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L’oste di Jenne, un brav’uomo in occhiali, nobilmente cortese, che conosceva
il mondo per essere stato in America e tuttavia pareva immune delle sue
corruzioni, parlò di Benedetto ai nuovi arrivati con favore, in sostanza; però
non senza certo riserbo diplomatico. Non lo chiamava il Santo; lo chiamava fra
Benedetto. I Selva seppero da lui che Benedetto viveva in una capanna sua,
lavorandogli per compenso un campicello. Chi lo volesse vedere doveva aspettare
le undici. Adesso stava falciando l’erba. La sua vita era questa. Sull’alba
andava alla messa dell’arciprete. Lavorava fino alle undici. Mangiava pane,
erbe, frutta, non beveva che acqua. Nel pomeriggio lavorava per niente le terre
delle vedove e degli orfani. La sera, seduto sulla sua porta, parlava di
religione.
Alle dieci e mezzo i Selva e Noemi andarono a veder Sant’Andrea, la chiesa
di Jenne, accompagnati dall’ostessa, bella donna poderosa, pulitissima,
semplice, ilare modestamente. Usciti in piazza dal dedaluccio di vicoletti
dov’è l’osteria, vi trovarono gran capannelli di donne, a detta dell’ostessa,
forestiere. Ella le distingueva dai busti, dai guarnelli, dalle calzature.
Queste erano di Trevi, quelle di Filettino, quell’altre di Vallepietra.
L’ostessa entrò in un forno a destra della chiesa dove parecchie donne di Jenne
si facevan cuocere le stiacciate, ciascuna la propria.
«Forestiere che vogliono parlare al nostro Santo» diss’ella a Maria. Ella
non diceva «Fra Benedetto» come il marito; diceva «il Santo».
«Non a lui, però» dichiarò arrossendo «perché lui si stizzisce.» No, non si
stizziva veramente, perché gli era un Santo; ma pregava con dolore di non venir
chiamato così.
Nel gran chiesone rovinoso che «una domenica o l’altra» diceva l’ostessa «ce
schiaccia tutti come topi» non c’erano che i due malati e la loro compagnia. I
due malati erano stati adagiati sul pavimento, proprio nel mezzo della chiesa,
con due guanciali sotto il capo. I loro compagni salmeggiavano ginocchioni e
non guardarono a chi entrava, continuarono a salmeggiare.
«Forse li hanno condotti per farli benedire al Santo» disse l’ostessa sotto
voce «ma di questo il Santo ha dolore. Non vuole. Forse cercheranno di toccargli
l’abito di soppiatto e questo pure è difficile, ora.»
Quella povera gente cessò di salmeggiare e una donna venne a domandare
all’ostessa se le undici fossero suonate. Le rispose Maria che mancava un
quarto d’ora e le domandò degl’infermi. L’uomo era malato di febbri, da due
anni; la ragazza, sua sorella, di cuore. Venivano dal piano di Arcinazzo, una
strada di parecchie ore, per farsi guarire dal Santo di Jenne. Una donna di
Arcinazzo, malata di cuore, era guarita giorni prima solo con toccargli l’abito.
Maria e Noemi parlarono agli infermi. La ragazza era fidente. L’uomo, che
tremava di febbre, pareva fosse esser venuto per accontentare i suoi, per
provare anche questa. Aveva molto sofferto del viaggio.
«So’ strade per andare all’altro mondo» diss’egli «e la guarigione sarà
quella.»
Una donna, forse sua madre, ruppe in pianto e lo supplicò di pregare, di
raccomandarsi a Gesù e Maria. Le due signore si allontanarono, richiamate da
Giovanni per un tafferuglio che avveniva sulla piazza fra le donne e quegli
studenti che avevano oltrepassato i Selva sulla costa di Jenne. Gli studenti
dovevano avere scherzato male sulla devozione loro al Santo. Erano inviperite.
Quelle di Jenne sbucarono dal forno. Da un’altra parte sbucarono due pennacchi
di carabinieri. Noemi e Maria entrarono fra le donne a metter pace. Giovanni
arringò gli studenti che ridevano per braveria, con pericolo di peggio. Un
canto suonò dalla chiesa, prima velato, poi, aprendosi la porta, forte:
«Sancta Maria, ora pro nobis.»
Comparvero i due ammalati. La ragazza camminava sorretta, l’uomo era portato
a braccia, dalla testa e dai piedi, spenzolato come un cadavere. E anche le
portatrici cantavano, solenni in viso:
«Sancta Virgo virginum, ora pro nobis.»
Sulla piazza le donne caddero ginocchioni tutte insieme, intorno ai
carabinieri sbalorditi; gli studenti ammutolirono; una cavalcata di signori e
signore che entrava in piazza dalla mulettiera di Val d’Aniene, si arrestò.
Maria prima, quindi Noemi, tratte a terra da uno spirito che metteva loro brividi
di commozione, s’inginocchiarono. Giovanni esitò. Quella non era la sua fede. A
lui sarebbe parso di offendere il Creatore e Donatore della ragione facendo
viaggiare a lungo sul mulo degli ammalati perché un simulacro, una reliquia, un
uomo, li guarisse miracolosamente. Però era fede. Era, dentro un rude involucro
d’ignoranze caduche, il senso, negato alle menti superbe, dell’ascosa Verità
che è Vita, radio misterioso dentro un ammasso di minerale impuro. Era fede,
era incolpevole errore, era amore, era dolore, era un che visibile degli
accolti più alti misteri dell’Universo. La terra stessa e la grande faccia
triste della chiesa e le piccole facce umili delle casupole intorno alla
piazza, parevano averne intelletto e riverenza. Giovanni si vide in mente la
immagine di una morta, statagli cara, che aveva creduto così, un’aura gelata
corse anche a lui nel sangue, le ginocchia gli si piegarono sotto. La compagnia
degli ammalati passò cantando colla faccia levata:
«Mater Christi». Le donne inginocchiate risposero colla faccia a
terra:
«Ora pro nobis».
Poi si alzarono e seguirono il corteo. Intanto tre o quattro donne di Jenne
dissero forte:
«Non vole! Non vole!»
Una spiegò a Maria che il Santo non voleva gli fossero portati infermi. Non
furono ascoltate e seguirono anche loro, curiose di quel che sarebbe.
Pure i Selva, sulle prime renitenti, si mossero dietro a Noemi, avida. Alle
loro spalle, con quel giusto intervallo che li dimostrasse spettatori e non seguaci,
si avviarono gli studenti. Soli, assai più da lontano, seguivano i carabinieri,
ultima coda del serpe di gente, che guizzò e scomparve dentro un fesso
dell’ammasso di casolari fronteggianti la chiesa.
Scomparve, si torse per i vicoletti oscuri dai nomi pomposi, che riescono a
un’altra fronte del villaggio, la più misera, la più deforme. Ivi, sulla ruina
sassosa del monte, male affisse ai ronchioni, alle lastre della roccia,
sdrucciolano in basso fra i ciottoli le stamberghe ammassellate. Le finestrine
nere guardano come occhiaie di scheletri il silenzio della valle profonda,
chiusa. Le porte versano sulla ruina scalini diruti. Le più non ne hanno che
tre o quattro scheggioni. Qualcuna n’è rimasta del tutto vedova. Quando ci si è
a fatica inerpicati dentro si trovan caverne senza luce né aria.
«So’ mali passi, vigoli cattivi» disse alle signore dalla sua porta una
vecchia, sorridendo.
Una di questa caverne male accessibili era la dimora di Benedetto. Due rivi
della turba, rotta nella discesa, vi si riunirono sotto la porta aperta. Da un
forno lì accanto le donne uscirono a dire che Benedetto non c’era. La turba
ondeggiò intorno ai due infermi, si levarono voci di lamento. Domande ansiose,
diversi mormorii risalirono per i due rivi di gente su all’altro capo della
processione, dove non si era inteso il perché di quei gemiti e si faceva ressa
per scendere, per vedere. Forse qualche maggior guaio era accaduto agli
ammalati, fermi nel sole ardente. Tre studenti scivolarono giù fra le donne
levandone grugniti di male parole. Ecco, una donna di Jenne ha detto:
«Portateli dentro, poverini.»
Sì, sì, dentro, dentro! Nella casa del Santo!
La gente si aspetta già il miracolo dalle pareti fra le quali egli vive, dal
suolo che preme, dagli arredi pregni della sua santità. Sul letto del Santo!
Sul letto del Santo! Si posano delle assicelle sui pietroni smozzicati che
salgono alla porta di Benedetto, i due infermi sono tra spinti e portati su da
un’ondata. Eccoli stesi per traverso sul giaciglio del Santo. L’ondata empie la
caverna. Tutti cadono ginocchioni, a pregare.
È caverna veramente. Un fianco intero n’è parete giallastra di roccia,
tagliata per isghembo. Si cammina sulla terra nuda, mal calcata. Accanto al
giaciglio, alto due palmi, è un focolare. Non vi son finestre, ma un raggio di
sole, entrato per il camino, batte, celeste fiamma, sulla pietra senza cenere
del focolare. Una coperta bruna è stesa sul letto. Una croce è scolpita
rozzamente sulla parete obliqua di roccia, presso all’entrata. In un angolo si
vede, sola ricchezza, una gran secchia piena d’acqua, un catino verde, una
bottiglia, un bicchiere. Alcuni libri sono accatastati sopra una sdruscita
seggiola di paglia. Un’altra seggiola porta un piatto di fave e del pane. Il
luogo ha l’aspetto di una estrema povertà, ordinata e pulita.
L’uomo, febbricitante, si lagna del freddo, dell’umido, del buio. Dice di
star peggio e che lo hanno condotto a morire. Lo scongiurano di chetarsi, di
sperare. Invece la sua giovinetta sorella dal cuore ammalato, un minuto dopo che
l’han posata sul letto, sente sollievo. Lo annuncia subito, annuncia che
guarisce. Intorno a lei si lagrima e si ride insieme, si loda il Signore. Le si
baciano le vesti come s’ella pure fosse divenuta santa, si grida l’annuncio
fuori. Voci di gioia rispondono, altra gente si caccia nella caverna col viso
acceso, con gli occhi avidi. Ma in quel momento qualcuno, ch’è sceso più
abbasso in cerca del Santo, grida da lontano: il Santo viene! il Santo viene!
Allora la caverna rigurgita gente sulla china, un fracasso di voci e di passi
trabocca in giù, in un attimo tutto è vuoto intorno ai Selva e a tre o quattro
studenti, fermi sotto l’entrata della capanna. Delle donne di Jenne parte è
ritornata nel forno al lavoro, parte sta a guardare sulla porta. Maria scambia
qualche parola con queste. Tutta forestiera quella gente ch’è scesa? Eh sì, non
tutta ma quasi. Gente di Vallepietra, la più parte. Sarebbe meglio che da
Vallepietra ci venisse l’acqua. E che vogliono? Portarsi via il Santo da Jenne?
Sì, dicevano anche questo, parlavano di far gran cose. E voi? Noi si sa che lui
non vole andare. E poi… Le compagne gridano qualche cosa dal di dentro, la
donna si volta, succede un litigio, i due Selva e gli studenti entrano a vedere
la guarita miracolosamente. Noemi rimane fuori. È impaziente di vedere
Benedetto, palpita, non ne comprende il perché, si chiama stupida nel suo
cuore; ma non si muove.
