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L’orologio di San Pietro suonò le otto.
Benedetto lasciò un piccolo gruppo di persone allo sbocco della via di Porta
Angelica, entrò solo nel colonnato del Bernini, si avviò lentamente verso il
Portone di bronzo, sostò ad ascoltar il rumore delle fontane, a guardar i
grappoli di fiamme dei quattro candelabri intorno all’obelisco, e tremolo,
opaco sul volto della luna, il sommo getto della fontana di sinistra. Fra
cinque, fra dieci minuti, forse fra un quarto d’ora egli si sarebbe trovato
alla presenza del Papa. Il suo pensiero era fermo e vibrante in questo apice
come nell’apice suo la saliente acqua viva della fontana. La piazza era vuota.
Nessuno lo avrebbe visto entrare in Vaticano fuorché la corona spettrale dei
Santi, ritti là in faccia sopra il giro dell’altro colonnato. I Santi e le
fontane gli dicevano insieme che a lui pareva di vivere un’ora solenne ma che
questo atomo del tempo ed egli stesso ed il Pontefice passerebbero in breve, si
perderebbero per sempre nel regno dell’oblio, continuando le fontane il loro
monotono lamento e i Santi la loro tacita contemplazione. Egli sentiva invece
che la parola della Verità è parola di vita eterna; e raccolto un’ultima volta
in sé stesso, chiusi gli occhi, pregò intensamente, come da due giorni pregava,
che lo Spirito gliela suscitasse, davanti al Papa, nel petto, gliela portasse
alle labbra.
Egli aspettava qualcuno, fra le otto e
le otto e un quarto. Le otto e un quarto erano suonate ma nessuno compariva. Si
voltò a guardar il Portone di bronzo. Non n’era aperto che uno sportello e si
vedeva luce nell’interno. Vi entravano di tempo in tempo, come spensierati
moscerini nelle fauci di un leone, gruppetti di genterella minuta. Finalmente
vi si affacciò dal di dentro un prete, accennando. Benedetto si avvicinò.
Quegli disse:
«Lei viene per Sant’Anselmo?»
Era la domanda convenuta. Come Benedetto
gli ebbe risposto di sì, il prete gli fece segno di entrare.
«Favorisca» diss’egli.
Benedetto lo seguì. Passarono fra le guardie pontificie che salutarono
militarmente il prete. Svoltarono a destra, salirono la Scala Pia. All’entrata
del Cortile di San Damaso altre guardie, altri saluti, un ordine del prete,
dato sottovoce; Benedetto non lo intese. Attraversarono il Cortile lasciando a
sinistra la porta della Biblioteca, a destra la porta per la quale si accede
alle stanze del Papa. In alto, le vetrate delle logge sfavillavano alla luna.
Benedetto, che ricordava un’udienza, avuta dal Pontefice defunto, si meravigliò
della strana via che gli si faceva prendere. Attraversato il cortile in linea
retta, il prete si avviò per l’andito stretto che conduce alla scaletta dei
Mosaici, e si fermò davanti all’uscio che si apre a destra, ove scende la scala
del Triangolo.
«Lei conosce il Vaticano?» diss’egli.
«Conosco i musei e le logge» rispose
Benedetto «e sono stato ricevuto dal predecessore del Pontefice attuale nel suo
appartamento. Altro non conosco.»
«Qui non è stato mai?»
«Mai.»
Il prete si mise primo per la scaletta
debolmente illuminata da lampadine elettriche. A un tratto, dove la prima
branca della scaletta monta sur un pianerottolo, le lampadine si spensero.
Benedetto, fermatosi con un piede sul pianerottolo, udì la sua guida salir di
corsa una scala, a destra. Poi non udì più nulla. Pensò che la luce fosse
mancata per caso, che il prete fosse salito per farla riaccendere. Attese.
Nessun lume, nessun passo, nessuna voce. Montò sul pianerottolo; sentì a
sinistra, tentando l’aria buia, una parete; procedette verso destra, sempre a
tentoni; si accorse, urtandovi il piede, di due diverse branche di scala che
salivano dal pianerottolo. Attese ancora, non dubitò che il prete non avesse a
ritornare.
Ma cinque, dieci minuti passarono e il
prete non ritornava. Che poteva essere accaduto? Si era voluto ingannarlo,
deriderlo? Ma perché? Benedetto s’interdisse un sospetto inutile a discutere. Pensò
invece al partito da prendere. Aspettare ancora non gli parve ragionevole. Era
da ridiscendere? Era da salire? In quest’ultimo caso, per quale delle due vie?
Si raccolse in sé stesso interrogando l’Onnipresente.
