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Una carrozza signorile si fermò sull’imbrunire davanti a una casa di via
della Vite, in Roma. Due signore ne discesero frettolosamente e sparirono dentro
la porta oscura. La carrozza partì. Due minuti dopo ne arrivò un’altra, versò
due altre signore nella stessa porta e partì. In un quarto d’ora ne capitarono
cinque. La porta oscura non inghiottì meno di dodici signore. La piccola via
ritornò silenziosa. Trascorsa una mezz’ora cominciarono a venire dal Corso
gruppi di uomini. Si fermavano davanti a quella stessa porta, leggevano il
numero al lume del fanale vicino, entravano. E la porta oscura inghiottì a
questo modo un’altra quarantina di persone. Gli ultimi furono due preti. Quello
che guardò il numero era miope, non riusciva a decifrarlo. L’altro gli disse
ridendo:
«Entra, entra, io sento puzzo di Lutero, dev’essere qui.»
E il primo entrò nelle tenebre puzzolente. Salirono per una scala nera,
sucida, su su verso l’unico lumicino a olio che ardeva al quarto piano. Quando
furono al terzo, accesero dei fiammiferi per leggere i nomi sulle placche degli
usci. Una voce chiamò dall’alto:
«Qui, signori, qui!»
Un giovine affabile signore in abito nero di mattina discese a incontrarli,
li ossequiò molto, disse che si aspettava solamente loro, li fece entrare, per
un’anticamera e un andito quasi tanto oscuri quanto la scala, in una stanza
grande, piena di gente, illuminata alla meglio da quattro candele e da due
vecchie lucerne a olio. Il giovine signore si scusò dell’oscurità. I suoi
genitori non volevano in casa né luce elettrica né gaz né petrolio. Tutti gli
uomini venuti a gruppi erano raccolti lì. Tre o quattro vestivano l’abito
ecclesiastico. Gli altri, meno un vecchio dalla faccia rossa e dalla barba
bianca, parevano studenti. Nessuna signora. Erano tutti in piedi, eccetto il
vecchio, persona di riguardo, certamente. Conversavano sottovoce. La stanza
sussurrava come una grotta tutta rivoletti e goccie cadenti. Entrati i due
preti, il giovine padrone di casa disse:
«Allora!...»
Le persone strette nel gruppo maggiore si scostarono a cerchio e vi apparve
nel mezzo Benedetto. Un tavolino con due candele e una sedia erano preparati
per lui. Pregò che si togliessero le candele. Poi gli dispiacque anche il
tavolino. Si disse stanco, chiese di parlare seduto sul canapè, vicino al
vecchio signore dal viso acceso e dalla barba bianca. Vestiva di nero, era
pallido e magro più ancora che a Jenne. La fronte gli si era scoperta di
capelli, aveva preso qualche cosa della fronte solenne di don Giuseppe Flores.
E gli occhi avevano un azzurro più lucente. Molte delle facce volte avidamente
a lui parevano piuttosto affascinate da quegli occhi e da quella fronte che
ansiose di udire la sua parola.
Egli prese a parlare così, senza un gesto, tenendosi le mani sulle
ginocchia:
«Io devo dire subito a chi parlo perché non tutti qui hanno le stesse
disposizioni di anima verso Cristo e la Chiesa. Non credo di parlare ai
sacerdoti presenti, credo e spero ch’essi non abbiano bisogno della parola mia.
Non parlo a questo signore seduto presso a me, perché egli pure, lo so, non ne
ha bisogno. Non parlo ad alcuno che sia fermo nella fede cattolica. Io parlo
unicamente a quei giovani che mi hanno scritto così.»
Trasse una lettera e lesse:
«Noi siamo stati educati nella fede cattolica e, fatti uomini, abbiamo
accettato con un nuovo atto di libera volontà i suoi più ardui misteri, abbiamo
lavorato per essa nel campo amministrativo e sociale; ma ora un altro mistero
sorge sul nostro cammino e la nostra fede tituba davanti ad esso. La Chiesa
cattolica che si proclama fonte di verità, oggi contrasta la ricerca della
verità quando si esercita sui fondamenti suoi, sui libri sacri, sulle formole
dei dogmi, sull’asserita infallibilità sua. Questo per noi significa ch’essa
non ha più fede in sé stessa. La Chiesa cattolica che si proclama ministra
della Vita, oggi incatena e soffoca tutto che dentro di lei vive giovanilmente,
oggi puntella tutte le sue cadenti vecchiaie. Questo per noi significa morte;
lontana, ma ineluttabile morte. La Chiesa cattolica che proclama di volere
rinnovar tutto in Cristo, è ostile a noi che vogliamo contendere ai nemici di
Cristo la direzione del progresso sociale. Questo per noi significa, insieme a
molti altri fatti, avere Cristo sulle labbra e non nel cuore. La Chiesa
cattolica oggi è tale e Dio vorrà che noi le obbediamo ancora? Ecco perché noi
veniamo a Voi. Che dobbiamo fare? Voi che vi professate cattolico e, predicate
il cattolicismo e avete fama...»
Qui Benedetto troncò la lettura, dicendo:
«Seguono parole inutili.»
E riprese a parlare:
«Io rispondo a chi mi ha scritto così: – Ditemi; perché vi siete rivolti a
me che mi professo cattolico? Mi credete voi forse, nella Chiesa, un Superiore
dei Superiori? È forse per questo che se la parola mia sarà diversa da quella
che voi dite la parola della Chiesa, voi riposerete in pace sulla parola mia?
