agli arpeggi. Poi stette ancora in ascolto, per tre o quattro minuti. Non udendo più nulla, andò ad aprire, vide Benedetto che s’inginocchiò.

«Chi è costui?» diss’egli, ruvido.

«Il mio nome è Piero Maironi» rispose Benedetto «ma qui al monastero mi chiamano Benedetto

E fece l’atto di prender la mano dell’Abate per baciarla.

«Un momentodisse l’Abate, accigliato, ritraendo e alzando la mano. «Cosa fate qui?»

«Lavoro nell’orto del monastero» rispose Benedetto.

«Scioccoesclamò l’Abate. «Domando cosa state facendo qui davanti alla mia porta

«Ero per venire da Vostra Paternità

«Chi vi ha detto di venire da me?»

«Don Clemente

L’Abate tacque, considerò lungamente l’uomo inginocchiato, poi brontolò qualche cosa d’incomprensibile e finalmente gli porse la mano a baciare.

«Alzatevidiss’egli ancora brusco. «Entrate! Chiudete l’uscio

L’Abate, entrato che fu Benedetto, parve dimenticarlo. Inforcò gli occhiali, si pose a sfogliare libri e a leggere carte, voltandogli le spalle. Benedetto aspettava diritto in piedi, con ossequio militare, ch’egli parlasse.

«Maironi di Bresciadisse l’Abate, con la voce ostile di prima e senza voltarsi.

Avuta la risposta, continuò a sfogliare e a leggere. Finalmente si levò gli occhiali e si voltò.

«Cosa siete venuto a fare» diss’egli «qui a Santa Scolastica

«Sono stato un gran peccatore» rispose Benedetto. «Iddio mi ha chiamato fuori del mondo e fuori ne son venuto.»

L’Abate tacque un momento, guardò fisso il giovine, disse con dolcezza ironica:

«No, caro

Trasse la tabacchiera, la scosse ripetendo dei piccoli «no – no – no» quasi sotto voce, guardò nel tabacco, vi piantò le dita e levati gli occhi da capo su Benedetto, gli disse articolando lentamente le parole:

«Questo non è vero

Ghermita la presa con il pollice, l’indice e il medio, alzò la mano rapidamente come per gettar il tabacco in aria e proseguì con il braccio alzato:

«Sarà vero che siete stato un gran peccatore, ma non è vero che siate venuto fuori del mondo. Non siete né fuori né dentro.»

Fiutò rumorosamente la sua presa e ripeté:

«Né fuori né dentro.»

Benedetto lo guardava senza rispondere. Vi era in quegli occhi qualche cosa di tanto grave e di tanto dolce che l’Abate riabbassò i suoi alla tabacchiera aperta, tornò a frugarvi, a giocherellare col tabacco.

«Non vi capisco» diss’egli. «Siete nel mondo e non siete nel mondo. Siete nel monastero e non siete nel monastero. Ho paura che la testa vi serva come a vostro bisnonno, a vostro nonno e a vostro padre. Belle teste

Il viso di avorio di Benedetto si colorò lievemente.

«Sono anime in Dio» diss’egli «superiori a noi; e le parole Sue vanno contro un comandamento di Dio

«Fate silenzioesclamò l’Abate. «Dite di avere lasciato il mondo e siete pieno del suo orgoglio. Se volevate lasciare il mondo sul serio, dovevate cercare di farvi novizio! Perché non l’avete cercato? Avete voluto venir qua in villeggiatura, ecco la storia. O forse avevate degl’impegni a casa vostra, dei pasticci, mi capite! Nec nominentur in nobis. E avete voluto liberarvi per farne poi degli altri. E contate delle frottole a quel buon don Clemente, prendete il posto a un povero pellegrino, eh dite su, magari cercando di darla a intendere ai frati, che è facile, e a Domeneddio, che è difficile, con orazioni e sacramenti. Non dite di no!»

Il lieve rossore si era dileguato dal viso di avorio, le labbra apertesi un momento a parole pacatamente severe non si muovevano più, gli occhi penetranti fissavano l’Abate con la dolce gravità di prima. E l’Abate parve inasprito da quel silenzio tranquillo.