Ridiscendere, no. Gli ripugnava. Salì a caso
una delle scale, quella che conduce alle camere dei domestici. Era corta,
Benedetto trovò subito un altro pianerottolo. Ora egli aveva udito il prete
salir di corsa e di seguito molti scalini, il rumore de’ suoi passi si era
perduto molto in alto. Ridiscese, tentò l’altra scala. Era più lunga. Il prete
doveva avere salito quella. Decise di seguire il prete.
Giunto alla sommità, sbucò da una
porticina in una loggia illuminata dalla luna. Si guardò attorno. A destra,
quasi immediatamente, una cancellata partiva quella dalla loggia. Le due vi
s’incontravano ad angolo retto. A sinistra la loggia terminava, alquanto
lontano, a una porta chiusa. La luna piena batteva per le grandi vetrate sul
pavimento, mostrava i fianchi del Cortile di San Damaso e nello sfondo, tra le
due grandi ali scure del Palazzo, umili tetti, gli alberi di villa Celsi, le
alture di Sant’Onofrio. Tanto la porta di sinistra quanto la cancellata di
destra parevano chiuse. Benedetto guardò, guardò, a destra e a sinistra.
Impronte antiche gli venivano ricomparendo poco a poco nella memoria. Sì, in
quella loggia egli era stato ancora, aveva veduto quella cancellata recandosi
con un suo conoscente, lettore della Vaticana, a visitare la Galleria delle
lapidi, la via Appia del Vaticano. Ecco, sì, adesso ricordava bene. La porta di
sinistra, in fondo alla loggia, doveva mettere agli appartamenti del cardinale
segretario di Stato. La loggia oltre la cancellata era la loggia di Giovanni da
Udine, le grandi finestre colle inferriate che mettevano nella loggia di
Giovanni da Udine erano le finestre dell’appartamento Borgia, l’entrata della
Galleria delle lapidi doveva aprirsi proprio nell’angolo. Allora presso la
cancellata ci stava uno svizzero. Adesso non c’era nessuno. Tutto era deserto,
a destra e a sinistra, tutto era silenzio.
A tentar la porta del cardinale
segretario di Stato non era da pensare. Benedetto spinse la cancellata. Era
aperta. Sostò, si trovò davanti all’entrata della Galleria delle lapidi. Stette
ancora in ascolto. Silenzio profondo. Gli parve che una voce interna gli
dicesse: «Sali, entra.» Salì, franco, i cinque gradini.
La via Appia del Vaticano, larga forse
quanto l’antica, non aveva una lampada. Fiochi chiarori ne rigavano il
pavimento, a intervalli, dalle finestre che fra le lapidi e i cippi e i
sarcofaghi pagani guardano Roma. Da quelle della parete cristiana, che guardano
il cortile del Belvedere, non entrava lume. Il fondo lontano, verso il museo
Chiaramonti, si perdeva nelle tenebre più nere. Allora, sentendosi nel tacito cuore
del Vaticano immenso, Benedetto ebbe un assalto di terrore sacro. Si accostò a
una grande finestra onde si vedeva Castel Sant’Angelo, infiniti dispersi lumi
nel piano, e all’orizzonte, più alti, più splendenti, quelli del Quirinale. La
vista, non di Roma illuminata, ma di una panca bassa e sottile, coperta di tela
verde, che correva lungo i cippi e i sarcofaghi, gli quietò lo spirito.
Intravvide poi nell’ombra un padiglione mezzo disfatto. Che poteva essere?
Anche lungo la parete opposta correva una panca eguale all’altra. Procedendo,
urtò in qualche cosa che trovò essere un seggiolone a bracciuoli. Adesso al
terrore era sottentrato un proposito sicuro. La interna voce imperiosa che gli
aveva prima detto di entrare, ora gli diceva: «procedi». Glielo disse così
chiaro, così forte, che un subito bagliore gl’illuminò la memoria.
Si percosse la fronte. Nella Visione
egli si era visto a colloquio col Papa. Questo non lo aveva potuto dimenticare
mai. Bensì aveva dimenticato, e adesso glien’era ritornata la memoria in un
lampo, che lo guidava per il Vaticano al Papa uno spirito. Procedette lungo la
parete di sinistra presso la quale aveva urtato nel seggiolone. Si teneva
sicuro che giunto al fondo della Galleria avrebbe trovato un’uscita e,
finalmente, luce. Che nel fondo ci fosse il cancello del museo Chiaramonti non
ricordava. Procedeva appoggiando spesso la mano alla parete, alle lapidi. A un
tratto sentì che non toccava più né marmo né muro. Batté leggermente la parete
col pugno. Era legno, una porta. Si fermò involontariamente, sospeso. Un passo
suonò dall’interno, una chiave girò nella toppa, una lama di luce fendette di
sghembo la Galleria, si allargò; comparve una figura nera, il prete che aveva
abbandonato Benedetto sulla scala. Egli uscì con un atto rapido, richiuse la
porta, disse a Benedetto come se niente fosse stato:
«Lei sta per trovarsi alla presenza di
Sua Santità.»