Udite una figura. Pellegrini assetati si accostano a una fonte famosa. Trovano
una vasca piena di acqua stagnante, ingrata al gusto. La scaturigine viva è sul
fondo della vasca, non la trovano. Si volgono mesti a un cavatore di pietre che
lavora in una cava vicina. II cavatore offre loro acqua viva. Gli chiedono il
nome della sorgente. «È la stessa della vasca» dice. «È tutta, nel sottosuolo,
una sola corrente. Chi scava, trova.» I pellegrini sitibondi siete voi, il
cavatore oscuro sono io e la corrente occulta nel sottosuolo è la Verità,
cattolica. La vasca non è la Chiesa, la Chiesa è tutto il campo corso dalle
acque vive. Voi vi siete rivolti a me per un vostro inconscio conoscere che la
Chiesa non è la sola gerarchia, è la universale assemblea dei fedeli, gens
sancta, che dal fondo di ogni cuore cristiano può zampillare acqua viva
della sorgente stessa, della stessa Verità. Inconscio conoscere; perché se non
fosse inconscio, voi non direste – la Chiesa contrasta questo – la Chiesa
soffoca quello – la Chiesa invecchia – la Chiesa ha Cristo sulle labbra e non
nel cuore.
«Intendetemi bene. Io non giudico la gerarchia, io riconosco e onoro
l’autorità della gerarchia, io dico unicamente che la Chiesa non è la gerarchia
sola. Udite un’altra similitudine. Vi ha nei pensieri di ciascun uomo una
specie di gerarchia. Prendete un uomo giusto. Certe idee, certi propositi sono
in lui pensieri dominanti, governano la sua vita, e sono questi: compiere il
dovere religioso, il dovere morale, il dovere civile. Egli ha dei varii doveri
il concetto tradizionale che gliene fu appreso. Ma poi questa gerarchia d’idee
ferme con impero non è tutto l’uomo. Sotto di essa vi è in lui una moltitudine
di altre idee, una moltitudine di pensieri che continuamente si muovono e si
modificano per le impressioni e l’esperienza della vita. E sotto questi
pensieri vi ha un’altra regione dell’anima, vi ha l’Inconscio dove facoltà
occulte lavorano un lavoro occulto, dove avvengono i contatti mistici con Dio.
Le idee dominanti esercitano autorità sul volere dell’uomo giusto, ma tutto
l’altro mondo del suo pensiero ha pure una importanza immensa perché attinge
continuamente alla Verità con l’esperienza del reale nell’esterno, con
l’esperienza del Divino nell’interno, e quindi tende a rettificare le idee
superiori, le idee dominanti in quanto il loro elemento tradizionale non è adeguato
al Vero; è per esse una perenne fonte di fresca vita che le rinnova, una
sorgente di autorità legittima fondata sulla natura delle cose, sul valore
delle idee, più che sui decreti degli uomini. La Chiesa è tutto l’uomo, non un
solo gruppo d’idee eminenti e dominanti; la Chiesa è la gerarchia con i suoi
concetti tradizionali ed è il laicato con il suo continuo attingere alla
realtà, con il suo continuo reagire sulla tradizione; la Chiesa è la teologia
ufficiale ed è il tesoro inesausto della Verità divina che reagisce sulla
teologia ufficiale; la Chiesa non muore, la Chiesa non invecchia, la Chiesa ha
nel cuore il Cristo vivente meglio che sulle labbra, la Chiesa è un laboratorio
di verità in azione continua e Iddio comanda che voi restiate nella Chiesa, che
voi operiate nella Chiesa, che voi siate, nella Chiesa, sorgenti di acqua
viva.»
Uno spirito di commozione e di ammirazione agitò l’uditorio con il rumore
del vento. Benedetto, ch’era venuto alzando la voce, sorse in piedi.
«Ma qual fede è la vostra» esclamò acceso «se parlate di uscire dalla Chiesa
perché vi offendono certe dottrine antiquate dei suoi capi, certi decreti delle
Congregazioni romane, certi indirizzi del governo di un Pontefice? Quali figli
siete voi che parlate di rinnegare la madre perché veste come a voi non
aggrada? È forse cambiato, per una veste, il seno materno? Quando piegati
sovr’esso voi dite piangendo a Cristo le vostre infermità, e Cristo vi sana,
pensate voi all’autenticità di un passo di S. Giovanni, al vero autore del
quarto Vangelo o ai due Isaia? Quando raccolti sovr’esso vi unite a Cristo in
sacramento, vi turbano i decreti dell’Indice o del Sant’Uffizio? Quando
abbandonati sovr’esso entrate nelle tenebre della morte, vi è meno dolce la
pace che a voi ne spira, perché un Papa è, contrario alla democrazia cristiana?
«Amici miei, voi dite: noi abbiamo riposato all’ombra di questo albero, ma
ora la sua corteccia si fende, la sua corteccia si dissecca, l’albero morrà,
andiamo in cerca di un’altra ombra. L’albero non morrà. Se aveste orecchi
udreste il moto della corteccia nuova che si forma, che avrà il suo periodo di
vita, che si fenderà, che si disseccherà alla sua volta perché un’altra
corteccia le succeda. L’albero non muore, l’albero cresce.
Benedetto sedette spossato e tacque. L’uditorio ebbe un moto e un fremito di
onda verso di lui. Egli, lo arrestò alzando le mani.