Due tonache benedettine venivano per i campicelli del basso, da lontano.
Sopra la seconda lampeggiava tratto tratto un ferro di falce. Udito piombar
dall’alto lo scroscio delle voci e dei passi, Benedetto disse al suo compagno
con un sorriso: «Padre mio.»
Don Clemente, appena arrivato a Jenne, aveva raggiunto Benedetto sul
praticello che stava falciando, gli aveva recato il messaggio doloroso e
promesso, dopo un lungo colloquio, di tenere a chi lo chiamava santo certo
discorso che Benedetto desiderò. Udì anche lui lo scroscio della folla che
scendeva, le grida «il Santo! il Santo!» e quando Benedetto gli ebbe detto
sorridendo: «Padre mio!» impallidì, fece un gesto di acquiescenza e passò
avanti. Benedetto depose la falce, uscì un poco del sentiero, sedette dietro un
masso e un gran melo fiorito, che lo nascondevano ai sopravvegnenti. Don
Clemente li affrontò solo.
Al primo vederlo coloro si arrestarono. Più voci dissero: «non è lui!» e
altre voci: «lui è dietro!» e altre ancora dalla retroguardia: «passate
avanti!» La colonna si mosse.
Allora don Clemente levò la mano e disse: «Ascoltate.»
L’uomo che non sapeva parlare a due persone sconosciute senza coprirsi di
rossore, adesso era pallidissimo. La voce dolcemente velata si udì appena ma si
vide il gesto. Il bellissimo viso sereno, l’alta persona, imposero riverenza.
«Voi cercate Benedetto» diss’egli. «Voi lo chiamate Santo. Questo è un
grandissimo dolore che voi gli date. Egli ha pur detto a tutti dal primo giorno
del suo arrivo a Jenne di essere un gran peccatore ridotto a penitenza per la
infinita bontà di Dio. Ma egli vuole che io vi confermi questo. Lo confermo, è
la verità. È stato un gran peccatore. Domani potrebbe cadere ancora. Se vi
credesse un solo momento quando voi lo chiamate Santo, Iddio si allontanerebbe
da lui. Non lo chiamate più Santo e soprattutto, poi, non gli domandate più
miracoli.»
«Padre» lo interruppe con voce solenne, facendosi avanti e allargando le
braccia, un vecchio alto, magro, sdentato, dal profilo d’aquila. «Padre, noi
non domandiamo il miracolo, il miracolo è fatto, la donna, come ha toccato la
dimora dell’uomo è guarita, e noi Le diciamo che l’uomo è santo e se a Jenne vi
è gente che dice altre cose è gente degna di bruciare nel fondo dell’inferno.
Padre, noi Le baciamo le mani ma diciamo questo.»
«C’è un ammalato, ancora! C’è un ammalato, ancora!» gridarono dieci, venti
voci. «Venga il Santo!»
Dal gruppo degli studenti, alla retroguardia, si gridò: «avanti il Santo! Il
Santo parli!»
«O che modo è questo?» fece il vecchio volgendosi addietro con dispetto, da
spodestato oratore del popolo. «Che modo è questo?»
Un subisso di voci sdegnose coperse la sua, gridando gli studenti sempre più
forte:
«Venga il Santo! Parli il Santo! Via il prete! Via!»
Le donne si voltarono minacciose:
«Via voi, via!»
E in alto, dalle stamberghe appollaiate sulla rovina, sbucarono i pennacchi
dei carabinieri. Allora Benedetto si alzò, uscì allo scoperto.
Appena fu veduto, un gran clamore di gioia lo accolse. I Selva si fecero
sulla porta della caverna a guardare in giù, Noemi scese di corsa. Benedetto si
trovò attorniato in un lampo da gente che gli baciava la tonaca benedicendo.
Molti, ginocchioni, piangevano. Noemi, ch’era discesa sola dietro gli studenti,
si slanciò avanti, vide finalmente l’uomo.
Jeanne le ne aveva mostrate più fotografie, dicendo però che di nessuna era
soddisfatta pienamente. Nella fisonomia simpatica di Piero Maironi Noemi aveva
letto un’ombra interna di tristezza; quella di Benedetto luceva di
straordinaria vita. Da due giorni egli si era fatto radere capelli e barba per
aver udito una donna sussurrare: «è bello come Gesù.» La espressione dell’anima
dominatrice gli si era accentuata nel naso più prominente per la maggiore
magrezza, nelle grandi occhiaie scure. Gli occhi avevano un fascino
inesprimibile. Spiravano tristezza anche adesso ma una tristezza dolce, piena
di vigore e di pace, di devozione mistica. Attorniato, sotto la bianca
nuvoletta del melo fiorente, dalla turba prostrata, circonfuso di sole e di
mobili ombre, pareva una visione di pittore antico. Noemi impietrò, stretta
alla gola da un groppo di pianto. Presso a lei parecchie donne piangevano, solo
per averlo veduto, penetrate da una suggestione vicendevole. Una di esse,
ammalata, stanca, si era seduta sull’orlo del sentiero, non poteva vedere il
Santo, piangeva di commozione senza saperne il perché. Sopraggiunsero dei
ritardatarii, un vecchio e tre donne di Vallepietra. Subito le tre donne,
scambiando don Clemente per Benedetto, si misero a singhiozzare e a gridare:
«com’è bello, com’è bello!»
Intanto, sotto la bianca nuvoletta del melo fiorito, Benedetto riuscì con
parole di dolore, di supplica, di rampogna, a respingere l’assalto della turba
adoratrice, a farla rialzare in piedi. Un grido partì dal gruppo degli
studenti: «parli!» In quello stesso momento, lassù in alto, le campane di Jenne
annunciarono solenni il mezzogiorno al villaggio, alle solitudine, al monte
Leo, al monte Sant’Antonio, al monte Altuino, alle nubi veleggianti verso
ponente. Benedetto si pose l’indice alla bocca, le campane parlarono sole.
Guardò don Clemente come per un tacito invito. Don Clemente si scoperse e
cominciò a dire l’Angelus Domini. Benedetto, in piedi, a mani giunte, lo
disse con lui e fino a che le campane suonarono tenne gli occhi fissi sul
giovane che gli aveva gridato di parlare: gli occhi pieni di tristezza, di
dolcezza mistica. Quello sguardo ineffabile, il suono delle campane solenni, il
tremar dell’erba, l’ondular lieve dei rami fioriti al vento, il rapimento di
tante facce lagrimose volte a una sola si componevano insieme per Noemi in una
parola unica che la esaltava senza rivelarsi, come tormenta l’anima nel
desiderio di sé la parola occulta sotto una tragica processione di accordi
musicali. Le campane tacquero e Benedetto disse dolcemente a chi gli stava di
fronte:
«Chi siete voi e cosa è accaduto che vi ha fatto venire a me come se io
fossi quello che non sono?»
Gli fu risposto da più voci a un tempo, gli fu detto del miracolo e com’egli
fosse desiderato nel villaggio degli uni e nel villaggio degli altri.
«Voi esaltate me» diss’egli «perché siete ciechi. Se questa giovine è guarita
non io l’ho guarita ma la sua fede. Questa forza della fede che l’ha fatta
alzarsi e camminare è nel mondo di Dio, dappertutto e sempre, come la forza
dello spavento che fa tremare e cadere. È una forza nell’anima come le forze
che sono nell’acqua e nel fuoco. Dunque se la giovine è guarita è perché Dio ha
disposto nel suo mondo questa gran forza; datene lode a Dio e non a me. Ma poi
udite. Voi offendete Dio se la Sua potenza e bontà vi paiono più grandi nei
miracoli. Esse sono dappertutto e sempre infinite. È difficile di capire come
la fede risani, ma è impossibile di capire come questi fiori vivano. Il Signore
non sarebbe mica meno potente né meno buono se questa giovane non fosse
guarita. Pregate di guarire sì, ma pregate più ancora di comprendere questa
grande cosa che vi ho detto ora, pregate di poter adorare la volontà del
Signore quando vi dà la morte come quando vi dà la vita. Vi sono nel mondo
degli uomini che credono di non credere in Dio e quando le malattie e la morte
entrano nelle loro case, dicono: è la legge, è la natura, è l’ordine
dell’Universo, noi pieghiamo il capo, noi accettiamo senza mormorare, noi
proseguiamo il cammino del nostro dovere. Guardate che questi uomini non
passino avanti a voi nel regno dei cieli. E pensate anche quali miracoli
domandate. Voi venite per esser guariti dalle malattie del corpo, voi volete
che io venga nei vostri villaggi per questo. Abbiate fede e guarirete senza di
me. Ricordatevi però che potreste usare anche meglio la vostra fede secondo la
volontà di Dio. Siete voi tutti e interamente sani dell’anima vostra? No, voi
non lo siete; e che vi servirà di aver l’otre sana se il vino è guasto? Voi
amate voi stessi e le vostre famiglie più della verità, più della giustizia,
più della legge divina. Voi avete presente sempre quello ch’è dovuto a voi e ai
vostri e ben di rado quello ch’è dovuto agli altri. Voi credete di salvarvi
colla moltitudine delle preghiere. E nemmeno sapete pregare. Voi pregate allo
stesso modo i Santi che sono i servi e Iddio ch’è il Padrone; quando non fate
peggio! Voi non pensate che al Padrone non importano le molte parole, ch’Egli
preferisce essere servito fedelmente in silenzio col pensiero sempre alla Sua
volontà. E non intendete i vostri mali, siete come il moribondo che dice: «sto
bene.» Forse alcuno di voi pensa in questo momento: se non intendo il male che
faccio, il Signore non mi condannerà. Ma il Signore non giudica come i giudici
del mondo. L’uomo che ha preso un veleno senza saperlo deve cadere come colui
che lo ha voluto prendere. L’uomo che non ha la veste bianca non può entrare
nella cena del Signore anche se non sapeva che la veste non era necessaria.
Colui che ama se stesso sopra ogni cosa, sappia o non sappia il suo peccato,
non passa per la porta del regno dei cieli, allo stesso modo che il dito della
sposa, se è ripiegato sopra sé stesso, non entra nell’anello offerto dallo
sposo. Conoscete le infermità dell’anima vostra e pregate con fede di esserne
sanati. Vi dico in nome di Cristo che lo sarete. La guarigione del vostro corpo
è buona per voi, per la famiglia vostra, per gli animali e le piante che avete
in cura; ma la guarigione dell’anima vostra, credete questa cosa benché non la
comprendete! la guarigione dell’anima vostra è buona per tutte le povere anime
dei viventi sbattuti fra il bene e il male, è buona per tutte le povere anime
dei morti che si purificano con fatica e dolore, come la vittoria di un soldato
è buona per tutti della sua nazione. È anche buona per gli Angeli, che sentono
tanta gioia, ha detto Gesù, per la guarigione di un’anima, e la gioia fa
crescere la loro potenza, e la loro potenza, credete voi che sia per le tenebre
o per la luce, per la morte o per la vita? Domandate con fede, prima la
guarigione dell’anima e poi la guarigione del corpo!»