Lo fece entrare e chiuse la porta
daccapo, rimanendo fuori.
Benedetto, entrando, non vide che un
tavolino, una lucernetta col paralume verde, una figura bianca seduta in faccia
a lui, dietro il tavolino. Cadde ginocchioni.
La Figura Bianca stese un braccio e
disse:
«Alzati. Come sei venuto?»
Il viso incorniciato di capelli grigi,
singolarmente dolce, aveva una espressione di stupore. La voce, dall’accento
meridionale, era commossa.
Benedetto si alzò e rispose:
«Dal Portone di bronzo fino a un luogo
che non so indicare sono venuto col sacerdote che stava presso Vostra Santità;
poi sono venuto solo.»
«Conoscevi il Vaticano? Ti hanno detto che
mi avresti trovato qui?»
Quando Benedetto gli ebbe risposto che
aveva visitato anni prima i musei vaticani, le logge e la Galleria lapidaria
una sola volta, che alla logge non era salito dal Cortile di San Damaso, che non
sapeva affatto dove avrebbe trovato il Sommo Pontefice, questi tacque un
momento, pensoso; poi disse benignamente, affettuosamente, indicandogli una
sedia in faccia a lui:
«Siedi, figlio mio.»
Se Benedetto non fosse stato assorto nel
volto ascetico e benigno del Papa, avrebbe, mentre il suo angusto interlocutore
stava raccogliendo alcune carte sparse sul tavolino, girato lo sguardo non
senza meraviglia per quella strana sala di ricevimento, un polveroso caos di
vecchi quadri, di vecchi libri, di vecchi mobili, un’anticamera, si sarebbe
detto, di qualche biblioteca, di qualche museo dove si fossero intraprese opere
di riordino. Ma egli era assorto nel volto del Papa, nel magro, cereo volto che
aveva una espressione ineffabile di purezza e di bontà. Si avvicinò, piegò il
ginocchio, baciò la mano che il Santo Padre gli stese dicendo con gravità
soave:
«Non mihi, sed Petro.»
Quindi sedette. Il Papa gli porse un
foglio, gli avvicinò la lucernetta.
«Guarda» diss’egli. «Conosci la
scrittura?»
Benedetto guardò, trasalì, non poté
frenare un’esclamazione di mesta riverenza.
«Sì» rispose «è la scrittura di un santo
prete che ho molto amato, che è morto e si chiamava don Giuseppe Flores.»
Sua Santità riprese:
«Adesso leggi. Ad alta voce.»
Benedetto lesse.
«Monsignore
Affido al mio Vescovo il plico
suggellato, chiuso insieme a questo foglietto in una busta recante l’indirizzo
a Lei. Lo lasciò a me per essere aperto dopo la sua morte, come sopra vi è
scritto, il signor Piero Maironi, ben conosciuto da Lei, prima di scomparire
dal mondo. S’egli ancora viva o sia passato di vita né so né ho modo di sapere.
Il plico deve contenere il racconto di una visione di carattere soprannaturale
che il Maironi ebbe nel ritornare a Dio dal fuoco di una passione colpevole.
Sperai allora che Iddio lo avesse veramente eletto per ministro di qualche
singolare opera Sua. Sperai che la santità dell’opera verrebbe confermata dopo
la morte del Maironi dalla lettura di questo documento, che se ne rivelerebbe
un carattere profetico. Lo sperai benché mi fossi studiato, per prudenza di
nascondere al Maironi stesso la mie speranze segrete.
Due anni sono trascorsi dal giorno in
cui egli scomparve e nulla si è mai saputo di lui. Quando Monsignore, ella
starà leggendo quello che adesso io scrivo, sarò scomparso anch’io. La prego di
volersi sostituire a me in questa custodia religiosa. Ella ne disporrà secondo
la coscienza Sua come crederà meglio.
E preghi per l’anima del
Suo povero
don Giuseppe
Flores.»
Benedetto depose lo scritto e guardò il
Pontefice in viso, aspettando.
«Sei tu Pietro Maironi?» disse questi.
«Sì, Santità.»
Il Pontefice sorrise con bontà.
«Intanto» diss’egli «mi rallegro che
vivi. Quel Vescovo ti suppose morto, aperse il plico e credette di doverlo
rimettere al Vicario di Cristo. Questo avvenne circa sei mesi sono, vivendo il
mio santo Predecessore che ne parlò ad alcuni cardinali e anche a me. Poi si è
saputo che vivevi, e dove e come. Ora ti devo movere alcune domande. Ti esorto
a rispondermi la esatta verità.»
Il Pontefice fermò gli occhi gravi negli
occhi di Benedetto che piegò lievemente il capo.
