-1-
La luna era già tramontata e nel vento
della tarda sera l’Aniene discorreva ora forte ora piano, come colui che
parlando concitato ricorda di tratto in tratto al suo interlocutore cosa da non
lasciar udire ad altri. Il solo forse che in tutta la bella conca di Subiaco
stesse attento al suo discorso, era Giovanni Selva. Seduto presso il parapetto
della terrazza, egli vi teneva appoggiati i gomiti e guardava silenzioso
nell’ombra sonora. Maria e Noemi uscite anch’esse a goder la frescura e gli
aromi selvaggi del vento notturno, si tenevano in disparte. Maria sussurrò una
parola all’orecchio della sorella, che uscì. Rimasta sola, si accostò pian
piano al marito, gli posò un bacio sui capelli:
«Giovanni» diss’ella. Quante volte,
oppressa dalla violenza dell’amore, non gli aveva ella data l’anima sua, tutta
sé stessa, in questa sola parola detta sotto voce, tutte l’altre essendo
manchevoli, per lei, o sciupate da troppe labbra!
Giovanni rispose mestamente, come
stanco:
«Maria.»
Non sentendosi più il viso di lei sui
capelli, temette di esserle parso freddo.
«Cara» diss’egli.
Ella tacque un momento e posategli
ambedue le mani sul capo, prese ad accarezzarglielo lentamente, dicendo:
«Beati coloro che soffrono per la
Verità.»
Egli si voltò con un sorridente fremito
di affetto, guardò se Noemi fosse ancora presente, si attirò con un braccio il
caro viso sulla bocca.
«Ho tanto bisogno di te,» disse «della
tua forza!»
«Sono tua per questo» rispose Maria «e
sono forte solo perché tu mi ami.»
Egli le prese una mano, la baciò,
riverente.
«Vedi?» esclamò poi, alzando il viso.
«Forse non sai proprio il più profondo del mio soffrire, perché è una cosa
oscura anche a me che sono vecchio e non mi conosco ancora. Ci pensavo adesso.
Pensavo che quando si soffre di una ferita la causa del soffrire si vede, ma
quando si soffre di una febbre la causa è oscura così e non si arriva mai a
conoscerla bene.»
Un mese non era ancora trascorso dalla
sera della riunione in cui si era parlato di una lega fra i cattolici
progressisti. Nessuna lega n’era venuta fuori ma uno strano seguito di fatti
spiacevoli non poteva ragionevolmente attribuirsi ad altra origine. Il
professore Dane era stato richiamato in Irlanda dal suo arcivescovo. Egli si
era subito recato da un cardinale di curia, inglese, per rappresentargli le sue
cattive condizioni di salute e chiedergli di appoggiare presso l’Arcivescovo
una domanda di dilazione. Sua Eminenza gli aveva aperto gli occhi. Il colpo era
venuto da Roma dove si era malissimo disposti verso di lui. Soltanto per un
riguardo al cardinale stesso, amico del Dane, e sopra tutto per riguardo al
governo inglese, non si accontenterebbero coloro che avrebbero voluto far mettere
all’Indice i suoi libri e costringer lui a lasciare la cattedra. Il cardinale
gli aveva consigliato di partire da Roma, dove il caldo era già molesto, e di
ammalarsi un po’ più sul serio a Montecatini o a Salsomaggiore, dove lo
avrebbero lasciato tranquillo. Don Clemente non si era più visto. Giovanni era
andato a trovarlo a Santa Scolastica, dove il monaco gli aveva significato con
le lagrime agli occhi che la loro amicizia doveva seppellirsi come un tesoro in
tempo di guerra. A don Paolo Farè, che teneva in Pavia un corso di religione
per gli adulti, era stato imposto di tacere. Il giovane di Leynì era stato
colpito per mezzo della sua famiglia. La sua pia, eccellente madre lo aveva
supplicato piangendo, in nome del morto padre suo, di rompere con i pericolosi
amici Selva; ed egli credeva che il passo le fosse stato suggerito dal
confessore. Aveva resistito ma a prezzo della sua pace domestica. Finalmente,
un periodico clericale aveva pubblicato tre articoli sull’opera intera di
Giovanni, riassumendo parziali lodi temperate e parziali biasimi aspri in un
giudizio severissimo sul carattere, secondo il censore, razionalistico
dell’opera stessa e sulla temerità intollerabile dell’autore, che, unicamente
armato di sapere laico, aveva osato pubblicare scritture dove il difetto di
scienza teologica si rivelava miseramente. In sostanza quegli articoli erano
una terribile condanna preventiva proprio del libro che Giovanni stava
scrivendo sui fondamenti razionali della morale cristiana, e preannunciavano, a
giudizio degli esperti, l’Indice per gli altri suoi lavori.
