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Jeanne e Noemi arrivarono al monastero alle dieci. A pochi passi dal
cancello Jeanne fu presa da una palpitazione violenta. Avrebbe desiderato
visitare l’orto prima del Convento, poiché il monello di Subiaco le aveva detto
che i frati di Santa Scolastica ci avevano un bell’orto e gente loro che vi
lavorava: un vecchio di Subiaco e un giovine forestiere. Non era più da
parlarne. Pallida, sfinita, si trascinò male, al braccio di Noemi, fino alla
porta dove un accattone aspettava la minestra. Per fortuna fra Antonio aperse
prima ancora che Noemi suonasse e Noemi lo pregò di una sedia, di un bicchier
d’acqua per la signora che si sentiva male. Sgomentato alla vista di Jeanne,
smorta smorta, cadente sul fianco della sua compagna, il vecchio umile
fraticello pose in mano a Noemi la scodella di zuppa che aveva portata per
l’accattone, corse per la sedia e per l’acqua. Un po’ la comicità di quella
scodella fra le mani di Noemi sbalordita, un po’ il riposo, un po’ l’acqua, un
po’ la visione del chiostro antico dormiente in pace, un po’ il reagire della
volontà ristorarono sufficientemente Jeanne in pochi minuti. Fra Antonio andò
in cerca del Padre foresterario che guidasse le visitatrici.
«Gli dica le due signore di casa Selva « fece Noemi.
Don Clemente si presentò arrossendo, nel suo verginale candore d’animo, di
conoscere i casi di Jeanne all’insaputa di lei, come avrebbe arrossito di un
inganno. Scambiò Noemi, che prima gli si fece incontro, per la Dessalle. Alta,
snella, elegante, Noemi rappresentava bene una seduttrice; però non mostrava
più di venticinque anni, non poteva essere, per questo verso, la donna di cui
Benedetto gli aveva raccontate le vicende. Ma il benedettino non seppe fare di
questi calcoli. A Noemi premeva di assicurarsi che fra Antonio avesse adempiuto
bene il suo incarico.
«Buongiorno, padre» diss’ella con la sua bella voce cui l’accento straniero
aggiungeva grazia. «Ci siamo visti iersera. Lei usciva di casa Selva.»
Don Clemente fece un lievissimo cenno del capo. Veramente Noemi lo aveva appena
intravvisto. Era però rimasta colpita dalla sua bellezza e aveva pensato che se
quello era il signor Maironi si capiva la passione di Jeanne. Nella coscienza
della propria fresca gioventù non le passò per la mente che i suoi venticinque
anni fossero stati scambiati per i trentadue di Jeanne. Jeanne, intanto,
meditava di trar partito dal suo malessere.
«Non erano aspettate, iersera» disse don Clemente a Noemi. «Lei viene dal
Veneto?»
Dal Veneto? Noemi parve sorpresa.
«I signori Selva mi hanno detto» soggiunse il padre «che Lei abita nel
Veneto.»
Allora Noemi capì, sorrise, rispose con un monosillabo che non era né un sì
né un no, e pensò ella pure di trar partito dal caso, di prepararsi, grazie a
questo equivoco, un colloquio particolare con don Clemente, per istruirlo se
fosse necessario. Le parve anche divertente di conversare con quel bel frate
essendo creduta Jeanne. Avvertì con un’occhiata quest’ultima che guardava ora
lei, ora il frate, imbarazzata, avendo capito l’errore di lui, non sapendo se tacere
o parlare.
«La mia amica» diss’ella «conosce già Santa Scolastica, naturalmente. Io
invece non ci sono stata mai.
Si volse a Jeanne:
«Se il padre» disse «ha la bontà di accompagnarmi, mi pare che tu, poiché
non ti senti bene, potresti restare.»
Jeanne acconsentì tanto prontamente che Noemi dubitò di qualche suo segreto
disegno, si domandò se non commettesse un errore. A ogni modo adesso era troppo
tardi. Don Clemente, poco soddisfatto di aver ad accompagnare una signora sola,
propose di attendere. Forse l’altra signora, fra poco, si sentirebbe meglio.
Jeanne protestò. No, non dovevano attendere, ella era contentissima di rimaner
lì.
Nel passare dal primo al secondo chiostro Noemi ricordò nuovamente al padre
l’incontro della sera precedente.