«Parlate, dunque!» diss’egli «Confessate! Non vi siete anche vantato di doni speciali, di visioni, che so io, di miracoli forse anche? Siete stato un gran peccatore? Mostrate che non lo siete ancora! Scolpatevi, se potete. Dite come avete vissuto, spiegate la vostra pretensione che Iddio vi abbia chiamato, giustificatevi di essere venuto a mangiare il pane dei frati a ufo, perché frate non avete voluto essere e quanto a lavorare avete lavorato ben poco!»

«Padre» rispose Benedetto e il tôno severo della voce, la severa dignità del volto mal si accordavano con la mansuetudine umile delle parole, «questo è buono per me peccatore che da tre anni vivo, per lo spirito, nella mollezza e nelle delizie, vivo nella pace, vivo nell’affetto di persone sante, vivo in un’aria piena di Dio. Le Sue parole sono buone e dolcissime all’anima mia, sono una grazia del Signore, mi hanno fatto sentire con le loro punte quanto orgoglio vi è ancora in me che non lo sapevo, perché nel disprezzarmi da me sentivo piacere. Come servo, poi, della santa Verità, le dico che la durezza non è buona neppure con uno che inganna, perché forse la soavità lo farebbe pentire del suo inganno; e che nelle parole della Paternità Vostra non è lo spirito del nostro Padre solo e vero, al quale sia gloria

Nel dire «al quale sia gloria» Benedetto cadde ginocchioni, acceso in viso da un fervore augusto.

«Sei tu, peccatore tristo, che vuoi fare il maestroesclamò l’Abate.

«Ha ragione, ha ragione» rispose Benedetto di slancio, affannosamente e giungendo le mani. «Ora Le dico il mio peccato. Desiderai l’amore illecito, mi compiacqui della passione di una donna ch’era d’altri come d’altri ero io e l’accettai. Lasciai ogni pratica di religione, non curai di dare scandalo. Questa donna non credeva in Dio e io disonorai Dio presso di lei colla mia fede morta, mostrandomi sensuale, egoista, debole, falso. Iddio mi richiamò colla voce dei miei morti, di mio padre e di mia madre. Mi allontanai allora dalla donna che mi amava, ma senza vigore di volontà, ondeggiando nel mio cuore fra il bene e il male. In breve ritornai a lei, tutto ardente di peccato, conoscendo di perdermi e risoluto a perdermi. Non vi era più un atomo di volontà buona nell’anima mia quando una mano morente, cara, santa, mi afferrò e mi salvò

«Guardatemi bene» disse allora l’Abate senza farlo alzare. «Avete mai fatto sapere a nessuno ch’eravate qui?»

«A nessuno. Mai.»

L’Abate rispose secco:

«Non vi credo

Benedetto non batté ciglio.

«Voi sapete» ripigliò l’Abate «perché non vi credo

«Lo suppongo» rispose Benedetto piegando il viso. «Peccatum meum contra me est semper

«Alzatevicomandò l’inflessibile Abate. «Io vi caccio dal monastero. Ora vi recherete a salutare don Clemente nella sua cella e poi partirete per non ritornare mai più. Avete inteso

Benedetto assentì del capo, ed era per piegare il ginocchio all’omaggio di rito quando l’Abate lo trattenne con un gesto.

«Aspettate» diss’egli.

Rinforcò gli occhiali, prese un foglio di carta e vi scrisse, stando in piedi, alcune parole.

«Cosa farete» disse scrivendo «quando sarete fuori?»

Benedetto rispose piano:

«Il bambino preso in braccia dal padre mentre dormiva, sa egli cosa il padre farà di lui?»

L’Abate non replicò niente, finì di scrivere, pose il foglio in una busta, la chiuse, la tese, senza voltare il capo, a Benedetto che gli stava dietro le spalle.

«Prendete» disse «portate a don Clemente

Benedetto gli chiese il permesso di baciargli la mano.

«No, no, andate via, andate via

La voce dell’Abate tremava di collera. Benedetto ubbidì. Appena fu nel corridoio udì l’uomo incollerito strepitare sul piano.