«Dubiti delle tue idee?» disse Maria.
La domanda non era sincera. Ell’aveva,
malgrado il suo grande amore, una conoscenza profonda e chiara dell’animo di
suo marito. Pensava che soffrisse nel suo interno per il presentimento di una
condanna ecclesiastica. Giovanni poteva parlare con disistima di certe sentenze
della Congregazione dell’Indice, ma la sua coscienza, riverente verso
l’autorità più ch’egli stesso non pensasse, si turbava, secondo Maria, più
ch’egli stesso non volesse, del minacciato colpo. E Maria, temendo di ferirlo
se dicesse «hai paura?» aveva simulato un altro dubbio per aprirgli la via di
confessare spontaneamente il vero. La risposta di Giovanni la sorprese.
«Sì» diss’egli. «Dubito di me. Non però
nel modo che tu credi. Dubito di essere puramente un intellettuale e di
esagerarmi l’importanza, davanti a Dio, delle mie idee. Dubito di non viverle,
le mie idee. Dubito di sentire troppo sdegno contro coloro che non le dividono,
contro dei persecutori che dobbiamo amare, contro quell’abate svizzero che
venne qua con Dane e poi ha probabilmente parlato di ciò che si è detto allora
tra noi, dove e come non doveva. Dubito di condurre una vita troppo inoperosa,
troppo facile, troppo piacevole, perché a me lo studio è piacevole. Dubito del
mio stesso amore di Dio perché sento troppo poco l’amore del prossimo. Mi viene
in mente che le dolcezze mistiche mi possono addormentare circa questo punto.
Tu, Maria, tu vivi la tua fede! Tu visiti gl’infermi, tu lavori per i poveri,
tu conforti, tu istruisci. Io non faccio niente.»
«Io sono tu» mormorò Maria. «Sei tu che
mi hai fatta così. E poi tu eserciti la carità intellettuale.»
«No no, questa è per me una parola
presuntuosa!»
Egli ricadde a contemplare in silenzio
l’ombra sonora.
Maria sapeva che veramente il sentimento
affettuoso della fraternità umana non era vivace in lui. Sentiva, non volendolo
quasi confessare a sé stessa, che questa deficienza toglieva a suo marito di
esercitare con successo il grande apostolato religioso che avrebbe dovuto
rispondere alle sue disposizioni intellettuali, a quella fede profonda e
luminosa ch’era in lui frutto d’ingegno, di studio, di amor divino più che di
tradizione e di abitudine. Si rimproverava di essersi qualche volta compiaciuta
della freddezza di Giovanni verso gli uomini, per il prezioso sapore che ne
prendevano i tesori di affetto dati a lei. Egli aveva però la coscienza del
dovere fraterno e mai ella non lo aveva conosciuto sordo alla preghiera, duro
al dolore altrui. Non sentiva e quindi non amava Dio negli uomini, ch’è il più
sublime fuoco della carità; sentiva e amava gli uomini in Dio, ch’è freddo
amore, come di un fratello buono al fratello soltanto per compiacere al padre.
Ma quest’ultima è la tempra comune anche dei cuori umani migliori. Quello di
Giovanni era temprato così, non poteva dare la carità sublime di cui umilmente,
tristemente si conosceva vôto. Maria, accarezzandogli i capelli con infinita
tenerezza pia, sognava che fluisse per il proprio cuore, per le proprie mani a
quel capo la soave indulgenza Divina.