«Lei aveva un compagno?» diss’ella e subito vergognò del suo simulare, di
non aver tratto il monaco dall’inganno in cui era caduto. Don Clemente rispose
quasi sotto voce;
«Sì signora, un ortolano del monastero.»
Erano rossi in viso tutt’e due ma non si guardarono, ciascuno sentì solo il
rossore proprio.
«Lei sa chi siamo?» riprese Noemi.
Don Clemente rispose che supponeva di saperlo. Dovevano essere le due
signore aspettate dalla signora Selva. Gli pareva che la signora Selva gli
avesse nominata sua sorella e la signora Dessalle.
«Ah Lei lo ha saputo da mia sorella?»
A queste parole di Noemi don Clemente non poté trattenersi dall’esclamare:
«Dunque la signora Dessalle non è Lei?»
Noemi comprese che l’uomo sapeva. Quindi aveva provveduto, certo; un
improvviso incontro non era possibile. Respirò, e il suo cuore femminile, vôto
d’inquietudine, si riempì di curiosità.
Don Clemente le parlava della torre, delle arcate antiche, degli affreschi
presso la porta della chiesa ed ella pensava: come farlo parlare di Maironi? Lo
interruppe spensieratamente mentre le mostrava la processione dei fraticelli di
sasso, per domandargli se capitassero spesso al monastero anime stanche del
mondo, disilluse, avide di darsi a Dio.
«Sono protestante» diss’ella. «Questo mi interessa molto.»
Don Clemente pensò in cuor suo che questo le interessasse molto non per il
suo protestantesimo ma per la sua amicizia colla signora Dessalle.
«Spesso no» rispose «Qualche volta. Di solito quelle anime preferiscono
altri Ordini. Ah, Lei è protestante? Non Le rincrescerà, però, di entrare nella
nostra chiesa? Non dico nella Chiesa cattolica» soggiunse sorridendo e
arrossendo «dico nella chiesa del nostro monastero.»
E raccontò di un inglese, protestante, innamorato di San Benedetto, che
faceva lunghi soggiorni a Subiaco, frequentava Santa Scolastica e il Sacro
Speco.
«È un’anima bellissima» diss’egli.
Ma Noemi voleva ritornare al primo soggetto, sapere se qualcuno venisse mai
dal mondo a servire il monastero per spirito di penitenza, senza vestire
l’abito. Non ebbe risposta perché don Clemente, veduto un colossale monaco
entrare nel chiostro, le si scusò, andò a parlargli e ritornato a lei con il
maestoso compagno, Le presentò in don Leone una guida superiore a lui di gran
lunga per copia e profondità di dottrina; e, con molto dispetto di lei, si
allontanò.
Rimasta sola, Jeanne fu ripresa dalla palpitazione violenta. Dio, come
riviveva il passato, come riviveva Praglia! Pensare ch’egli andava e veniva per
quell’ingresso, per quei chiostri, chi sa quante volte al giorno, che aveva
tanto dovuto ricordare Praglia, quell’ora disposta dal destino, quell’acqua
versata, quell’ebbrezza, quelle mani strette, nel ritorno, sotto la coperta di
pelliccia! Pensare ch’egli era libero e che anche lei lo era! Che febbre, che
febbre!
Fra Antonio, sgomentato sulle prime di trovarsi lì questa signora che pareva
senza fiato, rimase poi sbalordito della rapida loquela con la quale, a un
tratto, ella lo assalì di domande. Il monastero, non aveva un orto vicino? – Sì,
vicinissimo, a tramontana. Di mezzo non c’era che una stradicciuola. – E chi lo
coltivava? – Un ortolano. – Giovane? Vecchio? Di Subiaco? Forestiere? –
Vecchio. Di Subiaco. – E nessun altro? – Sì, Benedetto. – Benedetto? Chi era
Benedetto? – Un giovane, del paese del Padre foresterario. – Di dov’era il
Padre foresterario? – Di Brescia. – E questo giovine si chiamava Benedetto? –
Tutti lo chiamavano Benedetto; se fosse proprio il suo vero nome fra Antonio
non lo poteva dire. – Ma che uomo era? – Oh, questo sì, fra Antonio lo poteva
dire. Era quasi più santo dei frati. Si capiva dalla faccia che doveva essere
di buona famiglia e alloggiava come un cane, non mangiava che pane, frutta ed
erba, qualche notte la passava in preghiere, magari sulla montagna. Lavorava la
terra e anche studiava in biblioteca col Padre foresterario. E un cuore, un
cuore grande! Tante volte aveva dato ai poveri anche quel magro vitto del
convento. – E dove lo si potrebbe vedere adesso? – Eh, nell’orto certamente.