Dal ripido pendìo gli si porgeva una fitta di visi; avidi i più alti cui
soltanto giungeva il suono della voce, e rigati di pianto; parte attoniti i più
vicini, parte entusiasti, parte dubbiosi. Anche a Noemi colavano lagrime lungo
le guancie smorte. Gli studenti avevano smesso l’aria beffarda. Quando
Benedetto tacque, uno di loro avanzò risoluto e serio, per parlare. In quel
mentre il vecchio esclamò:
«E voi ci guarite l’anima!»
Altre voci ripeterono ansiose:
«E voi ci guarite l’anima! E voi ci guarite l’anima!»
In un baleno, tutta l’avanguardia, presa dal contagio, traboccò in ginocchio
tendendo le braccia supplici:
«E voi ci guarite l’anima! E voi ci guarite l’anima!»
Benedetto si gettò avanti con le mani nei capelli, esclamando:
«Che fate ancora? Che fate ancora?»
Un grido suonò dall’alto: «la miracolata!» La giovinetta che, posata sul
giaciglio di Benedetto, si era sentita risanare, scendeva al braccio di una
sorella maggiore, cercando Benedetto. Questi non badò al grido, al balenar
della gente lassù, che si divideva per lasciar passare le due donne. Non
valendo a far rialzare la gente, cadde ginocchioni egli pure. Allora coloro che
gli stavano intorno si rialzarono, e giungendo ad essi il fremito commosso e le
voci: «La miracolata! La miracolata!» fecero rialzare lui che pareva non avere
udito. «La miracolata!» gli diceva ciascuno, «la miracolata!» cercando sul suo
viso la compiacenza del miracolo con occhi che gridavano: «viene per voi,
l’avete guarita voi!» come s’egli poco prima non avesse detto nulla.
La giovinetta scendeva, smorta e giallognola come la petrosa via battuta dal
sole, triste nel visetto gentile inclinato al braccio della sorella. E la
sorella pure era triste. La turba si divise davanti a loro e Benedetto si fece
da parte, riparò dietro don Clemente con un involontario moto che parve
deliberato. Tutti trepidavano e sorridevano come nell’attesa di un altro
miracolo. Le due donne non s’ingannarono, passarono davanti a don Clemente
senza neppur guardarlo, si volsero a Benedetto e la maggiore gli disse, sicura:
«Uomo santo di Dio, tu hai guarito questa, guarisci l’altro!»
Benedetto rispose quasi sotto voce, tutto fremente:
«Io non sono un uomo santo, io non ho guarito questa, per quest’altro che
dite io potrò solamente pregare.»
Udito che l’altro era loro fratello, che stava nella sua capanna, sul suo
letto e che soffriva molto, disse a don Clemente:
«Andiamo ad assisterlo.»
E si mosse con il suo Maestro. Dietro a loro si ricompose rumoreggiando il
fiotto diviso della gente. Benedetto si voltò a proibire che lo seguissero, a
comandare che le donne si prendessero invece cura di quella giovinetta, la
quale non doveva risalir l’erta a piedi sotto la sferza del sole ardente.
Comandò che la portassero all’osteria, la facessero porre a letto, la ristorassero
con cibo e vino. Quelli che lo seguivano si fermarono, gli altri fecero ala
lasciarlo passare. Lo studente che prima aveva chiesto di parlare, lo accostò
rispettosamente, gli domandò se più tardi egli e alcuni amici suoi avrebbero
potuto trattenersi un poco, soli, con esso.
«Oh sì!» rispose Benedetto con un virile, caldo impeto di assenso. Noemi
ch’era lì presso, si fece coraggio.
«Devo chiederle cinque minuti anch’io» diss’ella in francese, arrossendo; e
subito le balenò di aver dato così a capire che lo conosceva persona colta, si
fece tutta una vampa e ripeté la sua preghiera in italiano.
Don Clemente premette un poco, quasi senza volerlo, il braccio a Benedetto,
che rispose garbato ma un po’ asciutto:
«Vuol far del bene? Si occupi di quella povera ragazza.»
E passò oltre.
Entrò nella sua stamberga, solo con Don Clemente. Nessuno lo aveva seguito.
Una vecchia, la madre dell’ammalato, vedutolo entrare, gli si gettò piangendo
ai piedi con le parole di sua figlia:
«Siete voi l’uomo santo? Siete voi? Una me ne avete guarita, guaritemi anche
l’altro!»
Sulle prime Benedetto, entrando dal sole in quel buio, non discerneva
niente. Poi vide steso sul letto l’uomo che respirava male, gemeva, piangeva,
imprecava ai Santi, alle femmine, al paese di Jenne, al suo maledetto destino.
Inginocchiata accanto a lui, Maria Selva gli tergeva con un fazzoletto il
sudore della fronte. Nessun altro era nella caverna. Presso alla porta luminosa
la grande croce scolpita per isghembo sulla parete giallastra di roccia diceva
in quel momento una oscura parola solenne.
«Sperate in Dio» rispose Benedetto alla vecchia, dolcemente. E si accostò al
letto, si piegò sull’infermo, gli prese il polso. La vecchia cessò di
singhiozzare, l’infermo d’imprecare e di gemere. Si udì il ronzio delle mosche
nel focolare chiaro.
«Avete chiamato il medico?» mormorò Benedetto.
La vecchia riprese a singhiozzare:
«Guaritelo voi, guaritelo voi, in nome di Gesù e Maria!»
L’infermo riprese a gemere. Maria Selva disse sotto voce a Benedetto:
«Il medico è a Subiaco. Il signor Selva, che Lei forse conosce, è andato
alla farmacia. Io sono sua moglie.»
In quel punto rientrò Giovanni, ansante, afflitto. La farmacia era chiusa,
il farmacista assente. L’arciprete gli aveva dato del marsala. Dei signori
venuti da Roma con gran provvigioni gli avevano dato del cognac e del caffè.
Benedetto chiamo a sé con un cenno don Clemente, gli disse all’orecchio che
facesse venire l’arciprete; quell’uomo stava morendo. Avrebbe potuto andar egli
a chiamarlo ma gli pareva duro per la povera madre di allontanarsi. Don
Clemente uscì senza far motto. A pochi passi dalla casupola, la compagnia
elegante venuta da Roma per curiosità del Santo di Jenne, tre signore e quattro
signori, guidata da quel signore di Jenne che s’era incontrato con i Selva
sulla costa, si stava consultando. Veduto il benedettino, si parlarono
sottovoce rapidamente e uno di loro, un giovinotto elegantissimo, incastratasi
nell’occhio la caramella, avanzò verso don Clemente che era guardato dalle signore
con ammirazione, con rammarico che il Santo, come avevano udito dalla loro
guida, non fosse lui.
Anche costoro desideravano un colloquio con Benedetto. Lo desideravano
specialmente le signore. Il giovinotto soggiunse con un sorriso beffardo che
quanto a sé non se ne credeva degno. Don Clemente gli rispose breve breve che
per ora era impossibile di parlare a Benedetto; e tirò via. Colui riferì alle
signore che il Santo stava nel tabernacolo chiuso a chiave.
Intanto Benedetto, supplicandolo sempre la madre desolata che non usasse
medicine, che facesse il miracolo, confortava il giacente con qualche sorso dei
cordiali portati da Giovanni Selva e più con parole, con lievi carezze, con la
promessa di altre parole di salute che altri gli avrebbe portato. E la voce
pia, tenera, grave, operò un miracolo di pace. L’infermo respirava male assai,
gemeva ancora, ma non imprecava più. La madre, folle di speranza, mormorava a
mani giunte, lagrimando:
«Il miracolo, il miracolo, il miracolo.»
«Caro» diceva Benedetto «sei in mano di Dio e la senti terribile.
Abbandònati, la sentirai soave. Ti poserà da capo nel mare di questa vita, ti
poserà nel cielo, ti poserà dove vorrà lei, abbandònati, non ci pensare.
Quand’eri bambino la tua mamma ti portava, tu non domandavi né il come né il
quando né il perché, tu eri nelle sue braccia, tu eri nel suo amore, tu non
domandavi altro. Così anche ora, caro. Io che ti parlo ho fatto tanto male
nella mia vita, forse un poco ne hai fatto anche tu, forse te ne ricordi.
Piangi piangi così abbandonato sul seno del Padre che ti chiama, che ti vuole
perdonare, che vuol dimenticare tutto. Ora verrà il sacerdote e tu glielo
dirai, il male che forse hai fatto, così come ricordi, senza angoscia. E poi,
sai chi verrà da te nel mistero? Sai che amore, caro, sai che pietà, sai che
gioia, sai che vita?»
Lottando con le ombre della morte, figgendo in Benedetto gli occhi vitrei,
lucenti di un desiderio intenso e del terrore di non poterlo esprimere, il
povero giovine che aveva inteso male il discorso di Benedetto, credendo di
doversi confessare a lui, cominciò a dire i suoi peccati. La madre che durante
il discorso di Benedetto, buttatasi ginocchioni alla parete di roccia vi teneva
le labbra sulla croce aspettando il compimento del miracolo, scattò, al suono strano
di quella voce, in piedi, balzò al letto, comprese, gittò un grido disperato
con le mani al cielo, mentre Benedetto, atterrito, esclamava: «no, caro, non a
me, non a me!» Ma l’infermo non intese, gli cinse con un braccio il collo, lo
raccolse a sé, continuò la sua confessione ambasciata, ripetendo Benedetto:
«Dio mio! Dio mio!» nello sforzo di non udire, né avendo cuore di strapparsi
dal morente. Non udì infatti né udire era facile, tanto rade, rotte e torbide
venivano le parole. E non si vedeva arrivare l’arciprete, e don Clemente non
ritornava! Passi e voci sommesse si udirono bene al di fuori, qualche testa
curiosa comparve all’uscio, ma nessuno entrò. Le parole del morente si
perdettero in un garbuglio di suoni fiochi, egli tacque.
«C’è gente fuori?» chiese Benedetto. «Qualcuno vada dall’arciprete, dica di
far presto.»
Giovanni e Maria stavano attorno alla madre che, fuori di sé, trabalzava dal
dolore alla collera. Dopo aver creduto al miracolo, non voleva credere che il
suo figliuolo si fosse ridotto naturalmente a quegli estremi, ora singhiozzava
per lui, ora imprecava alle medicine che gli aveva date Benedetto, per quanto i
Selva le dicessero che non erano state medicine. Maria se l’era abbracciata e
per confortarla e per trattenerla. Accennò a Giovanni che andasse lui
dall’arciprete e Giovanni corse via. Gli occhi lucenti del moribondo
supplicarono. Benedetto gli disse:
«Figlio mio, desideri Cristo?»
Il poveretto accennò di sì col capo e con un gemito inesprimibile. Benedetto
lo baciò, lo ribaciò teneramente.
«Cristo mi dice che i tuoi peccati ti sono rimessi e che tu parta in pace.»
Gli occhi lucenti sfavillarono di gioia.
Benedetto chiamò la madre che dalle aperte braccia di Maria si precipitò sul
figlio suo. Ecco entrare don Clemente trafelato, con Giovanni e l’arciprete.