«Sai» diss’ella «ti offro subito io
un’opera di carità che avrà molto merito. C’è Noemi che ha ricevuto una lettera
della sua amica Dessalle e dice di aver bisogno del tuo aiuto.»
«Chiamala» diss’egli.
Noemi venne. Una leggera nube era
passata quel giorno fra lei e Giovanni. Caso raro, avevano conversato insieme
di religione. Noemi si teneva ciecamente aggrappata alla propria e non amava
discuterne. Malgrado la sua tenerezza per Maria, il suo affettuoso rispetto per
Giovanni, temeva di piegare, se esaminasse le ragioni e la natura del proprio
credere, piuttosto verso lo scetticismo di Jeanne che verso il cattolicismo
liberale e progressista dei Selva. Questo cattolicismo le pareva una cosa ibrida
e forse aveva appreso da Jeanne a giudicarlo così, perché Jeanne, in qualche
momento di cattiveria nervosa, difendeva con acrimonia il proprio scetticismo
da quella fede che per essere luminosa di spirito e verità poteva riuscirgli
formidabile. Ell’era poi anche sempre in sospetto, non di sua sorella, ma di
Giovanni che meditasse di convertirla; e il sospetto era trapelato, quel
giorno, discorrendo i due della confessione, nella vivacità di qualche
risposta. Allora Giovanni le aveva dolcemente e gravemente ricordato che
l’errore accolto senz’averne coscienza, col desiderio sincero e puro della
verità, era incolpevole davanti a Dio; ma che se un sentimento estraneo a quel
desiderio avesse parte nella ripulsa della verità, ne sorgeva il peccato.
Questo argomento ferì Noemi ancora più
addentro. Ella fu per domandare al cognato i suoi titoli di vice giudice
divino. Si contenne e lasciò cadere il discorso.
Più tardi, ripensandoci, ebbe rimorso
del suo silenzio imbronciato; non tanto perché le ultime parole di Giovanni
avessero fatto cammino nella sua mente, quanto perché sapeva dei dispiaceri che
le opinioni religiose da lui professate gli fruttavano, perché lo vedeva
abbattuto di spirito. Anche per questo, richiamata da lui, pregata da sua
sorella d’essergli molto affettuosa, ella si risolse a una infedeltà verso
Jeanne. Di quanto Jeanne le aveva scritto sotto il suggello del segreto, si era
aperta con Maria solo fino al confine dello stretto necessario. Jeanne, sempre
malata di corpo e di spirito, aveva udito parlare del Santo di Jenne che
guariva i corpi e le anime, la pregava di recarsi a Jenne, di vedere questo
Santo, di scrivergliene qualche cosa. Ora Noemi non poteva andare a Jenne tutta
sola, doveva pur chiedere a Giovanni di accompagnarla. La sua prima confidenza
si era fermata qui. Adesso ruppe tutti i suggelli dell’amicizia e parlò.
La povera Dessalle era più infelice che
mai. Nel breve soggiorno a Subiaco aveva incontrato l’antico amante.
Esclamazione di Giovanni: era dunque proprio don Clemente? No, era l’uomo
venuto alla villa col padre la sera dell’arrivo di Jeanne, il garzone ortolano
di Santa Scolastica, colui che non era più al monastero, colui del quale si
parlava già in tutta la valle dell’Aniene, e anche a Roma, come del Santo di
Jenne. Noemi si scusò di non averlo detto subito, allora. Guai se Jeanne fosse
venuta a saperlo, dopo le sue proibizioni di parlare! E poi non serviva.
Giovanni prese quasi furtivamente una mano di sua moglie e se la recò alle
labbra. Maria intese e sorrise. Ambedue assalirono Noemi di domande.
Sì, lo aveva riconosciuto la sera
dell’arrivo e adesso Giovanni e Maria potevano intendere il perché di quel
tramortimento che si era visto. L’incontro era poi avvenuto l’indomani al Sacro
Speco. Noemi ne sapeva soltanto che le speranze di lei n’erano state distrutte,
ch’egli vestiva da monaco e aveva parlato come un uomo datosi a Dio per sempre,
ch’ella gli aveva promesso di dedicarsi ad opere di carità e che nessuna
relazione diretta era più possibile fra loro.