Fra Antonio supponeva che stesse amministrando il solfato di rame alle viti.
A Jeanne batte il cuore tanto forte che la vista le si oscura. Ella tace e
non si move. Fra Antonio crede che non pensi più a Benedetto. «Ah signora» dice
«Santa Scolastica è un bel monastero, ma bisogna vedere Praglia!» Perché fra
Antonio nella sua giovinezza, prima della soppressione dell’Abbazia di Praglia,
vi ha passato alcuni anni, e ne parla come di una madre venerata. – Ah, la
chiesa di Praglia! I chiostri! Il chiostro pensile, il refettorio! – Alle
inattese parole Jeanne si esalta. Esse le dicono: va, va, va subito! Ella
scatta dalla seggiola.
«Quest’orto? Per qual parte ci si va?»
Fra Antonio, un po’ sorpreso, le risponde che può recarvisi attraversando il
monastero oppure girandolo di fuori. Jeanne esce, chiusa nel suo pensiero
ardente, passa il cancello, gira a destra, entra nella galleria sotto la
biblioteca, vi si ferma un momento stringendosi le mani sul cuore e procede.
Il vaccaro del convento, fermo sull’entrata del cortile dov’è l’Ospizio dei
pellegrini, le mostra sull’opposto fianco della viuzza chiusa fra due muri,
l’uscio dell’orto. Ella gli domanda se avrebbe trovato nell’orto un tale
Benedetto. Malgrado lo sforzo di dominarsi, le trema la voce nell’attesa di un sì.
Il vaccaro risponde che non sa, si offre di andar a vedere, bussa più volte,
chiama: «Benedè! Benedè!»
Un passo, finalmente. Jeanne si appoggia allo stipite, per non cadere. Dio,
se è Piero, cosa gli dirà? L’uscio si apre, non è Piero, è un vecchio. Jeanne
respira, contenta, per un momento. Il vecchio la guarda, meravigliato, dice al
vaccaro:
«Benedetto non c’è.»
La contentezza di lei è già svanita, ella si sente gelare; quei due la
guardano curiosi, in silenzio.
«È questa signora » disse
il vecchio «che cerca di Benedetto? »
Jeanne non rispose. Rispose
per lei il vaccaro; e poi raccontò che Benedetto aveva passato la notte fuori,
ch’egli lo aveva trovato all’alba, tutto molle di pioggia, nel bosco del Sacro
Speco, che gli aveva offerto del latte e che Benedetto aveva bevuto come un
moribondo in cui rifluisca la vita.
«Udite, Giovacchino» soggiunse il vaccaro, fattosi a un tratto solenne.
«Quell’omo bevuto ch’ebbe, mi abbracciò così. Io stavo male, non avevo dormito,
mi doleva il capo, mi dolevano tutte l’ossa. Ebbene, dalle sue braccia mi
vennero come tanti piccoli brividi e poi come un calore buono, un piacere, un
sentirmi così bene che mi pareva avere nello stomaco due sorsi di acquavite, la
più fina. Via il mal di capo, via il male d’ossa, via tutto. E mi sono detto: per
Caterina, quest’omo è un Santo. E un Santo è.»
Passò, mentr’egli parlava, un povero sciancato, un accattone di Subiaco.
Vista la signora, si fermò, le tese il cappello. Jeanne, tutta in quel che il
vaccaro diceva, non si avvide di lui né lo udì quando, avendo il vaccaro finito
di parlare, le chiese l’elemosina per l’amore di Dio. Ella domandò all’ortolano
dove questo Benedetto si potesse trovare. L’ortolano si cercò una risposta
nella nuca. Allora la voce flebile dell’accattone gemette:
«Cercate Benedetto? Sta al Sacro Speco, sta al Sacro Speco.»
Jeanne gli si voltò avida.
«Al Sacro Speco?» diss’ella. E l’ortolano domandò all’accattone se ce
l’avesse veduto lui.
L’accattone raccontò, lagrimoso più che mai, come si fosse trovato più di
un’ora prima sulla strada del Sacro Speco, oltre il bosco dei lecci, proprio a
due passi dal Convento con un fastello di legna; come fosse caduto malamente e
rimasto a giacere sotto il fastello.