Don Clemente aveva trovato in canonica un ecclesiastico non conosciuto da
lui, alle prese coll’arciprete. A sentir costui, una turba fanatica voleva
portare in Sant’Andrea la pretesa miracolata per un ringraziamento a Dio. Era
dovere dell’arciprete impedire un tale scandalo. La guarigione della ragazza se
non era impostura non era nemmanco realtà. Il preteso taumaturgo poi aveva
predicato un sacco di eresie sui miracoli e sulla salute eterna, aveva parlato
della fede come di una virtù naturale, aveva criticato Gesù che guariva
gl’infermi. Adesso stava fabbricando un altro miracolo con un altro
disgraziato. Bisognava finirla. Finirla? pensava il povero arciprete che
sentiva già odore di Sant’Uffizio. Era presto detto «finirla». Ma come,
finirla? La visita di don Clemente, che sopravvenne a questo punto del
discorso, lo fece respirare. Adesso, pensò, mi aiuterà lui. Invece le cose
volsero al peggio. Udito il triste messaggio di don Clemente, quel prete
esclamò:
«Vede? Ecco i miracoli come finiscono! Ma Lei non deve entrare col Santo
Viatico nella casa di quell’eretico s’egli prima non esce e non esce per non
tornarci più!»
Don Clemente avvampò nel viso.
«Non è un eretico!» diss’egli. «È un uomo di Dio!»
«Lo dice Lei!» esclamò il prete.
«E Lei» proseguì volto all’arciprete «Lei ci pensi! Faccia come vuole, del
resto; io non c’entro. A rivederla.»
Fatto un inchino a don Clemente, senza parole, scivolò fuori della camera.
«E adesso? E adesso?» gemette il povero arciprete recandosi le mani alle
tempie. «Quello è un uomo terribile ma io non voglio mancare verso Domeneddio.
Dimmi tu, dimmi tu!»
Aveva un santo timore di Dio, sì, l’arciprete, ma non era neppure senza un
timore fra santo e umano di don Clemente, della coscienza severa che lo avrebbe
giudicato. A don Clemente lampeggiò, nella stretta del momento, il partito da
prendere.
«Disponi per il Viatico» diss’egli «e vieni subito con me a confessare quel
povero giovane. Benedetto farà vedere se è un eretico o se è un uomo di Dio.»
La fantesca venne ad avvertire che un signore pregava il signor arciprete di
far presto, presto, perché quell’ammalato moriva.
Don Clemente, trafelato, entrò nella stamberga con Giovanni e l’arciprete. Chiamò
Benedetto a sé, presso l’uscio e gli parlò sotto voce. L’ammalato rantolava.
Benedetto ascoltò, a capo chino, le parole dolorose che gli chiedevano un atto
di umiliazione santa, s’inginocchiò senza rispondere davanti alla croce
scolpita da lui nella roccia, la baciò avidamente nell’incontro delle braccia
tragiche e riaspirare in sé dal solco della pietra il segno del sacrificio, il
suo amore, il suo bene, la sua forza, la sua vita; e, rialzatosi, uscì di là
per sempre.
Il sole scompariva in un turbinoso fumo di nuvoli montanti a settentrione,
dietro il villaggio. I luoghi che avevano poco prima brulicato di gente erano
un livido deserto. Dalle svolte dei viottoli ghiaiosi, dietro gli usci
socchiusi, dai canti dei casolari, donne spiavano. All’apparire di Benedetto si
ritrassero tutte. Egli sentì che Jenne sapeva l’agonia dell’uomo venuto a lui
per salute, che l’ora della potestà era venuta per i suoi avversari. Don
Clemente, il Maestro, l’amico, gli aveva prima chiesto di deporre il suo abito
e ora di uscire della sua casa, di uscire da Jenne. Con dolore e amore, ma
glielo aveva chiesto. Fra l’amarezza e il digiuno, poiché non aveva potuto
prendere la sua refezione meridiana di pane e fave, si sentì quasi venir meno,
gli si oscurò la vista. Sedette sulla soglia ruinosa di una porticina chiusa,
all’entrata della viuzza della Corte. Un lungo rombo di tuono suonò sul suo
capo.
Poco a poco, nel riposo, si riebbe. Pensò all’uomo che moriva nel desiderio
di Cristo e un’onda di dolcezza gli tornò nell’anima. Sentì rimorso di aver
dimenticato per alcuni istanti quel gran dono del Signore, di avere disamata la
croce appena bevutone vita e gioia. Si nascose il viso fra le mani e pianse
silenziosamente. Un rumor lieve, in alto, d’imposte che si aprono; qualche cosa
di molle gli batte sul capo. Si toglie trasalendo le mani dagli occhi; ai suoi
piedi è una rosellina selvatica. Rabbrividì. Da parecchi giorni, o la sera
rientrando nella sua spelonca o uscendone la mattina, ogni giorno aveva trovato
fiori sulla soglia. Non li aveva tolti mai. Li poneva da banda, sopra un sasso,
perché non fossero calpestati; non altro. Neppure aveva mai cercato di sapere
qual mano li recasse. Certo la rosellina selvatica era caduta dalla stessa
mano. Non alzò il capo e comprese che pur non raccogliendo la rosellina né
accennando a raccoglierla, gli bisognava partire. Cercò levarsi, le gambe non
lo reggevano ancora bene, tardò un momento a rimettersi in cammino. Il tuono
rumoreggiava da capo, più forte, continuo. Una porticina si aperse, se ne porse
una giovine vestita di nero, bionda, bianca come la cera, piena gli occhi
azzurrini di sbigottimento e di lagrime. Benedetto non poté a meno di volgere
il capo a lei. Riconobbe la maestra del Comune, che aveva veduto un momento in
casa dell’arciprete, e già proseguiva senza salutarla quando ella gli gettò un
gemito: «mi ascolti!» e, fatto un passo indietro nell’andito, cadde sulle
ginocchia, gli stese le mani imploranti, ripiegando il capo sul petto.
Benedetto si fermò. Esitò un momento e poi disse, con gravità severa:
«Che vuole da me?»
Si era fatto quasi buio. I lampi abbagliavano, il fragore del tuono empiva
la misera viuzza, impediva ai due di udirsi. Benedetto si accostò all’uscio.
«Mi hanno detto» rispose la giovine senz’alzare il viso e sostando agli
scoppi del tuono «che Lei forse dovrà partire da Jenne. Una Sua parola mi ha
dato la vita, la Sua partenza mi farà morire ancora. Mi ripeta quella parola,
la dica per me, solo per me!»
«Quale parola?»
«Lei stava col signor arciprete, io ero nella stanza vicina colla fantesca e
l’uscio aperto. Lei diceva che un uomo può negare Dio senza essere veramente
ateo e senza meritare la morte eterna, quando nega quel Dio che gli è proposto
in una forma ripugnante al suo intelletto ma poi ama la Verità, ama il Bene,
ama gli uomini, pratica questi amori.»
Benedetto tacque. Lo aveva detto, sì, ma parlando a un prete e non sapendo
di venire udito da persone forse non atte a comprenderlo. Ella sospettò la
cagione di quel silenzio.
«Non si tratta di me» disse. «Io credo, sono cattolica. È per mio padre che
ha vissuto così ed è morto così e… se sapesse!… hanno persuaso anche mia madre
ch’egli non ha potuto salvarsi!»
Mentr’ella parlava, rade gocce, grosse, cominciarono a battere, fra i lampi
e i tuoni, sulla via, macchiarono la polvere di grandi macchie, scrosciarono
col vento, sferzando i muri; ma né Benedetto riparò dentro l’uscio né lei
gliene fece invito, e questa fu da parte di lei la confessione sola del
sentimento profondo che si copriva di misticismo e di pietà filiale.
«Mi dica, mi dica» implorò, alzando finalmente il viso «che mio padre è
salvo, che lo ritroverò in Paradiso!»
Benedetto rispose:
«Preghi.»
«Dio! Solo questo?»
«Si prega forse per il perdono di chi non può essere perdonato? Preghi.»
«Oh, grazie! Lei è sofferente?»
Queste ultime parole furono sussurrate così piano che Benedetto non poté
udirle. Fece un gesto di addio e si allontanò fra le ondate di pioggia che
flagellavano e urtavano via per il fango la morta rosellina selvatica.
Forse da una finestra, forse dalla porta dell’osteria, Noemi, che vi stava
con la ragazza di Arcinazzo, lo vide passare. Si fece dare un ombrello
dall’oste e lo seguì sfidando la violenza del vento e della pioggia.
Lo seguì, soffrendo di vederlo a capo scoperto e senza ombrello, pensando
che se non fosse stato un Santo, lo si sarebbe detto un pazzo. Uscita sulla
piazza della chiesa, vide socchiudersi un uscio a mano diritta, un prete lungo
e magro guardare dall’interno. Credette che il prete avrebbe invitato Benedetto
a entrare, ma invece il prete, quando Benedetto gli fu vicino, chiuse l’uscio
rumorosamente, con grande sdegno di lei. Benedetto entrò in Sant’Andrea ed ella
pure vi entrò. Quegli andò a inginocchiarsi davanti all’altar maggiore, ella si
tenne presso la porta. Il sagrestano, che sonnecchiava seduto sui gradini di un
altare, uditi i loro passi, si alzò, mosse verso Benedetto. Ma egli era del
partito dei preti romani e, riconosciuto l’eretico, ritornò indietro, domandò
alla signorina forestiera se potesse dirgli niente di quel giovine ammalato di
Arcinazzo ch’era stato portato in chiesa la mattina, quando il sagrestano ci
aveva veduta anche lei. E soggiunse che ne domandava perché aveva l’ordine di
aspettare l’arciprete che sarebbe venuto per portargli il Viatico. Noemi sapeva
che l’uomo di Arcinazzo era moribondo ma non più di così.
«Ho capito» disse il sagrestano, forte, con intenzione. «Non vorrà saperne
di Cristo. Questi sono i belli miracoli! Sia benedetto Iddio per i tuoni e i
fulmini che altrimenti ci portavan qui la ragazza!»
E ritornò a sedere, a sonnecchiare sul suo gradino.
Noemi non sapeva levare gli occhi da Benedetto. Non era un proprio e vero
fascino né il sentimento appassionato della giovine maestra. Lo vide vacillare,
poggiar le mani ai gradini e poi voltarsi, stentatamente, a sedere, né si
domandò se soffrisse. Guardava lui ma più assorta in sé che in lui, assorta in
un mutamento progressivo del proprio interno che la veniva facendo diversa, non
riconoscibile a se stessa, in un senso ancora confuso e cieco di una verità
immensa che le si venisse comunicando per vie misteriose, che le torcesse con
sofferenza intime fibre del cuore. I ragionamenti religiosi di suo cognato
potevano averle turbata la mente; il cuore non glielo avevano toccato mai. E ora
perché? Come? Cos’aveva detto, infine, quell’uomo macilento? Oh ma lo sguardo,
ma la voce, ma… Che altro? Qualche altra cosa, impossibile a comprendere. Un
presentimento, forse. Quale? Ma! Chi sa? Un presentimento di qualche futuro
legame fra quell’uomo e lei. Lo aveva seguito, era entrata in chiesa per non
perdere l’occasione di parlargli e adesso ne aveva quasi paura. Parlargli di
Jeanne, poi anche. Jeanne, lo aveva ella compreso? Come mai aveva potuto
Jeanne, amandolo, resistere alla corrente di pensiero superiore ch’era in lui,
che forse a quel tempo sarà stata latente ma che una Jeanne doveva pur sentire?