«Amici» riprese con voce stanca e dolce «ascoltatemi ancora. Scribi e
Farisei, anziani e principi dei sacerdoti zelanti contro le novità sono in ogni
tempo e anche in quest’ora. Non ho a parlar di loro a voi, Iddio li giudicherà.
Noi preghiamo per tutti coloro che non sanno quello che fanno. Ma forse
nell’altro campo cattolico militante non si è senza peccato. Nell’altro campo
si è inebbriati della idea di modernità. La modernità è buona ma l’eterno è
migliore. Io temo che colà non si tenga l’eterno nel debito conto. Vi si
attende molta salute alla Chiesa di Cristo dall’azione cattolica collettiva nel
campo amministrativo e politico, azione di battaglia per la quale il Padre
riceverà ingiuria dagli uomini, e non se ne attende abbastanza dalla luce delle
opere buone di ciascun cristiano per la quale il Padre è glorificato. Supremo
fine delle creature umane è glorificare il Padre. Ora gli uomini glorificano il
Padre di coloro che hanno lo spirito di carità, di pace, di sapienza, di
povertà, di purità, di fortezza, che adoperano per i fratelli le energie della
vita. Uno di questi giusti che professi e pratichi il Cattolicismo è
profittevole alla gloria del Padre, di Cristo e della Chiesa più di molti
Congressi, di molti Circoli, di molte vittorie elettorali cattoliche.
«Ho inteso testé uno di voi mormorare: «e l’azione sociale?» L’azione
sociale, amici miei, è sicuramente buona come opera di giustizia e di
fraternità, ma, simili ai socialisti, certi cattolici la marchiano con il
marchio delle loro opinioni religiose e politiche, rifiutano di accomunarvi gli
uomini di buona volontà se non accettano quel marchio, respingono da sé il buon
Samaritano e questo è abbominevole agli occhi di Dio. Improntano col marchio
cattolico anche opere che sono strumenti di lucro e questo pure è abbominevole
agli occhi di Dio. Predicano la giusta distribuzione della ricchezza ed è bene,
ma troppo dimenticano di predicare insieme la povertà del cuore; e se lo
ommettono deliberatamente per ragioni di opportunità, questo è abbominevole
agli occhi di Dio. Purgate l’azione vostra di questi abbominii. Chiamate alle
opere particolari di giustizia e di amore tutti gli uomini di buona volontà,
contenti di esserne voi gli iniziatori. Predicate a ricchi e poveri, con la
parola e con l’esempio, la povertà del cuore.»
L’uditorio ondeggiò confusamente, sospinto in parti diverse. Benedetto si
raccolse un momento celando il viso fra le mani.
«Voi mi avete domandato che fare?» diss’egli, scoprendo il viso.
Pensò ancora un poco e riprese:
«Io vedo nell’avvenire cattolici laici, zelatori di Cristo e della Verità,
trovar modo di costituire unioni diverse dalle presenti. Si armeranno un giorno
cavalieri dello Spirito Santo per l’associata difesa di Dio e della morale
cristiana nel campo scientifico, artistico, civile, sociale, per l’associata
difesa delle legittime libertà nel campo religioso, con certi particolari
obblighi, non però di convivenza né di celibato, integrando l’ufficio del clero
cattolico dal quale non avranno a dipendere come Ordine, ma solo come persone
nella pratica individuale del Cattolicismo. Pregate che la volontà di Dio si
manifesti circa quest’Opera nelle anime che la pensano; pregate ch’esse anime
si spoglino lietamente della compiacenza di averla immaginata e della speranza
di vederla compiuta, se Dio si rivela contrario ad essa. Se Dio si rivela
favorevole, pregate che gli uomini la sappiano bene ordinare in ogni parte a
gloria di Lui e a gloria della Chiesa. Amen.»
Egli aveva finito e nessuno si mosse. Tutti gli occhi lo fissavano, ansiosi,
avidi di altre parole dopo le inattese ultime di tôno scuro e grande. Molti
avrebbero voluto e non osarono rompere quel silenzio. Ma quando Benedetto si
alzò e tutti gli si scostarono d’intorno a cerchio riverenti, si alzò pure il
vecchio signore dal viso rosso e dai capelli bianchi, e disse con voce rotta
dalla emozione:
«Ella riceverà oltraggi e battiture, sarà incoronato di spine e abbeverato
di fiele, sarà deriso dai farisei e dai pagani, non vedrà l’avvenire che
desidera, ma l’avvenire è per Lei, i discepoli dei discepoli suoi lo vedranno.»
Abbracciò Benedetto e lo baciò in fronte. Due o tre vicini batterono le mani
timidamente, uno scroscio di applausi suonò nella sala. Benedetto,
turbatissimo, accennò a un giovinetto biondo che lo aveva accompagnato, e
questi corse a lui, proprio lucente in viso di commozione e di gioia. Qualcuno
sussurrò:
«Un discepolo.»
Altri soggiunse, piano:
«Sì, e il prediletto.»
Il padrone di casa si prostrò, quasi, davanti a Benedetto con parole di
ossequio e di gratitudine. Allora uno dei sacerdoti ardì pure farsi avanti,
disse con voce commossa:
«E per noi, maestro, non avrà un consiglio?»
«Non mi chiami maestro» rispose Benedetto, tutto ancora turbato; «preghi
luce a questi giovani, ai nostri Pastori e anche a me.»