 

 

Prima di entrare nella celletta di don Clemente, Benedetto si fermò davanti alla grande finestra che termina il corridoio. Ivi si era trattenuto, poche ore prima, il Maestro a contemplare i lumi di Subiaco pensando la nemica, la creatura di bellezza, d’ingegno, di naturale bontà, venuta forse a contendergli il suo figliuolo spirituale, a contenderlo a Dio. Ora il figliuolo spirituale era misteriosamente certo che la donna male amata da lui nel tempo del suo gravitare cieco e ardente sulle cose inferiori, aveva scoperto la sua presenza nel monastero e sarebbe venuta a cercarlo. Disceso dentro lo Spirito interno al proprio cuore, egli vi attingeva un pio sentimento del Divino ch’era pure in lei, ascoso a lei stessa, una mistica speranza che per qualche oscura via ella pure arriverebbe un giorno al mare di verità eterna e di amore, che attende tante povere anime erranti.

Don Clemente lo aveva udito venire e aperse a mezzo l’uscio della cella. Benedetto entrò, gli porse la lettera dell’Abate.

«Debbo lasciare il monastero» diss’egli, sereno. «Subito e per sempre.»

Don Clemente non rispose, aperse la lettera. Letta che l’ebbe, osservò a Benedetto, sorridendo, che la sua partenza per Jenne era stata decisa fin dalla sera precedente. Vero, ma l’Abate aveva detto: per non ritornare mai più. Don Clemente aveva le lagrime agli occhi e sorrideva ancora.

«Lei è contentodisse Benedetto, quasi dolente.

Oh, contento! Come avrebbe potuto dire il suo Maestro, quel che sentiva? Partiva il discepolo diletto, partiva per sempre, dopo tre anni di dolce unione spirituale; ma ecco, l’ascosa Volontà si era manifestata, Iddio lo toglieva dal monastero, lo chiamava per altre vie. Contento! Sì, afflitto e contento, ma della sua contentezza non poteva dire il perché a Benedetto. La parola divina non avrebbe avuto valore per Benedetto s’egli non la intendeva da sé.

«Contento, no» diss’egli. «In pace, sì. Noi c’intendiamo, vero? E adesso raccogliti per le mie parole ultime, che spero ti saranno care

Don Clemente, nel dir così a voce bassa, si colorò tutto di rossore.

Benedetto piegò il capo a lui che gl’impose ambo le mani con dignità soave.

«Desideri» disse la virile voce piana «dare tutto te stesso alla Verità Suprema, alla sua Chiesa visibile e invisibile

Come se si fosse atteso a quell’atto e a quella domanda, Benedetto rispose pronto con voce ferma:

«Sì.»

La voce piana:

«Prometti tu, da uomo a uomo, vivere senza nozze e povero fino a che io ti sciolga della tua promessa

La voce ferma:

«Sì.»

La voce piana:

«Prometti tu essere sempre obbediente all’autorità della Santa Chiesa esercitata secondo le sue leggi

La voce ferma:

«Sì.»

Don Clemente attirò a sé il capo del discepolo e gli parlò sulla fronte:

«Ho chiesto all’Abate di poterti dare un abito di converso, perché uscendo di qua tu porti sopra di te almeno il segno di un umile ministero religioso. L’Abate, prima di decidere, ha voluto parlarti

Qui don Clemente baciò il discepolo in fronte, significando così il giudizio dell’Abate dopo il colloquio, chiudendo in quel bacio silenzioso parole di lode, non credute convenienti al suo carattere paterno né alla umiltà del discepolo. E non si avvide che il discepolo tremava da capo a piedi.

«Ecco» diss’egli «quel che l’Abate scrive dopo averti parlato

Mostrò a Benedetto il foglio dove l’Abate aveva scritto:

«Concedo. Fatelo partire subito perché io non sia tentato di trattenerlo

Benedetto abbracciò di slancio il suo Maestro e gli appoggiò la fronte a una spalla, senza parlare. Don Clemente mormorò:

«Sei contento? Adesso te lo domando io.»

Ripeté due volte la domanda senza ottenere risposta. Venne finalmente un sussurro:

«Posso non rispondere? Posso pregare un momento

«Sì, caro, sì.»