Cos’aveva ella amato? L’uomo inferiore? Se gli parlasse, non gli parlerebbe
solamente di Jeanne, gli parlerebbe di religione, pure. Gli domanderebbe quale
fosse la sua, proprio. E poi, s’egli le rispondesse una cosa sciocca, una cosa
volgare? Per questo aveva quasi paura di parlargli.
Una folata di pioggia batté dalle invetriate rotte di una finestra sul pavimento.
Noemi pensò che mai più non avrebbe dimenticato quell’ora, quella grande chiesa
vuota, quell’oscuro cielo, quel colpo di pioggia entrato come un colpo di
pianto, il naufrago del mondo assorto sui gradini dell’altare maggiore, Dio sa
in quali sublimi pensieri, e neppure il sagrestano suo nemico, postosi a
dormire sui gradini di un altro altare con la famigliarità noncurante di un
collega di Domeneddio. Passò molto tempo, forse un’ora, forse più. La chiesa si
venne rischiarando, parve che smettesse di piovere. Suonarono le quattro. Entrò
in chiesa don Clemente e dietro a lui entrarono Maria e Giovanni, contenti di
trovar Noemi, della quale non sapevano che fosse avvenuto. Si mosse anche il
sagrestano che conosceva il padre.
«Dunque? Il Viatico?»
Il Viatico? L’uomo, pur troppo, era morto. Al Viatico si era pensato troppo
tardi. Il padre domandò di Benedetto e Noemi glielo indicò. Parlarono del
colloquio che Noemi desiderava. Don Clemente arrossì, esitò, ma poi non seppe
come rifiutarsi a chiederlo e raggiunse Benedetto.
Mentre i due discorrevano insieme, Giovanni e Maria ragguagliarono Noemi di
quel ch’era accaduto. Entrato l’arciprete, l’infermo non aveva parlato più. Non
era stato possibile di confessarlo. Intanto era scoppiato il temporale con tale
veemenza, tali torrenti strepitavano intorno alla capanna che l’arciprete non
aveva potuto uscirne per andar a prendere l’olio santo. Si credeva che
l’ammalato durasse qualche ora; invece, alle tre, era morto. Don Clemente e
l’arciprete erano usciti appena lo avevano permesso i torrenti. Giovanni e
Maria erano rimasti colla madre, che pareva impazzita, fino all’arrivo della
sorella maggiore del morto. Allora erano partiti, anche per venire in cerca di
Noemi. Non l’avevano trovata all’osteria, si erano diretti alla chiesa. Avevano
incontrato sulla piazza il padre che usciva da una casa civile. Non sapevano
che ci fosse andato a fare. Maria parlò con entusiasmo di Benedetto, de’ suoi
conforti spirituali al moribondo. Era sdegnatissima, come suo marito, della guerra
fattagli da gente che adesso aveva buon giuoco a voltargli contro tutto il
paese. Biasimavano la debolezza dell’arciprete e non erano contenti neppure di
don Clemente. Don Clemente non avrebbe dovuto prestarsi alla cacciata del suo
discepolo! Perché gli aveva detto lui di andarsene, quando era venuto
l’arciprete. Il suo primo torto era stato di portare il messaggio dell’Abate.
Noemi non sapeva di questo messaggio. Udito che si voleva spogliare Benedetto
della sua tonaca, scattò: Benedetto non doveva obbedire!
Intanto Benedetto e il padre mossero verso la porta. Benedetto si tenne in
disparte; il padre venne a dire ai Selva e a Noemi che, parecchia gente volendo
parlare a Benedetto, egli aveva combinato un ritrovo comune presso un signore
del paese. Doveva ora precederli, con Benedetto, colà. Sarebbe venuto a
riprenderli in chiesa fra pochi minuti.
Il signore era quel tale che i Selva avevano incontrato sulla costa di Jenne
dove stava in attesa della duchessa di Civitella. La duchessa era poi arrivata con
altre due dame e con alcuni cavalieri fra i quali un giornalista, il giovinotto
elegantissimo dalla caramella. Il signore di Jenne non capiva più nella pelle,
si sentiva per quel giorno in corpo uno spirito ducale di bontà e di
magnificenza. Perciò don Clemente, consigliato dall’arciprete di rivolgersi a
lui, ne aveva facilmente ottenuto la promessa, per Benedetto, di un vecchio
abito nero da mattina, di una cravatta nera, di un cappello nero a cencio.
Quando, nella camera dov’erano preparate le vesti laicali, il discepolo,
svestita la tonaca, prese, tacendo sempre, a indossarle, il Maestro, che stava
alla finestra, non poté trattenere un singhiozzo. Pochi momenti dopo Benedetto
lo chiamò dolcemente.
– Padre mio diss’egli. «Mi guardi.»
Vestito dei nuovi panni, troppo lunghi e larghi, egli sorrideva, mostrando
pace. Il padre gli afferrò una mano per baciargliela; ma Benedetto, ritratta
con impeto la mano, allargò le braccia, si strinse al petto lui che parve
allora il minore, il figliuolo, il penitente ministro di tristi prepotenze
umane che sul palpito divino di quel petto si sciogliessero in polvere, cenere
e niente. Stettero così abbracciati lungamente senza dir parola.
«L’ho fatto per te» mormorò alfine don Clemente. «Ti ho portato io il
messaggio ignominioso per vedere la grazia del Signore risplendere in questo
tuo abito vile più che nella tonaca.»
Benedetto lo interruppe.
«No no» diss’egli «non mi tenti, non mi tenti! Ringraziamo Iddio, invece,
che appunto mi castiga per quel compiacimento presuntuoso che ho avuto a Santa
Scolastica quando Lei mi ha offerto l’abito benedettino e io ho pensato che
nella mia visione mi ero visto morire con quell’abito. Il mio cuore si alzò
allora come dicendosi: «sono veramente prediletto da Dio!» E adesso…
«Oh ma..!» esclamò il padre e subito tacque, tutto una fiamma nel viso.
Benedetto credette intendere che avesse pensato: «non è detto che tu non lo
riprenda, l’abito che hai spogliato! non è detto che la visione non si avveri!»
e che poi non avesse voluto dire il suo pensiero, sia per prudenza, sia per non
alludere alla sua morte. Sorrise, lo abbracciò. Il padre si affrettò a parlare
d’altro, scusò l’arciprete ch’era dolente di quanto accadeva, che non avrebbe
voluto allontanare Benedetto ma temeva i Superiori. Non era un don Abbondio,
non temeva per sé, temeva per lo scandalo di un conflitto con l’Autorità.
«Io gli perdono» disse Benedetto «e prego Dio che gli perdoni, ma questo
difetto di coraggio morale è una piaga della Chiesa. Piuttosto che mettersi in
conflitto con i Superiori ci si mette in conflitto con Dio. E si crede di
sfuggire a questo sostituendo alla propria coscienza, dove Dio parla, la
coscienza dei Superiori. E non s’intende che operando contro il Bene o
astenendosi da operare contro il Male per obbedire ai Superiori si è di
scandalo al mondo, si macchia davanti al mondo il carattere cristiano. Non
s’intende che il debito verso Dio e il debito verso i Superiori si possono
compiere insieme non operando mai contro il Bene, non astenendosi mai da
operare contro il Male, ma senza giudicare i Superiori, ma obbedendo loro con
perfetta obbedienza in tutto che non è contro il Bene o a favore del Male,
deponendo ai loro piedi la propria vita stessa, solo non la coscienza; la
coscienza, mai! Allora questo inferiore spogliato di tutto fuorché della sua
coscienza e della sua obbedienza giusta, questo inferiore è un puro grano del
sale della terra e dove molti di questi grani si trovino uniti, ciò cui essi
aderiscono resterà incorrotto e ciò cui non aderiscono cadrà imputridito!»
A misura che parlava, Benedetto si veniva trasfigurando. Nel pronunciare le
ultime parole sorse in piedi. Gli occhi avevano lampi, la fronte un chiarore
augusto dello spirito di Verità. Posò le mani sulle spalle di don Clemente.
«Maestro mio» diss’egli raddolcendosi nel viso «io lascio il tetto, il pane
e l’abito che mi furono offerti, ma non lascerò di parlare di Cristo Verità
fino a che avrò vita. Me ne vado ma non per tacere. Si ricorda di avermi fatto
leggere la lettera di S. Pier Damiano a quel laico che predicava? E quello là
predicava in chiesa! Io non predicherò in chiesa ma se Cristo vuole che io
parli nei tugurii, nei tugurii parlerò; se vuole che io parli nei palazzi, nei
palazzi parlerò; se vuole che io parli nei cubicoli, parlerò nei cubicoli; se
vuole che io parli sui tetti, parlerò sui tetti. Pensi all’uomo che operava nel
nome di Cristo e ne fu proibito dai discepoli. Cristo ha detto: lasciatelo
fare. È da obbedire ai discepoli o è da obbedire a Cristo?»
«Per l’uomo del Vangelo sta bene, caro» rispose don Clemente «ma ora sulla
volontà di Cristo ci si può anche ingannare, bada.»
Il cuore di don Clemente non parlava propriamente così; ma le parole
imprudenti, indisciplinate del cuore non furon lasciate passare alle labbra.
«Del resto, padre mio» riprese Benedetto «lo creda, io non sono bandito per
avere evangelizzato il popolo. Vi sono due cose ch’Ella deve sapere. La prima è
questa: mi è stato proposto, qui a Jenne, da qualcuno che mi parlò quella volta
e poi non vidi più, di abbracciare la carriera ecclesiastica per diventare
missionario. Risposi che non mi sentivo chiamato. La seconda è questa. Nei
primi giorni dopo la mia venuta a Jenne, discorrendo di religione con
l’arciprete, gli parlai della vitalità eterna della dottrina cattolica, del
potere che ha l’anima della dottrina cattolica di trasformare continuamente il
proprio corpo, accrescendone senza limiti la forza e la bellezza. Lei sa, padre
mio, da chi mi sono venute queste idee per mezzo di Lei. L’arciprete deve avere
riferito il mio discorso, che gli era piaciuto. Il giorno dopo mi domandò se a
Subiaco avessi conosciuto Selva, se avessi letto i suoi libri. Mi disse ch’egli
non li aveva letti ma sapeva ch’erano da fuggire. Padre mio, Ella comprende. È
per causa del signor Selva e dell’amicizia di Lei col signor Selva che io parto
da Jenne così. Non La ho mai tanto amata quanto adesso, non so dove andrò ma
dovunque il Signore mi mandi, vicino o lontano, non mi abbandoni nell’anima
Sua!»