Uscito ch’egli fu, si levò nella sala un crepitìo di voci vibrate, brevi e
fioche, premendo ancora lo stupore sulle anime commosse. Poi la commozione
scoppiò qua e là, forte, ruppe da ogni banda, urtandosi anche le ammirazioni
fra loro nell’esaltare queste o quelle parole, queste o quelle idee del
discorso, l’accento o lo sguardo dell’oratore, o lo spirito di santità diffuso
nel suo volto, spirante anche dalla sua mano. Ma il padrone di casa congedò gli
ospiti; con molte scuse, sì, con molte parole di cerimonia, ma con una fretta
quasi scortese.
Rimasto solo, aperse un uscio ch’era chiuso a chiave, s’inchinò dentro
l’apertura.
«Signore!» diss’egli. E spalancò l’uscio.
Uno sciame di signore irruppe nella sala vuota. Una signorina matura si
slanciò addirittura verso il giovine, a mani giunte, esclamando:
«Oh quanto Le siamo grate! Oh che Santo! Non so perché non siamo corse tutte
fuori ad abbracciarlo!»
«Cara» disse una signora con ironica flemma veneta, sorridendo nei due
grandi belli occhi, «perché, fortunatamente per lui, l’uscio era chiuso a
chiave.»
Erano dodici signore. Il padrone di casa, professore Guarnacci, figlio
dell’agente generale di una di queste, la marchesa Fermi, romana, le aveva
raccontato della riunione che doveva tenersi in casa sua, del discorso che vi
avrebbe pronunciato lo strano personaggio di cui si parlava già in Roma come di
un agitatore religioso entusiasta e taumaturgo, popolare nel quartiere del
Testaccio. La marchesa si era posta in capo di udirlo non veduta. Presi gli
accordi col Guarnacci, aveva tratte nella congiura tre o quattro amiche e
ciascuna di queste aveva ottenuto di aggregarsi delle appendici.
Era una miscela curiosa, in vista. Molte avevano toilettes da
società, due vestivano proprio come quacchere, una sola di nero. Le due
quacchere, straniere, parevano impazzite dall’entusiasmo e fremevano contro la
marchesa, una vecchia scettica, alquanto sarcastica, che diceva tranquillamente:
«Sì, ha parlato bene ma però avrei voluto vedere la sua faccia mentre
parlava.»
E dichiarando di saper giudicare gli uomini dalla faccia meglio che dalle
parole, la vecchia marchesa rimproverò il Guarnacci di non aver praticato un
buco nell’uscio o almeno levata la chiave dalla toppa.
«Sei troppo santo» diss’ella. «Non conosci le donne.»
Il Guarnacci rise, si scusò con l’ossequio dovuto alla padrona di suo padre
e affermò che Benedetto era bello come un angelo. Ma una giovine signora
insipidetta, venuta, pensavano rabbiosamente le quacchere, Dio sa perché, uscì
a dire quieta quieta che lo aveva veduto due volte e ch’era brutto.
«Bisognerebbe conoscere la Sua idea di bellezza, signora» disse acremente
una quacchera. E l’altra quacchera mise subito fuori, ma sottovoce per acuire
la malignità espressamente, un velenoso:
«Naturellement!»
La signora insipidetta replicò, un poco arrossendo fra l’imbarazzo e il
dispetto, ch’era magro, pallido; e le due quacchere si guardarono, si sorrisero
con tacito disprezzo. Ma dove lo aveva veduto? Questo volevano sapere le altre
dalla Insipidetta.
« Eh! Sempre nel giardino di mia cognata» diss’ella.
«Sempre nel giardino?» esclamò la marchesa. «È un angelo in piena terra o è
un angelo in vaso?»
La Insipidetta rise e le quacchere fulminarono la marchesa con gli occhi
furiosi.
Entrò il thè, compreso nell’invito del professore Guarnacci.
«Bella discussione, eh?» disse piano la signora Albacina, moglie
dell’onorevole Albacina, sottosegretario di Stato per l’Interno, all’orecchio
della signora vestita di nero, che non aveva mai aperto bocca. Colei sorrise
tristemente e non rispose.
Il thè, servito dal professore e da una sua sorellina, ammorzò per un
momento la conversazione che si riaccese sul discorso di Benedetto e diventò un
guazzabuglio tale di ragionamenti senza ragione, di giudizi senza giudizio, di
dottrine senza dottrina, che la signora silenziosa vestita di nero propose
all’Albacina, con la quale era venuta, di andarsene. Ma in quel momento la
marchesa Fermi, scovato un campanellino sopra una caminiera, si mise a
scampanellare per ottenere silenzio.
«Vorrei sapere di questo giardino» diss’ella.
Le quacchere e la signorina matura, infervorate a discutere l’ortodossia
cattolica di Benedetto, non avrebbero taciuto per dieci campanelli; ma la
curiosità della signorina matura, all’udire la parola «giardino» scattò. Scattò
fuori tutta intera. Altro che giardino! Il signor professore doveva raccontare
tutto che sapeva di questo padre Hecker italiano e laico. Un po’ per sfoggio di
cultura, un po’ per avventatezza, ella aveva già battezzato Benedetto così.
Allora la Insipidetta guardò l’orologio. La sua carrozza avrebbe dovuto
trovarsi alla porta. La piccola Guarnacci disse che di carrozze ce n’erano già
quattro o cinque. La Insipidetta voleva arrivare al Valle per il terzo atto
della commedia. Due altre signore avevano altri impegni e partirono con lei. La
Fermi restò:
«Fa presto, però, professore, » diss’ella, «perché stasera mia figlia ci aspetta,
me e queste altre signore di cui vedi le spalle.»