«Iddio e san Benedetto» diss’egli «fecero che passasse un monaco. Questo
monaco mi rialzò, mi confortò, mi prese a braccio, mi accompagnò al Convento
dove gli altri monaci mi ristorarono. Io me ne venni via e il monaco rimase al
Sacro Speco.»
«E che c’entra?» fece l’ortolano.
«C’entra che prima, vestito com’era, non lo riconobbi, ma poi lo riconobbi.
Era lui.»
«Chi, lui?»
«Benedetto.»
«Ma chi era Benedetto?»
«Il monaco.»
«Ma che sei pazzo! – Scemo che sei!» fecero l’ortolano e il vaccaro.
Jeanne diede allo sciancato una moneta d’argento.
«Pensate bene» diss’ella. «Dite la verità.»
Lo sciancato si sdilinquì in benedizioni, intercalandovi degli umili «quello
che volete, quello che volete, – mi sarò sbagliato, mi sarò sbagliato» e se ne
andò con la sequela di pii borbottamenti. Jeanne interrogò ancora il vaccaro e
l’ortolano. Possibile che Benedetto avesse vestito l’abito? Ma che! L’accattone
era un povero scemo.
Se n’andò anche il vaccaro e Jeanne entrò nell’orto, sedette sotto un ulivo,
pensando che Noemi avrebbe facilmente saputo del portinaio dove trovarla. Il vecchio
ortolano, curioso la sua parte, le domandò con molte scuse se fosse parente di
Benedetto.
«Perché si sa ch’è un signore» diss’egli. «Un signore grande.»
Jeanne non rispose alla domanda. Volle invece sapere perché si avesse
quell’opinione della ricchezza di Piero. Ecco, si capiva dai modi, e anche
dalla faccia; una faccia da signore, proprio. E non s’era fatto monaco? Eh, no.
E perché non s’era fatto monaco? Non si sapeva, di certo. Se ne dicevano tante.
Si diceva persino che avesse moglie e che la moglie gli avesse fatto ciò che
l’ortolano chiamava un brutto gioco. Jeanne tacque e all’ortolano balenò che
quella lì fosse la moglie appunto, la donna del brutto gioco, che venisse,
pentita, a implorar perdono.
«Se questo fatto della moglie è vero» diss’egli allora «la ci avrà avuto le
sue ragioni, non dico, ma però come bontà d’uomo, la non ne avrà trovato di
certo uno migliore. Guardi, signora, questi padri sono persone sante, non c’è
che dire, ma uno buono come lui, né a Santa Scolastica né al Sacro Speco,
glielo giuro io, non ci sta, benché c’è don Clemente ch’è santissimo! Però come
questo Benedetto, no.»
A Jeanne tornarono subitamente in cuore le parole dell’accattone: Benedetto,
fatto monaco. Perché mai? Si sgomentò che le tornassero in cuore senza una
ragione. Non avevan detto quei due ch’era una stoltezza e che l’accattone era
uno scimunito? Sì, una stoltezza, lo capiva anche lei; sì, uno scimunito, era
parso tale anche a lei; ma le parole stolte battevano e ribattevano al suo
cuore, sinistre come maschere dalle facce assurde che battessero al vostro
uscio in altro tempo che di carnevale.
«Se si trattiene, signora» disse l’ortolano «non passa una mezz’ora che
capita. Che! Un quarto d’ora! Sta forse in biblioteca con don Clemente a
studiare, o forse in chiesa.»
Dalla biblioteca che cavalca la stradicciuola si esce direttamente
nell’orto.
«Eccolo!» esclamò il vecchio.
Jeanne balzò in piedi. L’uscio che mette dalla biblioteca nell’orto si
aperse lentamente. Invece di Piero comparve Noemi seguita da un gran frate.
Noemi vide l’amica fra gli ulivi e si arrestò di botto, sorpresa. Jeanne
nell’orto? Possibile che...? No, il vecchio che le stava accanto non poteva
essere Maironi e nessun altro era con lei. Sorrise, la minacciò col dito. Don
Leone, inteso da Noemi che quella era la signora della quale gli aveva detto
durante la visita del monastero ch’era rimasta in portineria, prese congedo.