Così dicendo con un tumulto, nella voce, di dolore e di amore, Benedetto si
gettò un’altra volta nelle braccia del Maestro che, straziato egli pure da una
tempesta di sentimenti diversi, non sapeva se domandargli perdono o
promettergli gloria, la vera; e solamente poté dirgli, ansando:
«Anch’io, tu non sai! ho bisogno di non essere abbandonato dall’anima tua.»
Don Clemente raccolse in un fardello, maneggiandolo con mani guardinghe,
riverenti, l’abito deposto dal discepolo. Raccolto che l’ebbe, disse a
Benedetto che non poteva offrirgli l’ospitalità di Santa Scolastica, che aveva
avuto in animo di pregare i signori Selva, ma che ora gli sorgeva il dubbio se
a Benedetto fosse opportuno, nell’interesse del suo stesso apostolato, mettersi
così pubblicamente sotto la protezione del signor Giovanni.
Benedetto sorrise.
«Oh, questo no!» diss’egli. «Temeremo noi le tenebre più che non ameremo la
luce? Ma ho bisogno di pregare il Signore che mi faccia conoscere, se
possibile, la Sua volontà. Forse vorrà questo, forse altro. E adesso vorrebbe
farmi portare un po’ di cibo e di vino? Poi mi mandi chi mi vuole parlare.»
Don Clemente si meravigliò, nel suo interno, che Benedetto gli domandasse
del vino ma non ne fece mostra. Disse che gli avrebbe mandata pure quella
signorina che stava con i Selva. Benedetto lo interrogò cogli occhi, ricordando
che quando la signorina, poi riveduta in chiesa, gli aveva chiesto un
colloquio, don Clemente gli aveva stretto il braccio come per ammonirlo
tacitamente di stare in guardia. Don Clemente, arrossendo molto, si spiegò.
Aveva veduta la signorina a Santa Scolastica insieme a un’altra persona. Quel
moto era stato involontario. L’altra persona era lontana.
«Non ci rivedremo» diss’egli «perché appena ti avrò mandato il cibo e avrò avvertite
queste persone, dovrò partire per Santa Scolastica.»
Benedetto, parlando di andare a Subiaco o altrove, aveva detto «forse
questo, forse altro» con un accento così pregno di sottintesi, che don
Clemente, nel congedarsi, gli sussurrò:
«Pensi a Roma?»
Invece di rispondere, Benedetto gli prese dolcemente di mano il fardello
dov’era la povera tonaca concessa e ritolta, se l’accostò, non senza un tremito
delle mani, alle labbra, ve le impresse, ve le tenne lungamente.
Era il rimpianto dei giorni di pace, di lavoro, di preghiera, di parola
evangelica? Era l’attesa di un’ora lucente nell’avvenire?
Rese il fardello al Maestro.
«Addio» diss’egli.
Don Clemente uscì a precipizio.
La stanza offerta dal padrone di casa per le udienze di Benedetto aveva un
grande canapè, un tavolino quadrato coperto di un panno giallo a fiorami
azzurri, delle sedie sgangherate, delle poltrone che mostravano la stoppa per
gli squarci del vecchio cuoio stinto, due ritratti di avoli parrucconi dalle
cornici annerite, due finestre, una quasi accecata da una muraglia greggia,
l’altra aperta sui prati, sulla faccia di un bel monte pensoso, sul cielo.
Benedetto, prima di ricevere visitatori, vi si affacciò per un addio ai prati,
al monte, al povero paese. Preso da spossatezza, si appoggiò al davanzale. Era
una spossatezza dolce dolce. Non si sentiva quasi più il peso del corpo e il
cuore gli si ammolliva di beatitudine mistica. Poco a poco, perdendo i suoi
pensieri oggetto e forma, il senso della quieta innocente vita esterna, delle stille
che gocciavano dai tetti, dell’aria odorata di montagna, lievemente,
occultamente mossa ora in questa ora in quella parte, lo intenerì. Gli
rinacquero nella memoria ore lontane della sua giovinezza prima, quando non
aveva moglie né pensava al matrimonio, la fine di un temporale nell’alta
Valsolda, sui dorsi del Pian Biscagno. Quanto diversa la sua sorte se i suoi
genitori avessero vissuto trenta, vent’anni di più! Almeno uno di essi! Si vide
nel pensiero la lapide del camposanto di Oria:
a Franco
in Dio
la sua Luisa
e gli occhi gli si gonfiarono di pianto. Venne allora una reazione violenta
della volontà contro questi languori molli del sentimento, questa tentazione di
debolezza.
«No no no» mormorò egli, udibilmente. Una voce, alle sue spalle, rispose:
«Non ci vuole ascoltare?»
Benedetto si voltò, sorpreso. Tre giovani stavano davanti a lui. Egli non li
aveva uditi entrare. Quello di essi che pareva il maggiore, un bel ragazzo,
basso di statura, bruno, dagli occhi esperti di molte cose, gli chiese arditamente
perché avesse spogliato l’abito clericale. Benedetto non rispose.
«Non lo vuol dire?» fece colui. «Non importa, senta. Noi siamo studenti
dell’Università di Roma, gente di poca fede, glielo dico schietto e subito. E
ci godiamo la nostra giovinezza, più o meno; glielo dico subito anche questo.»
Uno dei compagni tirò l’oratore per la falda dell’abito.
«Sta zitto!» disse il primo. «Sì, uno di noi crede poco ai Santi ma è un
purissimo. Quello però non è qui davanti a Lei, come non vi sono altri che
stanno giuocando all’osteria. Il Purissimo non ha voluto venire con noi. Dice
che troverà modo di parlarle da solo a solo. Noi siamo quello che Le ho detto.
Siamo venuti da Roma per fare una gita e per vedere un miracolo, s’era
possibile; insomma per stare allegri.»
I compagni lo interruppero, protestando.
«Ma sì!» ribatté lui. «Per stare allegri! Scusi, io sono più sincero.
Infatti mancò poco che la nostra allegria ci costasse cara. Si scherzò e ci
volevano accoppare, capisce; a Suo onore e gloria. Ma poi s’è udito il
discorsino ch’Ella fece a quella turba fanatica. Per il demonio, si disse,
questo è un linguaggio che ha del novo in una bocca pretina o semipretina,
questo è un Santo che ci va meglio degli altri, scusi la confidenza. E ci si
accordò subito di chiederle un colloquio. Perché poi, se siamo un poco scettici
e gaudenti, siamo anche un poco intellettuali e certe verità religiose
c’interessano. Io, per esempio, sono forse per diventare un neo buddista.»
I suoi compagni risero ed egli si voltò
ad essi adirato.
«Sì, non sarò buddista nella pratica ma
il Buddismo m’interessa più del Cristianesimo!»
Qui successe un battibecco fra i tre per
quest’uscita poco opportuna; e un secondo oratore, lungo, sottile, in occhiali,
prese il posto del primo. Costui parlava nervoso, con frequenti scatti del capo
e degli avambracci rigidi. Il suo discorso fu questo. I suoi compagni e lui
avevano discusso più volte intorno alla vitalità del Cattolicismo. Tutti
ammettevano che fosse esausta e che la morte seguirebbe presto se non
intervenisse una riforma radicale. Alla possibilità di questa riforma chi
credeva e chi non credeva. Desideravano conoscere l’opinione di un cattolico
intelligente e moderno nello spirito come si era rivelato Benedetto. Avevano
molte domande a fargli.
Qui il terzo ambasciatore della
compagnia studentesca giudicò venuto il suo momento e scaraventò addosso a
Benedetto una tempesta disordinata di quesiti.
Sarebb’egli stato disposto a farsi
propugnatore di una riforma della Chiesa? Credeva nell’infallibilità del Papa e
del Concilio? Approvava il culto di Maria e dei Santi nella sua forma presente?
Era democratico cristiano? Quale concetto aveva di una riforma desiderabile?
Avevano veduto a Jenne Giovanni Selva. Benedetto, conosceva i suoi libri?
Approvava le sue idee? Gli piaceva che fosse proibito ai cardinali di uscire a
piedi e ai preti di andare in bicicletta? Cosa pensava della Bibbia e
dell’ispirazione?
Prima di rispondere, Benedetto guardò a
lungo, severo in viso, il suo giovine interlocutore.
«Un medico» diss’egli finalmente «aveva
fama di saper guarire tutte le malattie. Qualcuno che non credeva nella
medicina andò da lui per curiosità, per interrogarlo sull’arte sua, sugli
studî, sulle opinioni. Il medico lo lasciò parlare lungamente e poi gli prese
il polso, così.»
Benedetto prese il polso del primo che
gli aveva parlato e proseguì:
«Glielo prese, glielo tenne un momento
in silenzio, poi gli disse: – Amico, voi soffrite di cuore. Io ve l’ho letto in
viso e ora sento battere il martello del falegname che vi lavora la bara.»
Il giovine dal polso prigioniero non
poté a meno di batter le ciglia.
«Non parlo per Lei» disse Benedetto.
«Parla quel medico a quel tale che non crede nella medicina. E continua: –
Venite voi a me per avere vita e salute? Io vi darò l’una e l’altra. Non venite
per questo? Io non ho tempo per voi. – Allora colui, che si era sempre creduto
sano, allibbì e disse: – Maestro, eccomi nelle vostre mani, fate che io viva.»
I tre rimasero per un momento
sbalorditi. Quando accennarono a riaversi e a replicare, Benedetto riprese:
«Se tre ciechi mi domandano la mia
lampada di verità, cosa risponderò io? Risponderò: andate prima e preparate gli
occhi vostri ad essa perché se io ve la dessi nelle mani ora, voi non ne
avreste alcun lume, voi non potreste che guastarla.»
«Non vorrei» disse lo studente lungo,
smilzo e occhialuto «che per vedere questa Sua lampada di verità si dovessero
chiudere le finestre alla luce del sole. Ma insomma capisco ch’Ella non voglia
spiegarsi con noi, che ci prenda per dei reporters. Oggi noi non abbiamo
o almeno io non ho le disposizioni che Lei desidera. Sarò un cieco ma non mi
sento di domandar la luce al Papa e nemmeno a un Lutero. Però, se Lei viene a
Roma, troverà dei giovani disposti meglio di me, meglio di noi. Venga, parli,
permetta anche a noi di udirla. Oggi abbiamo la curiosità, domani, chi sa?
potremo avere il desiderio buono. Venga a Roma.»
«Mi dia il Suo nome» disse Benedetto.
Colui gli porse una carta da visita. Si
chiamava Elia Viterbo. Benedetto lo guardò, curioso.
«Sì signore» diss’egli «sono israelita,
ma questi due battezzati non sono più cristiani di me. Del resto io non ho
nessun pregiudizio religioso.»
Il colloquio era finito. Nell’uscire, il
più giovane dei tre, quello dalla gragnuola di domande, tentò un ultimo
assalto.
«Ci dica almeno se i cattolici, secondo
Lei, dovrebbero andare alle urne politiche?»
Benedetto tacque. L’altro insistette:
«Non vuoi rispondere neppure a questo?»
Benedetto sorrise.
«Non expedit» diss’egli.