Adesso la Dessalle scriveva da villa
Diedo, il soggiorno veneto dove si era ricondotta col fratello da Roma, due
giorni dopo aver lasciato Subiaco. Scriveva in un’ora di amarissimo sconforto.
Il fratello, sorpreso ch’ella si occupasse tanto de’ poveri, s’irritava di
questa novità nei suoi pensieri e nella sua vita. Largheggiasse di denaro, se
le piaceva, quanto le piaceva! Farsi venire una fila di pezzenti in casa,
visitarli nei loro tugurii, no! Questo era sciocco, era inutile, era noioso,
era ridicolo, era pazzesco, era clericale. C’erano altre difficoltà.
Ell’avrebbe desiderato entrare nelle associazioni femminili caritatevoli della
città. Al contatto della signora che aveva tanto fatto parlare di sé per
Maironi, che se pure andava qualche volta in chiesa la domenica però non
adempiva il precetto pasquale, esse indietreggiavano chiudendosi in sé stesse
come sensitive. E finalmente anche le sue abitudini di dama oziosa si
ricomponevano via via dopo il primo strappo a impedirle il nuovo cammino, tanto
più pronte quanto più il cammino si faceva difficile. Sentiva di dover
soccombere se non le venisse una parola di consiglio, di aiuto da lui.
Vederlo non poteva, scrivere non osava perché certamente egli aveva inteso
vietare anche questo ed ella sarebbe morta piuttosto che fargli cosa sgradita,
potendo evitarlo. Aveva letto una corrispondenza romana del Corriere sul
«Santo di Jenne» dove si diceva che il Santo era giovine e aveva lavorato da
bracciante nell’orto di Santa Scolastica. Era lui, dunque! Supplicava Noemi di
andare a Jenne, di chiedergli per lei l’elemosina di un conforto.
Noemi era risoluta di andare. Vorrebbe
Giovanni accompagnarla? Nel tôno umile col quale lo chiese Giovanni sentì una
tacita offerta di scuse e di pace, le stese la mano.
«Di tutto cuore» diss’egli.
Maria si offerse per terza compagna. Fu
stabilito di andare l’indomani, a piedi, e di partire alle cinque del mattino
per non avere il sole ardente sulla costa di Jenne, nuda e scoscesa. Poi si
parlò del Santo.
Tutta la valle ne era piena. La
corrispondenza letta dalla Dessalle diceva che una quantità di gente affluiva a
Jenne per vedere e udire il Santo, che si proclamavano guarigioni miracolose
operate da lui, che i benedettini raccontavano con ammirazione la vita di
penitenza e di preghiera ch’egli aveva condotto per tre anni lavorando
nell’orto di Santa Scolastica. A Subiaco si raccontava ben altro. Un tale
Torquato, guardaboschi, brav’uomo, parente della domestica dei Selva, aveva
detto a costei di essere andato a Jenne con un forestiere, una specie di poeta,
venuto da Roma per parlare al Santo. Nell’andata e nel ritorno aveva veduto,
tutt’assieme, forse una cinquantina di persone che si recavano a Jenne per lo
stesso scopo. Fior di signori, anche; sulla costa di Jenne una processione di
donne che cantavano le litanie. A Jenne aveva saputo tutta la storia. Una notte
l’arciprete di Jenne aveva sognato un globo di fuoco sulla grande croce
piantata a sommo della costa e questo globo di fuoco aveva acceso la croce che
ardeva e splendeva senza consumarsi, illuminava tutte le montagne e le valli.