«Faccia prestissimo» disse, dispettosetta, la signorina matura. «Dopo
parlerà per la povera gente che non mostra le spalle.»
Una forestiera bionda, molto scollata, bellissima, lanciò uno sguardo ineffabile
allo povere coperte spallucce magre della dispettosa, che diventò rossa di
rabbia come un gambero.
«Allora» incominciò il professore «siccome la signora marchesa e forse anche
le altre signore che hanno fretta sanno già quanto so io del Santo di Jenne
prima della sua partenza da Jenne, quello lo lascio. Io dunque un mese fa, in
ottobre, neanche ricordavo di aver letto nei giornali, in giugno o in luglio,
di questo Benedetto che predicava e faceva miracoli a Jenne, quando un giorno
uscendo da S. Marcello m’incontrai in un tale Porretti che una volta scriveva
nell’Osservatore e adesso non vi scrive più. Questo Porretti mi si
accompagna, si parla della condanna dei libri di Giovanni Selva che si aspetta
di giorno in giorno e, tra parentesi, non è ancora venuta, e Porretti mi dice
che adesso in Roma c’è un amico di Selva, il quale farà parlare di sé più che
lo stesso Selva. «Chi è?» faccio io. «II Santo di Jenne» dice. E mi racconta
questo. L’uomo è stato cacciato da Jenne per opera di due preti, farisei
terribili, che a Roma si conoscono. Si è rifugiato a Subiaco presso i Selva che
villeggiano lì e si è ammalato gravemente. Guarito, è venuto a Roma circa alla
metà di luglio. Il professore Mayda, amico del Selva anche lui, e che lo aveva
conosciuto a Subiaco, lo prese per aiutogiardiniere nella villa che si è
fabbricata due anni sono sull’Aventino, sotto Sant’Anselmo. Il nuovo aiutogiardiniere
che si fa chiamare Benedetto e nient’altro, come a Jenne, è diventato presto
popolare in tutto il quartiere del Testaccio. Divide il pane con pezzenti,
assiste malati, pare che ne abbia guarito qualcuno con l’imposizione delle mani
e la preghiera. È divenuto tanto popolare che la nuora del professore Mayda,
benché sia credente e praticante, lo avrebbe licenziato volentieri per non
avere la seccatura di tanta gente che viene a cercarlo; ma il suocero, che non
è né praticante né credente, non ha voluto. Il suocero gli ha riguardi
grandissimi. Se sopporta di vederlo rastrellare i viali, annaffiare i fiori, è
solo per rispetto alle sue idee di Santo, e non glielo permette oltre una certa
misura di tempo, molto breve. Vuole che attenda liberamente alla sua missione
religiosa. Egli stesso scende sovente in giardino a parlare di religione con
lui. Benedetto, per compiacergli, ha smesso il regime di pane, erbaggi e acqua
che teneva a Jenne, prende carne e vino. E per compiacere a Benedetto il
professore ne fa distribuire molto largamente agli ammalati del quartiere. Vi
ha chi ride di lui e magari lo ingiuria, ma dal popolino è venerato come, in
principio, a Jenne. Ed esercita la carità delle anime più ancora che l’altra.
Ha levato certi disordini morali di famiglie, fu minacciato di morte per questo
da una mala femmina, ha fatto ritornare in chiesa gente che non ci aveva più messo
piede dalla fanciullezza in poi. Lo sanno i benedettini di Sant’Anselmo. La
sera poi, due o tre volte la settimana, parla nelle catacombe.»
La signorina matura esclamò:
«Nelle catacombe?»
E si porse, palpitante, verso il narratore. Una delle quacchere mormorò: «Mon
Dieu! Mon Dieu!» e un’altra voce, grave di stupore riverente:
«Che senso!»
«Ecco» riprese il giovine, sorridendo «Porretti ha detto «nelle catacombe»
ma intendeva in un luogo privato, conosciuto da pochi. Adesso lo conosco
anch’io.»
«Ah!» fece la signorina matura. «Lei lo conosce? Dov’è?»
Guarnacci tacque ed ella sentì la sua indiscrezione.
«Scusi, scusi!» disse, frettolosa.
«Lo sapremo, lo sapremo» fece la marchesa.
«Ma senti un po’, figliuolo mio, questo tuo Santo che predica in segreto, non
sarebbe una specie di eresiarca? Cosa ne dicono i preti?»
«Stasera» rispose il professore Guarnacci «ne avrebbe veduto qui tre o
quattro e sono andati via contentissimi.»
«Saranno preti poco preti, preti mal cotti, pretoidi. Ma cosa dicono gli
altri? Vedrai che gli altri, presto o tardi, gli daranno il torcibudella.»
E con quest’allegra profezia la marchesa se n’andò seguita da tutte le
spalle scoperte.
La signorina matura e le quacchere, felici che quello spregevole sciame
mondano se ne fosse andato, assalirono il professore con domande. Non si poteva
proprio sapere il posto delle nuove catacombe? Quante persone vi si radunavano?
Anche donne? Quali erano i temi dei discorsi? Cosa dicevano i frati di
Sant’Anselmo? E della vita passata di quest’uomo si era venuti a sapere nulla?