Passi nell’anticamera; due colpettini leggeri all’uscio; entrano i Selva con
Noemi. Maria Selva entra prima e vedendo Benedetto così vestito, non può
trattenere un movimento di sdegno, di compianto e di riso; arrossisce, vorrebbe
dire una parola di protesta, non la trova. A Noemi vengono le lagrime agli
occhi. Tutti e quattro tacciono per un momento e si comprendono. Poi Giovanni
mormora:
Non fu dal vel del cuor giammai disciolto
e stringe la mano all’uomo che nei suoi goffi abiti gli pare augusto.
«Sì ma Lei non deve portare questa roba!» esclamò Maria, meno mistica di suo
marito.
Benedetto fece un gesto come per dire «non parliamo di ciò!» e guardava il
maestro del suo Maestro con occhi desiderosi e riverenti.
«Sa» diss’egli «quanto Vero e quanto Bene mi sono venuti da Lei?»
Giovanni non sapeva di avere tanto influito su quell’uomo attraverso don
Clemente. Suppose che avesse letto i suoi libri. Ne fu commosso e ringraziò nel
suo cuore Iddio che gli faceva sentire con dolcezza un po’ di effettivo bene
operato in un’anima.
«Quanto sarei stato felice» ripigliò Benedetto «di lavorare nel Suo orto per
vederla qualche volta, per udirla parlare!»
Noemi, all’udir ricordare quella sera, si lasciò sfuggire una esclamazione
sommessa piena di memorie che non si potevano dire. Giovanni ne prese occasione
per offrire a Benedetto l’ospitalità, poiché don Clemente gli aveva detto che
intendeva lasciare Jenne la sera stessa. Potremmo partire insieme, quando
piacesse a lui, dopo il colloquio ch’egli avrebbe concesso a sua cognata.
Noemi, pallida, fissò Benedetto per la prima volta, aspettando la sua risposta.
«La ringrazio» diss’egli, dopo avere pensato un poco. «Se busserò alla Sua
porta Ella mi aprirà. Ora non Le posso dire altro.»
Giovanni fece atto di ritirarsi con sua moglie. Benedetto li pregò di
restare. Certo la signorina non aveva segreti per loro; almeno per sua sorella
se non per il cognato. Anche questo coperto invito a Maria cadde perché Noemi
osservò, imbarazzata, che non si trattava di segreti suoi. I Selva si
ritirarono.
Benedetto rimase in piedi e non disse a Noemi di sedere. Egli sapeva di
avere a fronte l’amica di Jeanne, presentiva il discorso che verrebbe, un
messaggio di Jeanne.
«Signorina» diss’egli.
Il modo non fu scortese ma significò chiaramente: «quanto più presto, tanto
meglio.»
Noemi intese. Qualunque altro l’avrebbe offesa. Benedetto, no. Con lui si
sentiva umile.
«Ho l’incarico» diss’egli «di domandarle se sa niente di una persona ch’Ella
deve avere conosciuto molto. Anche molto amato, credo. Il nome, io non so se lo
pronuncio bene perché non sono italiana, è don Giuseppe Flores.»
Benedetto trasalì. Non si aspettava questo.
«No» esclamò ansioso. «Non so niente!»
Noemi lo guardò un momento in silenzio. Avrebbe voluto, prima di parlare,
domandargli perdono del dolore che gli avrebbe recato. Disse a bassa voce,
mestamente:
«Mi è stato scritto di apprenderle che non è più di questa vita.»
Benedetto piegò il viso, se lo nascose fra le mani. Don Giuseppe, caro don Giuseppe,
cara grande anima pura, cara fronte luminosa, cari occhi pieni di Dio, cara
voce buona! Pianse dolcemente due lagrime, due sole lagrime che Noemi non vide,
si udì dentro la voce di don Giuseppe che gli diceva: non senti che sono qui,
che sono con te, che sono nel tuo cuore?
Noemi, dopo un lungo silenzio, mormorò:
«Mi perdoni. Vorrei non averle dovuto recare un dolore così grande.»
Benedetto si scoperse il viso.
«Dolore e non dolore» diss’egli.
Noemi tacque, riverente. Benedetto le domandò se sapesse quando quella
persona fosse morta.
Verso la fine di aprile, credeva Noemi. Ella era allora fuori d’Italia. Era
nel Belgio, a Bruges, con un’amica sua alla quale era stata scritta la notizia.
Per quanto ne aveva udito dall’amica, quella persona, Noemi non ne ripeté il
nome per un delicato riguardo, aveva fatto una morte santa. Le sue carte, ella
era incaricata di riferire anche questo, erano state affidate al Vescovo della
città. Benedetto fece un gesto di approvazione che poteva servire anche per
chiusa del colloquio. Noemi non si mosse.
«Non ho ancora finito» diss’ella.
E soggiunse subito:
«Ho un’amica cattolica… io non sono cattolica, sono protestante… che ha
perduta la fede in Dio. Le hanno consigliato di dedicarsi a opere di carità.
Vive con un fratello contrarissimo a qualunque religione. Questa novità che sua
sorella si occupi di beneficenza, che si metta in relazione con gente dedita
alle opere buone per principio religioso, gli è spiacente. Adesso è ammalato,
s’irrita, si esalta, inveisce contro le bigotte del Bene, non vuole che sua
sorella si occupi di visitare poveri, né di proteggere ragazze, né di
raccogliere bambini abbandonati. Dice che tutto questo è clericalismo, è
utopia, che il mondo va come vuole andare, che si deve lasciarlo andare e che
con questo mescolarsi alle classi inferiori non si fa che metter loro in testa
delle idee false e pericolose. Ora è stato detto alla mia amica che deve o
mentire a suo fratello facendo di nascosto ciò che prima faceva in palese, o
separarsi da lui. Essa ha tanto bisogno di un consiglio sicuro! Mi scrive di
domandarlo a Lei. Ha letto nei giornali ch’Ella consiglia qui tanta gente di
queste montagne, spera che non rifiuterà.»
«Poiché suo fratello» rispose Benedetto «è ammalato di corpo e anche di
spirito, non le si offre il Bene nella sua casa stessa? Diventerà una cattiva
sorella per arrivare a conoscere Iddio? Interrompa le sue opere, si dedichi a
suo fratello, lo curi come del male del corpo così del male dello spirito, con
tutto l’amore che…»
Stava per dire «che gli porta» si corresse per non ammettere così
espressamente che conosceva la persona, «… con tutto l’amore di cui è capace,
gli si faccia preziosa, lo vinca poco a poco, senza prediche, solo colla bontà.
Farà tanto bene anche a lei di cercar d’incarnare in sé la bontà stessa, la
bontà attiva, instancabile, paziente e prudente. E lo vincerà, lo persuaderà,
poco a poco, senza discorsi, che tutto quello che fa lei è ben fatto. Allora
potrà riprendere le sue opere e le potrà riprendere anche da sola. E vi
riuscirà meglio. Adesso le fa per un consiglio avuto, forse non vi riesce tanto
bene. Allora le farà per quest’abitudine del Bene acquistata con suo fratello,
vi riuscirà meglio.»
«Grazie» disse Noemi. «Grazie per l’amica mia e anche per me, perché mi piace
tanto questo che ha detto. E posso io ripetere i suoi consigli, il Suo
incoraggiamento in Suo nome?»
La domanda pareva superflua poiché incoraggiamento e consigli erano chiesti
proprio a Benedetto, proprio per incarico dell’amica. Ma Benedetto si turbò.
Era un esplicito messaggio che Noemi gli chiedeva per Jeanne.
«Chi son io?» diss’egli. «Che autorità posso avere? Le dica che pregherò.»
Noemi tremò nel suo interno. Sarebbe stato tanto facile, ora, parlargli di
religione! E non osava. Ah perdere una occasione simile! No, bisognava parlare
ma non poteva mica pensare per un quarto d’ora a quello che direbbe. Disse la
prima cosa che le venne in mente.
«Scusi, poiché dice di pregare; vorrei tanto sapere se Lei proprio le
approva tutte, le idee religiose di mio cognato?»
Appena proferita la domanda, le parve tanto impertinente, tanto goffa, da
vergognarne. E si affrettò a soggiungere sentendo di dir cosa ancora più
sciocca e dicendola irresistibilmente:
«Perché mio cognato è cattolico, io sono protestante e vorrei regolarmi.»
«Signorina» rispose Benedetto «verrà giorno in cui tutti adoreranno il Padre
in ispirito e verità, sulle cime; oggi è ancora il tempo di adorarlo nelle
ombre e nelle figure, in fondo alle valli. Molti possono salire, quale più, quale
meno, verso lo spirito e la verità; molti non possono. Vi hanno piante che
oltre una certa zona non fruttificano e, portate ancora più su, muoiono.
Sarebbe follia di toglierle al loro clima. Io non La conosco, non posso dirle
se le idee religiose di suo cognato possano, portate in Lei così, senza
preparazione, dare un frutto buono. Le dico però di studiare molto molto il
cattolicismo con l’aiuto di suo cognato, perché non vi è un solo protestante
convinto che lo conosca bene.»
«Lei non verrà a Subiaco?» chiese Noemi timidamente.
Qualche nascosta malinconia salì nella sua voce che fece salir nel cuore a
Benedetto un senso di dolore dolce, tosto fatto sgomento, tanto era nuovo.
«No» diss’egli «non credo.»
Noemi volle e non volle dire che n’era dolente, pronunciò alcune parole
confuse.
Si udì gente nell’anticamera. Noemi piegò il viso, Benedetto pure; e il
colloquio si sciolse senz’altro saluto.
Anche la duchessa volle parlare a Benedetto. Portò con sé compagni e
compagne. Non più giovine ma galante ancora, mezzo superstiziosa e mezzo
scettica, egoista e non senza cuore, voleva bene alla figliuola tisica di un
suo vecchio cocchiere. Udito parlare del Santo di Jenne e de’ suoi miracoli,
aveva combinata la gita, un po’ per divertimento, un po’ per curiosità, per
vedere se fosse il caso di far venire il Santo a Roma o di mandargli la
ragazza. Cugina di un cardinale, aveva conosciuto presso di lui uno dei preti
che villeggiavano a Jeanne. Ora colui, incontratala, le aveva già parlato a
modo suo del Santo e annunciato il crollo della sua riputazione. Però siccome
la duchessa non si fidava di nessun prete ed era curiosa di conoscere un uomo
cui si attribuiva un passato romanzesco, e la stessa curiosità avevano i suoi
compagni, una compagna in particolare, si risolse di avvicinarlo a ogni modo.
Era venuta con lei una vecchia nobildonna inglese, famosa per la sua
ricchezza, per le sue toilettes bizzarre, per il suo misticismo
teosofico e cristiano, innamorata metafisicamente del Papa e anche della
duchessa che ne rideva con i suoi amici. I quali amici, nel vedere Benedetto in
quell’arnese, si scambiarono occhiate e sorrisi che per poco non diventarono
sghignazzamenti quando la vecchia inglese, prevenendo tutti, prese la parola.