Naturalmente le signore salirebbero al Sacro Speco e la passeggiata del Sacro
Speco non conveniva più alla sua mole.
Erano quasi le undici, la carrozza doveva trovarsi alle dodici e mezzo dove
l’avevano lasciata, perché a casa Selva si pranzava al tocco; se Jeanne voleva
vedere il Sacro Speco non c’era tempo da perdere, posto che il suo malessere si
fosse dileguato, come pareva. Noemi consigliava così e non s’indugiò a chiedere
spiegazioni, in presenza dell’ortolano, dell’aver piantato fra Antonio per
correre a esplorare l’orto. Si accontentò di sussurrare: «fingevi, eh?» Jeanne
rispose che al Sacro Speco ci doveva andar lei, Noemi, e subito, appunto. Ella
intendeva di stare ad aspettarla nell’orto. Noemi indovinò un’altra commedia.
«Oh no!» diss’ella. «O vieni al Sacro Speco o, se non stai bene, scendiamo
subito a Subiaco!»
Jeanne obbiettò che scendere subito era inutile perché non si sarebbe
trovata la carrozza; ma Noemi non si arrese. Avrebbero fatto la discesa a
grande agio, sarebbero state pronte a salire in carrozza appena venisse. Jeanne
rifiutò ancora, più vivacemente, non avendo altre ragioni a opporre. Allora
Noemi la guardò in silenzio, cercando leggerle negli occhi un disegno nascosto.
In quell’attimo di silenzio Jeanne fu rimorsa nel cuore dalle parole
dell’accattone. Prese impetuosamente il braccio dell’amica.
«Vuoi che venga al Sacro Speco?» diss’ella. «Bene, andiamo. Tu credi una
cosa e non sai. Faccia il destino!»
Ma prima ancora di muovere un passo si sciolse da Noemi, che la guardava
trasognata, scrisse a matita nel suo portafogli: «Sono al Sacro Speco. In nome
di don Giuseppe Flores, mi aspetti.» Non firmò, stracciò la paginetta, la diede
all’ortolano «per quell’uomo, se ritornava» riprese il braccio dell’amica,
dicendo:
«Andiamo!»
Il sole ardeva sulla petraia fumante umidi odori di erbe e di sasso,
inargentava i cirri di nebbione erranti lungo i fianchi della stretta valle
selvaggia fino al cumulo enorme assiso là sul fondo, a cappello delle cime di
Jenne; la voce grande dell’Aniene empiendo le solitudini. Jeanne saliva senza
dir parola, senza rispondere alle domande di Noemi più e più sgomentata del suo
silenzio, del suo pallore, del vederle le labbra strette a comprimere il
pianto, del sentir sussultare il suo braccio. Perché? Nella notte e fino
all’entrata di Santa Scolastica la povera creatura aveva ondeggiato fra il
timore e la speranza, in una febbre di aspettazione. Adesso era un’altra
febbre. Almeno pareva. Pareva che avesse saputo, là nell’orto, qualche cosa di
cui non volesse parlare, qualche cosa di penoso, di pauroso. Cosa poteva
essere? Il tragico pianto delle acque invisibili, il tremare silenzioso dei
fili d’erba per la petraia, lo stesso calore ardente stringevano il cuore.
Pochi passi prima dell’Arco ritto a contenere la folla nereggiante dei lecci,
Noemi ebbe il conforto di udire voci umane. Erano Dane, a cavallo, Marinier e
l’Abate a piedi, che scendevano insieme dal Sacro Speco.