Il professore si schermì quanto poté, riferì solamente le parole di un padre di
Sant’Anselmo: «un Benedetto per ogni parrocchia di Roma e Roma diventa davvero
la Città Santa.» Ma quando, partite tutte le altre signore, si trovò solo con
l’Albacina e con la Silenziosa che aspettavano la loro carrozza, siccome
all’Albacina era legato di amicizia, lasciò capire a questa che avrebbe parlato
ma che la presenza di una signora sconosciuta lo imbarazzava, pregò l’Albacina
di presentarlo. L’Albacina non ci aveva pensato. «Il professore Guarnacci»
diss’ella. «La signora Dessalle, mia buona amica.»
La «catacomba» era proprio la sala stessa dove stavano in quel momento.
Prima, le riunioni avevano luogo nell’alloggio dei Selva, in via Arenula. Quel
posto non pareva molto adatto, per diverse ragioni. Guarnacci, fattosi
discepolo egli pure, aveva offerto la casa propria. Le riunioni vi si tenevano
due volte la settimana. Ci venivano i Selva, una sorella della signora, alcuni
ecclesiastici, quella stessa signora veneta ch’era partita poc’anzi, alcuni
giovani fra i quali certo Alberti, prediletto dal Maestro che quella sera era
venuto e partito con lui, e anche un ebreo, certo Viterbo, già prossimo a farsi
cattolico e dal quale il Maestro sperava cose grandi; un operaio tipografo,
qualche artista, persino due membri del Parlamento. Lo scopo delle riunioni era
di far conoscere a persone attratte da Cristo ma ripugnanti al Cattolicismo,
ciò che il Cattolicismo è veramente, la essenza vitale, indistruttibile della
religione cattolica e il carattere umano di quelle sue diverse forme che la
rendono appunto ripugnante a molti, che sono mutabili e mutano e muteranno per
una elaborazione dell’interno elemento divino combinata con le reazioni
dell’esterno, della scienza e della coscienza pubblica. Benedetto era
severissimo nell’ammettere alle riunioni perché nessuno più di lui sapeva
trattare delicatamente colle anime, rispettarne i candori, farsi piccino alle
piccine, alto alle alte, usare con le timide il linguaggio riguardoso che
istruisce e non turba.
«La marchesa» continuò il professore «dice: sarà un eresiarca, i preti che
lo seguono saranno eretici. No. Con Benedetto non c’è a temere di eresie né di
scismi. Proprio nell’ultima riunione egli ha dimostrato che scismi ed eresie,
oltre ad essere condannabili per sé, sono funesti alla Chiesa non solamente
perché le sottraggono anime, ma perché, anche, le sottraggono elementi di
progresso, perché se i novatori restassero nella soggezione della Chiesa gli
errori loro perirebbero e quell’elemento di verità, quell’elemento di bene che
quasi sempre è unito, in qualche misura, all’errore, diventerebbe vitale nel
corpo della Chiesa.»
L’Albacina osservò che questo era molto bello e che se le cose stavano a
questo modo la sinistra profezia della marchesa non si sarebbe avverata.
«La profezia del torcibudella, no!» disse il professore, ridendo. «Queste
cose non accadono e io non credo che sieno accadute mai. Sono calunnie. Bisogna
essere la marchesa e certa gente come la marchesa che si trova qui a Roma per
crederle. Un prete romano, capisce, un prete ha osato avvertire Benedetto che
si guardasse! Ma Benedetto gli ha levato il coraggio di parlargliene un’altra
volta. Dunque, torcibudella no; ma persecuzione sì. Quei tali due preti di Roma
ch’erano a Jenne non hanno mica dormito. Io non volli dirlo prima perché la
marchesa non è persona cui raccontare queste cose, ma ci sono in aria dei guai
grossi. Si è spiato ogni passo di Benedetto, si è adoperata anche la nuora di
Mayda, a mezzo del confessore, per avere informazioni dei suoi discorsi, si è
saputo delle riunioni. La sola presenza di Selva dà loro il carattere che
quella gente abborre e siccome contro un laico non può far niente, così pare
che si cerchi l’aiuto del braccio secolare contro Benedetto, l’aiuto dei
carabinieri e dei giudici. Loro si meravigliano? Eppure è così. Finora non c’è
niente di positivo, niente di fatto, ma si macchina. Siamo stati avvertiti da
un ecclesiastico straniero che un’altra volta ha chiacchierato male ma stavolta
ha chiacchierato bene. Si preparano e si fabbricano materiali per un’azione
penale.»
La Silenziosa trasalì, uscì finalmente del suo mutismo.
«Come è possibile?» diss’ella.
«Signora mia,» disse il professore «Lei non sa di cosa sieno capaci alcuni
intransigenti in tonaca. Gl’intransigenti laici sono agnelli, in paragone. Si
vuol servirsi di un disgraziato caso successo a Jenne. Ora però noi speriamo in
un fatto nuovo, che non occorre di raccontare a molti, senza discernimento, ma
ch’è importantissimo.»
II professore tacque un momento, assaporando l’acuta curiosità che aveva
destato e che, muta sulle labbra, sfavillava dagli occhi intenti delle due
dame.
«L’altro giorno» riprese «il segretario del cardinale.... un giovine prete
tedesco, si recò a Sant’Anselmo e parlò coi frati. In seguito a questa visita
Benedetto fu chiamato a Sant’Anselmo dove i benedettini gli hanno un grande
affetto e un grande rispetto. Gli fu chiesto se non avesse intenzione di
rendere omaggio a Sua Santità, di domandare udienza. Rispose ch’era venuto a
Roma con questo desiderio nel cuore, che aspettava un cenno dalla Provvidenza,
e che questo era il cenno. Allora gli fu detto che Sua Santità lo avrebbe
ricevuto certamente volentieri ed egli domandò l’udienza. Questo fu raccontato
a Giovanni Selva da un benedettino tedesco.»