Disse, in un cattivo francese, che sapeva di parlare a una persona colta: che
lei, con amici e amiche di ogni nazione, lavorava per riunire tutte le Chiese
cristiane sotto il Papa, riformando il cattolicismo in alcune parti troppo
assurde che nessuno nel suo cuore credeva più buone a niente, come il celibato
ecclesiastico e il dogma dell’inferno; che avevano bisogno, per fare questo, di
un Santo; che questo Santo sarebbe lui perché uno spirito – ella non era
spiritista ma un’amica sua lo era –anzi proprio lo spirito della contessa
Blawatzky aveva rivelato questo; ch’era perciò necessaria la sua venuta a Roma
e che a Roma egli avrebbe potuto con i suoi doni di santità rendere servigio
anche alla duchessa di Civitella, ivi presente. Finì il suo discorso così:
«Nous vous attendons
absolument, monsieur! Quittez ce vilain trou! Quittez le bientôt!
Bientôt!»
Benedetto, girato rapidamente lo sguardo severo per la cerchia delle facce
sardoniche o stolide, dall’occhialetto della duchessa alla caramella del
giornalista, rispose:
«A l’instant, madame!»
E uscì della camera.
Uscì della camera e della casa, attraversò la piazza camminando male negli
abiti disadatti, prese la via della costa senza guardare né a destra né a
sinistra, portato dallo spirito più che dalle forze affievolite del corpo,
pensando passar la notte sotto qualche albero e l’indomani portarsi a Subiaco e
di là, con l’aiuto di don Clemente, a Tivoli dove conosceva un buon vecchio
prete solito venire di tanto in tanto a Santa Scolastica. All’ospitalità dei
Selva, che gli sarebbe stata cara, non pensava più. Il suo cuore era puro e in
pace ma egli non poteva dimenticare che la voce soave di quella signorina
straniera e l’accento mesto col quale aveva detto: «Lei non verrà a Subiaco?»
gli avevano risuonato dentro in un modo strano, che un minuto secondo era
bastato perché gli balenasse in mente questo pensiero: «se Jeanne fosse stata
così non mi sarei sciolto.» Avevano ragione i mistici: penitenza e digiuno non
valgono. A ogni modo tutto era oramai dileguato. Restava solamente l’umile
sentimento di una fralezza essenzialmente umana che, uscita vittoriosa da prove
difficili, può ricomparire improvvisamente ed essere vinta da un soffio. Il
paesello era deserto. La gente di Trevi, di Filettino, di Vallepietra, cessato
il temporale, era partita commentando i fatti della mattina, la guarigione
dubbia, la guarigione fallita, i moniti seminati alacremente da seconde mani
contro il seduttore del popolo, il falso cattolico. All’uscita del villaggio
Benedetto fu veduto da due o tre donne di Jenne. L’abito laico le fece
allibire, lo credettero scomunicato, lo lasciarono passare in silenzio.
Pochi passi più in là fu raggiunto da qualcuno che correva. Era un
giovinetto magro, biondo, dagli occhi azzurri, intelligentissimi.
«Lei va a Roma, signore Maironi?» diss’egli.
«La prego di non chiamarmi così» rispose Benedetto, spiacente di apprendere
che il suo nome, chi sa in qual modo, si era divulgato. «Non so se vado a
Roma.»
«Io La seguo» disse il giovine, impetuoso.
«Mi segue? Perché mi segue?»
Il giovine gli prese, per tutta risposta, una mano, se la recò alle labbra
malgrado la resistenza e le proteste di Benedetto.
«Perché?» diss’egli. «Perché ho il disgusto del mondo e non trovavo Dio e
oggi mi pare, per Lei, di essere nato alla gioia. Permetta, permetta che La
segua!»
«Caro» rispose Benedetto, commosso, «non so neppur io dove andrò.»
Il giovinetto lo supplicò di dirgli almeno quando avrebbe potuto rivederlo,
e siccome Benedetto non sapeva veramente come rispondergli, esclamò:
«Oh La vedrò a Roma! Lei andrà a Roma, certo!»
Benedetto sorrise.
«A Roma? E dove trovarmi, a Roma, se ci vado?»
Quegli rispose che sicuramente a Roma si parlerebbe di lui, che tutti
saprebbero dove trovarlo.
«Se Dio vorrà!» disse Benedetto con un affettuoso cenno di saluto.
Il giovinetto gentile lo trattenne un momento per la mano.
«Sono lombardo anch’io» diss’egli. «Sono Alberti, di Milano. Si ricordi di
me!»
E seguì Benedetto con lo sguardo intenso finché, a una svolta della
mulattiera, disparve.
Alla vista della croce dalle grandi braccia, sull’orlo della discesa,
Benedetto ebbe un improvviso sussulto di commozione, dovette arrestarsi. Quando
si rimise in cammino fu preso da vertigini. Fece pochi passi ancora,
barcollando, fuori della via per togliersi dal passaggio della gente e si
lasciò cadere sull’erba in un grembo del prato. Allora, chiusi gli occhi, sentì
che non era un malessere passaggero, ch’era qualche cosa di più grave. Non
smarrì del tutto la conoscenza, smarrì l’udito, il tatto, la memoria, la
nozione del tempo.
Al primo riaversi, la sensazione, ai dorsi delle mani, del panno grosso,
diverso da quello della solita sua veste, gli mise una curiosità non
tormentosa, quasi divertente, circa l’identità propria. Si andò tastando il
petto, i bottoni, gli occhielli, senza capire. Pensò. Un ragazzo di Jenne che
gli passò vicino sul prato, corse a Jenne, raccontò ansante che il Santo
giaceva morto sull’erba, presso la croce.
Benedetto pensò con quell’ombra di ragione oscura che ci governa nel sogno e
al primo svegliarci. Non erano i panni suoi, erano i panni di Piero Maironi.
Egli era Piero Maironi ancora. Ne fu sgomentato e rinvenne del tutto. Si levò a
sedere, si mirò la persona, girò lo sguardo intorno, per il prato, per i monti
velati dalle ombre della sera. Alla vista della grande croce la sua mente si
ricompose. Si sentiva male, male assai. Cercò di rimettersi in piedi e vi
riuscì a fatica. Si avviò verso la mulattiera domandandosi che potrebbe fare in
quello stato. Vide qualcuno venir frettoloso per la mulattiera, da Jenne,
fermarglisi in faccia; udì esclamare: «Dio, è Lei!» riconobbe la voce della
donna che gli aveva parlato con tanta passione fra i tuoni e i lampi. Ella
sola, di tanti che avevano udito a Jenne il racconto del ragazzo, era venuta.
Gli altri non avevano creduto o non avevano voluto credere. Era venuta
correndo, folle di angoscia. Ora si era fermata di botto, a due passi da lui,
incapace di proferir parola. Egli non sospettò che fosse venuta per lui, le
diede la buona sera e passò. Ella non gli ricambiò il saluto, affannata, dopo
la prima gioia, di vederlo camminare male, non osando seguirlo. Lo vide
fermarsi con un uomo a cavallo che saliva, parlargli; fece un balzo avanti per
udire. L’uomo era un mulattiere mandato dai Selva in cerca di Benedetto. I Selva
erano partiti da Jenne poco dopo quest’ultimo, con due muli per le signore,
credendo raggiungerlo sulla costa. Giunti all’Aniene senza veder nessuno,
avevano interrogato un viandante che veniva da Subiaco. Colui non seppe darne
notizia. Noemi che doveva prendere l’ultimo treno per Tivoli, era partita con
Giovanni, nascondendo il suo rammarico; il mulattiere era stato rimandato a
Jenne per cercarvi di Benedetto e anche per riportarne un ombrellino
dimenticato all’osteria; Maria era rimasta ad aspettarlo sulle ghiaie
dell’Infernillo. La giovine maestra udì Benedetto domandare al mulattiere, per
carità, che gli portasse da Jenne un po’ d’acqua. I due si parlarono ancora ma
lei non attese altro, scomparve.
Benedetto aveva accettato, dopo una breve conversazione col mulattiere, di
raggiungere, a cavallo, la signora Selva. Rimasto solo, sedette sotto la croce
aspettando il ritorno del mulattiere con l’acqua e con l’ombrello. La luna
falcata si veniva dorando nel cielo chiaro sopra i monti di Arcinazzo; la sera era
senza vento, tepida. Benedetto si sentiva le tempie pulsare e ardere, celere e
breve il respiro. Dolore non sentiva; e l’erba odorante del prato, gli alberi
sparsi, le grandi montagne ombrose, tutto gli era vivo, tutto gli era pio,
tutto gli era dolce di un mistero di amore orante che inclinava la stessa falce
della luna verso le cime placide nel cielo di opale. Don Giuseppe Flores gli
diceva nel cuore che sarebbe soave di morire così col giorno, pregando insieme
alle cose innocenti.
Passi frettolosi, dalla parte di Jenne. Si fermarono un po’ discosto. Una
bambina si avanza verso Benedetto, gli porge timidamente una bottiglia d’acqua
e un bicchiere, fugge indietro. Benedetto, meravigliato, la richiama; ella
viene lenta, vergognosa. Richiesta del suo nome, tace; dei suoi genitori, tace.
Una voce dice:
«È la bambina dell’oste.»
Benedetto riconosce la voce e, al fioco lume della luna, la persona
silenziosa rimasta indietro per lo stesso squisito sentimento che le ha fatto
prender con sé la bambina.
«Grazie» diss’egli.
Ella si appressò un poco, tenendo la bambina per mano, sussurrò:
«Sa che i preti hanno parlato colla madre del morto? Sa che ora questa donna
accusa Lei di averlo fatto morire?»
Benedetto rispose con qualche severità nella voce:
«Perché mi dice questo?»
Ella conobbe di avergli fatto dispiacere accusando alla sua volta, esclamò
desolata:
«Oh mi perdoni!»
E riprese:
«Posso farle una domanda?»
«Dica.»
«Ritornerà mai a Jenne?»
«No.»
La donna tacque. Si udirono venire, da lontano, il mulattiere e il suo mulo.
Ella disse, a voce più bassa:
«Per pietà, una domanda ancora. Come si figura Lei l’altra vita? Crede che
uno possa ritrovare le persone conosciute in questa?»
Se il lume della luna non fosse stato così fioco, Benedetto avrebbe vedute
due grosse lagrime rigar il viso della giovine.
«Credo» rispose gravemente «che fino alla morte del nostro pianeta l’altra
vita sarà per noi un grande continuo lavoro sopra di esso e che tutte le intelligenze
aspiranti alla Verità e all’Unità vi si ritroveranno insieme all’opera.»
Le scarpe ferrate del mulattiere suonano vicine sui ciottoli. La donna dice:
«Addio.»
Stavolta le lagrime suonano anche nella voce. Benedetto le risponde:
«A Dio.»
Egli scende sul mulo, ardendo di febbre, nelle ombre della valle. Andrà
dunque a casa Selva. Sa, lo ha saputo dal mulattiere, che non troverà Noemi, ma
questo gli è indifferente, non la teme, neppure ricorda quel momento di lieve
emozione. Un altro pensiero si agita, infiammato dalla febbre, nell’anima sua.
Vi turbinano parole di don Clemente, parole di quel giovine Alberti, parole
della vecchia dama inglese, vi lampeggiano dentro immagini rotte della Visione.
A casa Selva, sì, ma per poco! Egli scende e la gran voce dell’Aniene gli rugge
in profondo, più e più forte:
«Roma, Roma, Roma.»
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