Dane mostrò molto piacere dell’incontro, trattenne
la sua cavalcatura, presentò le signore all’Abate, parlò con entusiasmo del
Sacro Speco. Jeanne, scambiata qualche parola coll’Abate, gli domandò se
qualcuno avesse pronunciato i voti solenni, o almeno vestito l’abito, di
recente. L’Abate rispose ch’era venuto a Santa Scolastica da pochi giorni e non
era in grado di risponderle lì per lì; ma non credeva che da un anno, a dir
poco, nessuno a Santa Scolastica avesse fatto la professione solenne né vestito
l’abito di novizio. Jeanne s’illuminò di gioia. Adesso lo capiva, era stata una
stupida di dubitare possibile, anche per un solo momento, che Piero fosse
diventato frate, da contadino, in dodici ore. Avrebbe voluto ritornare subito
all’orto di Santa Scolastica; ma come fare? Quale pretesto prendere? Proseguì,
ansiosa di sbrigarsi presto del Sacro Speco. Noemi propose di sostare un poco
all’ombra dei lecci che là sulla via delle anime agitate dall’amor divino
paiono torti anch’essi da un interno furore ascetico, da un frenetico sforzo di
svellersi dalla terra per avventar le braccia nel cielo. Jeanne rifiutò,
impaziente. Aveva ripreso colore nel volto e luce negli occhi. Si mise spedita
per la scaletta che termina il breve cammino e malgrado le proteste di Noemi,
che non capiva il perché di tanto mutamento, non volle neppure riprender fiato
in capo alla scala, ove improvvisamente si scopre la scena cupa, profonda della
vallea, e alto, a sinistra, l’orrido sasso caro ai falchi e ai corvi, rigonfio
sopra le murature squallide, bucate di fori disadorni, che vi s’incrostano per
traverso sugli anfratti nudi e sono il monastero del Sacro Speco. Sotto il
monastero, nel profondo, pende il roseto di san Benedetto e sotto il roseto pendono
gli orti, pendono gli uliveti al ruggente Aniene scoperto. Il cumulo assiso sui
monti di Jenne saliva invadendo il cielo. Una ondata d’ombra passò sul sasso
enorme, sul monastero, sul parapetto cui Noemi aveva appoggiato i gomiti,
contemplando.
«Questo è magnifico» diss’ella. «Lasciami fermare
un po’ qui almeno, ora che c’è ombra!»
Ma in quel momento, a due passi da loro, si apriva
la porticina del monastero e ne usciva una compagnia di stranieri, signori e
signore. Il monaco che li aveva guidati, vedendo Jeanne e Noemi, tenne aperto
l’uscio in atto di aspettazione. Jeanne si affrettò a entrare e Noemi, mal suo
grado, la seguì.
«Affreschi del Trecento» disse il benedettino
nell’oscuro corridoio di entrata, con voce indifferente e passando. Noemi si
fermò, curiosa delle pitture antiche. Jeanne tenne dietro al benedettino, senza
guardare né a destra né a sinistra, distratta, tentata da un dubbio. Se l’Abate
non avesse detto il vero? Se lo avesse detto l’accattone? La fantasia le
rappresentò l’incontro felice nel cortile di Praglia, il viso pallidissimo di
lui, il «grazie» che l’aveva fatta tremar di gioia. Le correvano brividi nel
sangue e, come per una strappata di redini all’immaginazione, si voltò a Noemi:
«Vieni» diss’ella.
Seguì il monaco nulla udendo di quello ch’egli
diceva, nulla guardando di quello che indicava. Noemi dissimulava a fatica le
proprie inquietudini. Presentiva un pericolo nel ritorno. Il punto pericoloso
era l’orto di Santa Scolastica dove Jeanne intendeva rientrare, secondo aveva
detto al vecchio ortolano. Adesso le era passato il desiderio di vedere questo
famoso Maironi. Non desiderava che di ritornare con Jeanne a casa Selva
senz’aver fatto incontri e avrebbe voluto indugiarsi al Sacro Speco il più
possibile perché poi mancasse loro il tempo di sostare a Santa Scolastica.
Perciò fingeva prendere alle viscere preziose del monastero dalla squallida
pelle un interesse continuo, mentre invece sentiva solamente desiderio di
ritornarvi un’altra volta, con sua sorella o con suo cognato, in pace.
Nel discendere in quella miniera della santità, né
l’una né l’altra sapevano qual via facessero per l’aria morta e fredda, per le
ombre mistiche, per i chiarori giallognoli pioventi dall’alto, per gli odori di
sasso umido, di lucignoli fumosi, di arredi vecchioni, per le visioni di
cappelle, di grotte, di croci negli sfondi bui di scale perdentisi in fuga, a
paro con le loro volte acute, giù verso caverne inferiori, di marmi color di
sangue, color di notte, color di neve, di rigide folle pie dalle facce
bizantine ingombranti le pareti, i timpani delle arcate, di monacelle e di
fraticelli ritti nelle strombature delle finestre, nei pennacchi delle vôlte,
lungo il giro degli archivolti, ciascuno con la sua venerabile aureola. Non
sapevano quale cammino vi facessero e Jeanne appena ne sentiva la realtà.