«E quando ci va?» chiese l’Albacina.
«Posdomani sera.»
Il professore soggiunse che da parte del Vaticano la cosa era tenuta
segretissima, che si era imposto a Benedetto di non parlare con alcuno, che
niente ne sarebbe trapelato senza l’indiscrezione di quel frate tedesco, e che
gli amici di Benedetto speravano grandi cose da questa visita. L’Albacina
domandò cosa si proponesse Benedetto di dire al Pontefice. Il professore
sorrise. Benedetto non se n’era aperto con nessuno e nessuno aveva osato
interrogarlo. Secondo il professore, Benedetto parlerebbe a favore di Selva,
pregherebbe che i suoi libri non fossero posti all’Indice.
«Sarebbe poco» disse l’Albacina, sottovoce; Jeanne ebbe un fremito di
consenso.
«Pochissimo!» esclamò, quasi pigliandosela col professore che parve sorpreso
di quel subito scatto dopo tanto silenzio. Egli si scusò. Non aveva inteso dire
che Benedetto non parlerebbe anche di altre cose, al Papa. Aveva inteso dire
che, secondo lui, di quell’argomento gli parlerebbe certo. L’Albacina non
sapeva spiegarsi il desiderio del Papa di vedere Benedetto. Come lo spiegavano
i suoi amici? Come lo spiegava Selva? Eh, nessuno lo sapeva spiegare; né Selva
né gli altri.
«Io lo spiego!» disse Jeanne, impetuosa, compiacendosi di capire quello che
nessuno capiva. «Il Papa, non è stato vescovo a Brescia?»
Guarnacci sorrise di un sorriso fra l’ammirativo e l’ironico, rispose. Ah,
la signora era molto informata del passato di Benedetto! La signora sapeva con
certezza cose che a Roma si dicevano ma che però trovavano anche degli
increduli! Solo una cosa non sapeva. Il Papa non era mai stato vescovo a
Brescia, aveva coperto due sedi vescovili nel Mezzogiorno. Jeanne irritata con
se stessa, vergognosa di essersi quasi tradita, non replicò. L’Albacina voleva
sapere quale opinione Benedetto avesse del Papa.
«Oh lui» rispose il professore «nel Papa non considera e non venera che
l’ufficio. Almeno credo. Della persona non l’ho inteso parlare mai.
Dell’ufficio sì. Ne ha discorso una sera magnificamente, contrapponendo il
Cattolicismo al Protestantesimo, svolgendo il suo ideale di governo della
Chiesa: principato e giusta libertà. Del resto il nuovo Papa non si sa ancora
cosa sia. Si dice che sia santo, intelligente, malato e debole.
Nell’accompagnare le signore alla carrozza, sulla scala buia, il professore
uscì a dire sospirando:
«Quello che pur troppo si teme è che Benedetto non viva. Almeno Mayda lo teme.»
L’Albacina, che scendeva a braccio del professore, esclamò senza fermarsi:
«Oh poveretto! Di che soffre?»
«Ma!» rispose il professore. «Di un male inguaribile, pare; conseguenza
della tifoide ch’ebbe a Subiaco e sopra tutto della vita disagiatissima che ha
fatto, delle penitenze, dei digiuni.»
E continuarono la lunga discesa in silenzio.
Soltanto in fondo alla scala si avvidero che la loro compagna era rimasta
indietro. Il professore risalì rapidamente e trovò Jeanne ferma sul penultimo
pianerottolo, aggrappata alla ringhiera. Sulle prime non si mosse né parlò. Poi
mormorò:
«Non ci si vede.»
Guarnacci non sapeva e non fece attenzione né a quel momento di silenzio né
al tôno sommesso e incerto della voce. Le offerse il braccio e discese con lei,
scusando sé del buio, accusandone l’avarizia del padrone di casa.
Jeanne salì nella carrozza dell’Albacina che la portò al Grand Hôtel.
Nel tragitto l’Albacina parlò con rammarico della notizia che le aveva dato il
Guarnacci. Jeanne non aperse bocca. Il suo mutismo dispiacque all’amica.
«Lei non è stata contenta del discorso?» diss’ella. Non conosceva affatto le
idee religiose di Jeanne.
«Sì» rispose questa. «Perché?»
«Così. Mi pareva. Allora non Le dispiace di essere venuta?»
L’Albacina si sentì, con molta sorpresa, prendere una mano e rispondere:
«Le sono tanto grata!»
La voce fu sommessa e quieta, la stretta della mano quasi violenta.
«Nientemeno!» pensò l’Albacina. «Questa è una futura dama dello Spirito
Santo.»
«Per conto mio» riprese ad alta voce «capisco che mi terrò la mia religione
vecchia, quella degl’intransigenti. Saranno farisei, saranno tutto quello che
vi piace, ma ho paura che a volerla tanto ritoccare e ristaurare, la religione
vecchia, essa crolli e non resti più niente in piedi. E poi volendo seguire i
Benedetti bisognerebbe cambiare troppe cose. No no. Però l’uomo m’ispira un
interesse straordinario. Adesso bisognerebbe cercare di vederlo. Bisogna che lo
vediamo. Molto più se proprio è condannato a morire presto. Non Le pare? E come
si fa? Pensiamo.»