Il giorno di poi egli si era visto capitare un giovine vestito da converso
benedettino, che aveva l’incarico di recargli una lettera. Questa lettera era
dell’Abate di Santa Scolastica e diceva: «Vi mando un angelo di fuoco ardente
che farà parlare di Jenne in tutto l’universo mondo.» Anche vi era scritto che
questo giovine era nato principe grande di sangue di re, e che per servire Dio
in umiltà si era fatto ortolano per tre anni a Santa Scolastica. E l’arciprete
si era come impazzito per la commozione di questo fuoco sognato e di questo
fuoco arrivato, e gli era venuta una grandissima febbre. L’indomani era giorno
di festa. Degli altri due preti che stanno a Jenne uno era infermo e l’altro se
n’era andato a Filettino due giorni prima per vedere sua madre inferma. La
fantesca del parroco aveva raccontato nel paese di questo benedettino e del
sogno e ogni cosa. La gente del paese era andata in chiesa per udir la messa
del benedettino che avean veduto entrarvi, e non voleva credere che il
benedettino non dicesse messa. Volevano che almeno predicasse, malgrado le sue
proteste di non averne il diritto in chiesa; e, presolo in mezzo, gli facevano
tanta ressa intorno ch’egli aveva accennato con la mano di uscire della chiesa
promettendo ai vicini di parlare fuori. E fuori aveva parlato. Che avesse
propriamente detto, la fantesca non l’aveva saputo dire a Maria, né Maria
l’aveva poi potuto cavar bene a Torquato. Un po’ interrogando, un po’
immaginando, ella si ricostituì il suo discorso così:
Potete voi entrare in chiesa? Siete voi
riconciliati con i vostri fratelli? Sapete cosa Vi dice il Signore Gesù con
questa parola che non si può avvicinarsi all’altare senza essersi riconciliati
con i fratelli? Sapete che non potete entrare in chiesa se avete mancato contro
la carità e la giustizia e non ne avete fatto ammenda, o non ne siete pentiti
quando nessuna ammenda è possibile? Sapete che non Vi è lecito di entrare in
chiesa se nutrite qualche rancore verso i fratelli vostri non solo, ma pure se
avete fatto torto loro in qualunque modo, negl’interessi o nel’onore, se avete
detto loro ingiuria, se portate nel cuore desiderii disonesti contro i loro
corpi e le loro anime? Sapete che tutte le messe, le benedizioni, i rosarii, le
litanie contano meno che niente se voi prima non vi purificate il cuore secondo
la parola di Gesù? Siete voi immondi di odio, d’impurità? Andate, Gesù non vi
vuole in chiesa!
Ma che! diceva Torquato. Il discorso era
niente, era la voce, era il viso, erano gli occhi! Il buon uomo ne parlava come
se vi ci fosse trovato. Allora la gente, giù, in ginocchio, e pianti; e certe
donne, nemiche fra loro, ad abbracciarsi. Già non c’erano che donne e vecchi
perché gli uomini di Jenne son tutti pecorai a Nettuno e ad Anzio, e prima della
fine di giugno non ritornano alla montagna. Il Santo, vedutili così contriti,
aveva detto: entrate, inginocchiatevi, Iddio è dentro di voi, adoratelo in
silenzio. La gente era entrata, una moltitudine. Eran caduti in ginocchio,
tutti, e per un quarto d’ora, Torquato raccontava così, si sarebbe udita, in
quella grande chiesa, una mosca volare. Poi il Santo aveva intonato il «Padre
nostro» a voce alta e, seguito dal popolo, lo aveva recitato lentamente
sostando a ogni versetto. E Torquato raccontava che l’arciprete, udito tutto
questo, aveva baciato il suo ospite e nel baciarlo era guarito della febbre.
Ecco portare infermi al Santo, in canonica, perché li benedica e li sani. Egli
non voleva ma quanti riuscivano a toccargli, magari di furto, la tonaca, guarivano.
E tanti andavano a lui per consiglio. C’era stato un miracolo grande di una
mula imbizzarrita sulla discesa della costa, ch’era per gittare il suo
cavaliere sulle pietre in vista del Santo, il quale saliva dall’Infernillo
portando acqua. Il Santo aveva stesa la mano e la mula si era chetata
sull’atto.
Il racconto del guardaboschi fu riferito
da Maria.
«Che tutto sia vero come il principe di
sangue reale?» disse Noemi.
«Domani si saprà» rispose Giovanni,
alzandosi.
|