Nello scendere la Scala Santa, precedendo il
monaco seguito immediatamente da Jeanne e Noemi venendo ultima a cinque o sei
gradini di distanza, Jeanne, improvvisamente, gittò le mani alle spalle della
guida e subito, vergognando dell’atto involontario, le ritolse mentre il
monaco, fermatosi, le volgeva il capo, attonito.
«Scusi» diss’ella. «Chi è quel padre?»
Fra due ripiani della Scala, dietro un risalto
della parete di sinistra, una figura tutta nera nella tonaca benedettina si
teneva ritta nell’angolo oscuro, appoggiando la fronte al marmo. Jeanne l’aveva
oltrepassata di quattro o cinque gradini senza vederla. S’era voltata a
guardare per caso, l’aveva veduta, un istintivo sospetto le era lampeggiato nel
cuor tremante.
Il monaco rispose:
«Non è un padre, signora.»
Si chinò ad aprire con la chiave la cancellata di
una cappella.
«Cosa c’è?» chiese Noemi, sopraggiungendo.
«Non è un padre?» ripeté Jeanne.
Nell’udire la voce strana dell’amica, Noemi trasalì.
Neppure lei aveva notato la figura ritta nell’ombra della parete.
«Chi?» diss’ella.
Il monaco, che intanto aveva aperto, intese «qui?»
e riferì la parola a un discorso di prima.
«No» disse «il ritratto autentico di san Francesco
non è qui. Più abbasso c’è un san Francesco dipinto dal cavalier Manente. Lo
vedranno dopo. Se vogliono passare...»
Noemi disse piano a Jeanne «cos’hai?» e avendo
l’altra risposto con voce più tranquilla «niente» le passò avanti, entrò nella
cappella, ascoltando le spiegazioni del monaco. Allora la figura nera si staccò
dalla parete. Jeanne la vide salire lenta nell’ombra sotto le arcate ogivali.
Toccato il ripiano superiore, la figura sparve a destra e subito ricomparve in
un braccio di scala attraversato dall’obliquo sfondo della scena, luminoso nel
raggio di una finestra invisibile. La figura saliva lenta, quasi faticosamente.
Prima di sparire dietro il fianco enorme di un’arcata, piegò il capo a guardare
in basso. Jeanne la riconobbe.
Sull’attimo, quasi obbedendo a una fulminea
volontà impostasi a lei, quasi portata dal turbine del suo destino, pallida,
risoluta, senza sapere cos’avrebbe detto, cos’avrebbe fatto, ella prese
l’ascesa. Attraversato il ripiano superiore, nel metter piede sulla scala
chiara, traboccò a terra, vi giacque un momento; sì che Noemi, uscita della
cappella, non la vide, la credette discesa in cerca del ritratto di san
Francesco. Si rialzò, riprese la via, povera creatura di passione, richiamata
invano dalle immagini di celeste pace, irrigidite sulle mura sacre. Tutto era
davanti a lei silenzio e vuoto. Ell’andava per vie ignote a lei, veloce,
sicura, come nella chiaroveggenza dell’ipnosi. Passava per buie stretture, per
chiarori larghi, senza esitar mai, senza guardare né a destra né a sinistra,
chiusi e acuiti tutti i sensi nell’udito, seguendo attimi di sussurri lontani,
il dolersi lieve di un uscio, il vento di un altro, lo sfiorar di un abito a
uno stipite. Così dai due spinti battenti dell’ultima porta ella emerse rapida
in faccia a lui.
Anch’egli l’aveva riconosciuta sulla Scala Santa,
all’ultimo momento. Si tenne quasi certo di non essere stato riconosciuto alla
sua volta; cercò tuttavia di togliersi dal solito cammino dei visitatori.
Quando udì giungere a quella recondita sala un fruscìo rapido di vesti
femminili, comprese, aspettò, a fronte della porta.
Ella lo vide e impietrò sull’atto fra i battenti
aperti, fissi gli occhi negli occhi di lui, che non avevano più lo sguardo di
Piero Maironi.
Era trasfigurato. La persona, forse per le vesti
nere, pareva più sottile. Il viso pallido, scarno, spirava dalla fronte, fatta
più alta, una dignità, una gravità, una dolcezza triste, che Jeanne non gli
aveva conosciute mai. E gli occhi erano del tutto altri occhi, avevano un
inesprimibile divino, tanta umiltà e tanto impero, l’impero di un amore
trascendente, originario non del suo cuore ma di una mistica fonte ad esso
interna, di un amore oltrepassante il cuore di lei, ricercantele più addentro
una recondita regione dell’anima, ignota a lei stessa. Ella giunse lenta lenta
le mani e piegò i ginocchi a terra.