«Io non desidero di vederlo» s’affrettò a dire Jeanne.
«Davvero?» esclamò l’amica. «Ma come? Mi spieghi questo enigma.»
«Così. Non desidero.»
«Curiosa!» pensò l’Albacina. La carrozza si fermò davanti all’entrata del Grand
Hôtel.
Nell’atrio Jeanne s’incontrò con Noemi e suo cognato, che uscivano.
«Finalmente!» disse Noemi. «Va, corri, tuo fratello è arrabbiatissimo con
questa Jeanne che non arriva mai. Noi siamo discesi ora perché è venuto il
medico.»
I Dessalle erano a Roma da quindici giorni. Un principio di ottobre umido e
freddo, preoccupazioni di salute, il progetto di uno studio sul Bernini seguito
al progetto di romanzo, avevano persuaso Carlino ad accontentare la signora
Albacina più presto che non avrebbe voluto, a lasciare villa Diedo per i tepori
di Roma prima dell’inverno, con molta chiusa gioia di sua sorella. Due o tre
giorni dopo l’arrivo fu preso da una leggera bronchite. Si diede per tisico, si
tappò in camera con il proposito di starci tutto l’inverno, volle il medico due
volte al giorno, tiranneggiò Jeanne con un egoismo spietato, le numerò i minuti
di libertà. Ella si fece sua schiava, parve godere di quell’irragionevole
soprappiù di sacrificio, che passava la misura del suo affetto fraterno. Lo
donava mentalmente, con dolce ardore, a Benedetto. Vedeva spesso i Selva e
Noemi, non a casa loro, al Grand Hôtel. Anche i Selva erano soggiogati
dal suo fascino di donna superiore, bella, gentile e triste. Tutto che aveva
udito di Benedetto in casa Guarnacci lo sapeva già da Noemi. Solo non sapeva
che Mayda avesse espresso quel giudizio. Noemi, pietosamente e anche per non
lasciar trasparire la commozione propria, gliel’aveva taciuto.
Carlino l’accolse male. Il medico, che gli aveva trovato il polso frequente,
capì subito che era un polso collerico. Scherzò un poco sulla gravità del male
e se ne andò. Carlino, burbero, volle sapere dove Jeanne si fosse tanto
indugiata ed ella non glielo nascose. Solamente gli nascose il nome vero di
Benedetto.
«Non ti sei vergognata» diss’egli «di star ad ascoltare alle porte?»
E senza lasciarle il tempo di rispondere inveì contro le nuove tendenze che
le aveva scoperte.
«Domani andrai a confessarti! E posdomani reciterai il rosario!»
Sotto la usuale tolleranza cortese del suo linguaggio, la benevolenza che
mostrava pure a non pochi ecclesiastici, si nascondeva una vera fobìa
antireligiosa. L’idea che sua sorella potesse un giorno accostarsi ai preti,
alla fede, alle pratiche, gli faceva perdere il lume degli occhi.
Jeanne non rispose, si offerse mansuetamente per la solita lettura serale.
Carlino le dichiarò netto di non volerne sapere, pretese di sentire degli
spifferi, la tenne un quarto d’ora colla candela in mano a scrutar usci,
finestre, pareti, pavimento, e poi la mandò a dormire.
Ma Jeanne entrata nella sua camera, non pensò a dormire né a coricarsi.
Spense la luce e sedette sul letto.
Strepiti di carrozze sonavano nella via, passi e fruscii di vesti femminili
nei corridoi; immobile fra le tenebre, ella non udiva. Aveva spento la luce per
pensare, per non vedere che il proprio pensiero, l’idea balenatale nello
scender la scala di casa Guarnacci al braccio del professore dopo che, udite le
parole sinistre «si teme che non viva» aveva quasi smarriti i sensi. In
carrozza con l’Albacina, in camera con suo fratello, mentre doveva pur parlare
e con l’una e con l’altro, fare attenzione a tante diverse cose, era stato un
balenar continuo, nel suo profondo, di quest’idea, di questa proposta offerta
dal cuore ardente alla volontà. Adesso non balenava più. Jeanne la contemplava
in sé, ferma. Nella figura seduta sul letto, immobile fra le tenebre, due anime
si stavano tacite a fronte. Una Jeanne umile, appassionata, persuasa di poter
tutto sacrificare all’amore, si misurava con una Jeanne inconsciamente
orgogliosa, persuasa di possedere una dura e fredda verità. Gli strepiti delle
carrozze si fecero più radi nella via, i passi e i fruscii più radi nei
corridoi. A un tratto le due Jeanne parvero riconfondersi in una che pensò:
«Quando mi annuncieranno la sua morte, mi potrò dire: almeno hai fatto
questo.»
Si alzò, accese la luce, sedette alla scrivania, prese un foglietto e
scrisse:
«A Piero Maironi, la notte del 29 ottobre…
«Credo.
«Jeanne Dessalle.»
Scrisse e guardò a lungo, a lungo, la parola solenne.
Più la guardava, più le due Jeanne si venivano lente ridividendo. La Jeanne
inconsciamente orgogliosa soverchiò, oppresse l’altra quasi senza lotta. Tutta
amara di amarezza mortale, lacerò il foglio macchiato della parola impossibile
a mantenere, impossibile a scrivere sinceramente. Spenta da capo la luce,
accusò di crudeltà Iddio se mai esistesse, pianse, pianse nelle volontarie
tenebre, senza freno.
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