Accanto al lettuccio del monaco, alta sopra l’inginocchiatoio, una grande croce nuda diceva: Cristo è risorto, configgi ora tu a me l’anima tua. Infatti qualcuno, forse don Clemente, forse un suo predecessore, vi aveva scritto sotto: «omnes superbiae motus ligno crucis affigatBenedetto si stese bocconi a terra, posò la fronte ov’eran da posare le ginocchia. Per la finestra aperta della cella uno scialbo lume del cielo piovoso batteva, di sghembo, sul dorso dell’uomo prosteso e dell’uomo ritto in piedi con la faccia levata verso la croce grande. Il mormorio della pioggia, il rombo dell’Aniene profondo avrebbero detto a Jeanne uno sconsolato compianto di tutto che vive sulla terra e ama. A don Clemente dicevano un consenso pio della creatura inferiore con la creatura supplice al Padre comune. Benedetto non li udiva.

Egli si alzò, pacato in viso, vestì, a un cenno del Maestro, la tonaca di converso stesa sul letto, cinse la cintura di cuoio. Vestito che fu, si mostrò, aprendo le braccia e sorridendo, al Maestro, che si compiacque di vederlo così dignitoso, così spiritualmente bello in quell’abito.

«Lei non ha intesodisse Benedetto. «Non ha pensato una cosa?»

No, don Clemente aveva pensato che quella gran commozione di Benedetto fosse stata effetto di umiltà. Adesso capiva che altro gli sarebbe dovuto venire in mente; ma cosa?

«Ah!» esclamò a un tratto. «Forse la tua Visione

Certo. Benedetto si era visto morire sulla nuda terra, all’ombra di un grande albero, nell’abito benedettino; e argomento di non credere nella Visione giusta i consigli di don Giuseppe Flores e di don Clemente gli era stata la contraddizione di ciò con la sua ripugnanza strana per i voti monastici, venutagli sempre crescendo da quando aveva lasciato il mondo. Ora questa contraddizione pareva dileguarsi; pareva quindi risorgere la credibilità di un carattere profetico della Visione. Don Clemente ne conosceva questa parte e avrebbe potuto leggere nel cuore di Benedetto il suo sbigottimento al riaffacciarsi di un misterioso disegno Divino sopra di lui, il suo terrore di cadere in peccato di superbia. Non ci aveva pensato.

«Non pensarci neppure tu» diss’egli. E si affrettò a mutar discorso. Gli diede una lettera e dei libri per l’arciprete di Jenne. Intanto l’arciprete lo avrebbe ospitato. Se dovesse restare a Jenne o no, ritornare, in questo caso, a Subiaco o recarsi altrove, glielo farebbe sapere la Divina Provvidenza.

«Padre mio» disse Benedetto «proprio non penso cosa sarà di me domani. Penso unicamente questo: «magister adest et vocat me» ma non come una voce sovrannaturale. Ho avuto torto di non capire che il Maestro è presente sempre e chiama sempre: me, Lei, tutti. Basta farsi un po’ di silenzio nell’anima, la sua voce si sente

Un raggio fioco di sole entrò nella cella. Don Clemente pensò subito che, se cessasse di piovere, la signora Dessalle verrebbe probabilmente a visitare il monastero. Non disse niente ma la sua inquietudine interna si tradì con un trasalire della persona, con un’occhiata al cielo, che significarono a Benedetto come fosse tempo di partire. Egli domandò in grazia di poter pregare, prima nella chiesa di Santa Scolastica e poi al Sacro Speco. Il sole si nascose, ricominciò a piovere, Maestro e discepolo scesero insieme nella chiesa, vi si trattennero in preghiera l’uno accanto all’altro e fu quello il loro solo addio. Benedetto prese la via del Sacro Speco alle nove. Uscì di Santa Scolastica inosservato, mentre fra Antonio stava confabulando col messo di Giovanni Selva. In quel momento, il lume del sole redivivo riaccese rapidamente i vecchi muri, la via, il monte; acuto gioire, ali veloci di uccelletti ruppero in ogni parte il verde, e alle sue labbra salì spontanea la parola:

«Vengo.»

 

 




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