Benedetto si recò alle labbra l’indice della
sinistra e tese l’altro alla parete fronteggiante il balcone aperto sui
carpineti del Francolano e sul fragore del fiume profondo. Nel mezzo della
parete nereggiava, grande, la parola
SILENTIUM.
Per secoli, da quando la parola era stata scritta,
mai voce umana si era udita là dentro. Jeanne non guardò, non vide. A lei bastò
quell’indice alle labbra di Piero per serrar le sue. Ma non bastò per
costringerle il pianto in gola. Guardava guardava lui con le labbra strette e
le sdrucciolavano grosse sul viso lagrime silenziose. Immobile, pendenti le
braccia lungo la persona, Benedetto chinò un poco il capo e chiuse gli occhi,
assorto nello spirito. La grande, nera parola imperatoria, grave di ombre e di
morte, trionfava sulle due anime umane, ruggendo contro a lei dal balcone
lucente le anime belluine dell’Aniene e del vento.
A un
tratto, pochi secondi dopo che gli occhi di Benedetto si erano chiusi allo
sguardo di lei, ella balenò e si spezzò, dalle spalle alle ginocchia, in un
singhiozzo amaro di tutta l’amara sua sorte. Egli aperse allora gli occhi, la
guardò dolcemente, ed ella ribevve avida il suo sguardo, ebbe ancora due
singhiozzi, quasi di dolorosa gratitudine. E perché l’amato si recò nuovamente
l’indice alla bocca, gli accennò del capo di sì, di sì, che avrebbe taciuto,
che si sarebbe chetata. Obbedendo sempre al suo gesto, al suo sguardo, si alzò
in piedi, si fece da banda, lo lasciò passare per i battenti aperti, lo seguì
umile, con la sua speranza morta nel petto, con tanti dolci fantasmi morti
nella mente, con il suo amore fatto tremore e venerazione.
Lo seguì fino alla cappella che chiamano la chiesa
superiore. Colà, di fronte alle tre piccole ogive che chiudono interne ombre
dove si disegna un altare e una croce di argento brilla su parvenze fosche di
pitture antiche, Jeanne s’inginocchiò, com’egli accennolle,
sull’inginocchiatoio appoggiato al fianco destro della grande arcata che gira
sulla volta acuta, mentr’egli s’inginocchiava su quello appoggiato al fianco
sinistro. Sul timpano dell’arcata un pittore del secolo XIV ha dipinto il poema
del massimo Dolore. Da un’alta finestra di sinistra scendeva la luce alla
Dolorosa; Benedetto era nell’ombra.
La voce di lui mormorò appena udibilmente:
«Senza fede ancora?»
Sommesso come aveva parlato egli e senza volgere
il capo, ella rispose:
«Sì.»
Egli tacque un momento e poi riprese con la stessa
voce:
«La desidera? Potrebbe operare come se credesse in
Dio?»
«Se non è necessario di mentire, sì.»
«Promette di vivere per i miseri e per gli
afflitti, come se ciascuno di essi fosse una parte dell’anima da Lei amata?»
Jeanne non rispose. Era troppo veggente e troppo
leale per affermare che lo poteva.
«Promette di farlo» riprese Benedetto «se io
prometto di chiamarla presso di me in un’ora fissa dell’avvenire?»
Ella non sapeva quale ora solenne, non lontana,
egli pensasse, parlando così. Rispose palpitante:
«Sì sì.»
«In quell’ora La chiamerò» disse la voce
nell’ombra. «Però non cerchi mai rivedermi prima.»
Jeanne si strinse le mani sugli occhi, rispose un
«no» soffocato. Le pareva di turbinare negli angosciosi sogni di una febbre
mortale. Piero non parlava più. Passarono due, tre minuti. Ella si levò le mani
dagli occhi lagrimosi, li fissò sulla croce che brillava là in faccia, oltre
gli archetti ogivali, sulle fosche parvenze di pitture antiche. Mormorò:
«Sa che don Giuseppe Flores è morto?»
Silenzio.
Jeanne volse il capo. Nessuno era più nella
chiesa.
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