«Qui hai scritto»diss’egli «che stando
in quella piccola chiesa veneta ti sei visto in Vaticano a colloquio col Papa.
Cosa ricordi di questa parte della tua visione?»
«La mia visione» rispose Benedetto «nel
tempo che passai a Santa Scolastica, circa tre anni, mi si venne spezzando
nelle memoria, anche perché il mio maestro spirituale di Santa Scolastica, come
il povero don Giuseppe Flores, mi ha sempre consigliato di non tenerne conto. Alcune
parti ne restano nette, altre si oscurarono. Che mi ero veduto in Vaticano a
fronte del Sommo Pontefice, mi restò sempre fisso nella mente; ma non più di
così. Invece, pochi momenti sono, nella galleria buia dalla quale sono entrato
qua, mi risovvenni improvvisamente che nella Visione io ero guidato al
Pontefice da uno spirito. Me ne risovvenni quando trovandomi solo, di notte, al
buio, in un luogo ignoto o quasi ignoto perché c’ero stato una volta sola molti
anni addietro, senz’avere un’idea della direzione che avrei dovuto tenere, fui
per ritornare sui miei passi e una voce interna, molto chiara, molto forte, mi
disse di andare avanti.»
«E quando hai bussato alla porta» chiese
il Papa «sapevi di trovarmi qui? Sapevi di bussare alla porta della Biblioteca?»
«No, Santità. Non intendevo neppure di
bussare. Ero al buio, non vedevo niente, intendevo di saggiare colla mano la
parete.»
Il Papa stette alquanto sopra pensiero e
poi osservò che nel manoscritto ci stava pure: «prima mi guidava un uomo vestito
di nero.» Di questo, Benedetto non aveva memoria.
«Sai» riprese il Papa «che il profetare
non è, per sé solo, sufficiente prova di santità. Sai che si possono avere, che
si sono avute visioni profetiche, non dico per opera di spiriti maligni, noi ne
sappiamo troppo poco per poterlo dire, ma insomma per effetto di forze occulte,
forze insite alla natura umana, le quali, a ogni modo, non hanno che fare colla
santità. Puoi dirmi le disposizioni dell’anima tua quando hai avuto la
Visione?»
«Sentivo» rispose Benedetto «un
amarissimo dolore di essermi allontanato da Dio, di averne respinto i richiami,
una gratitudine infinita per la Sua paziente bontà, un infinito desiderio di
Cristo. Mi ero appena viste nella mente, proprio viste, proprio distinte, bianche
sopra un fondo nero, queste parole del Vangelo che prima, nel tempo buono, mi
erano state tanto care: «Magister adest et vocat te.» Don Giuseppe
Flores celebrava e la Messa era presso alla fine quando, stando in preghiera,
con gli occhi coperti dalle mani, ebbi la Visione; ma istantanea, fulminea!»
Benedetto ansava nel ritorno violento
delle memorie.
«Ha potuto essere un’illusione»
diss’egli «Opera di spiriti maligni, no.»
«Gli spiriti maligni» disse il Pontefice
«possono trasfigurarsi in angeli di luce. Possono avere operato allora contro
lo spirito buono ch’era in te. Ti sei inorgoglito poi, di questa visione?»
Benedetto piegò il capo e pensò
alquanto.
«Forse una volta» diss’egli «per un
momento, a Santa Scolastica, quando il mio maestro, a nome dell’Abate, mi
offerse una veste di converso, la veste che poi mi fu tolta a Jenne. Allora
pensai per un momento che questa offerta inattesa confermasse l’ultima parte
della Visione e n’ebbi un moto di compiacenza, mi stimai oggetto di una
predilezione divina. Ne domandai subito perdono a Dio e adesso ne domando
perdono a Vostra Santità.»
Il Pontefice non parlò, ma la sua mano
si alzò spiegata e ridiscese in un atto di indulgenza. Egli si diede poi a
maneggiare le carte diverse che aveva sul tavolino, parve consultarne
attentamente più d’una. Quindi le posò, le raccolse, le fece da banda, riprese
a parlare.
«Figlio mio» diss’egli «ti devo
domandare altre cose. Hai nominato Jenne. Io neppure non sapevo che esistesse,
questo Jenne. Me lo hanno descritto. Diciamo il vero, non si capisce perché tu
ti sia andato a cacciare a Jenne.»
Benedetto sorrise lievemente ma non
volle discolparsi, interrompere il Papa, il quale continuò:
«È stata un’idea disgraziata, perché chi
può dir bene cosa succede a Jenne? Sai di aver avuto lassù della gente che ti
vedeva di mal occhio?»
Benedetto pregò semplicemente Sua
Santità che lo dispensasse dal rispondere.
«Ti capisco» rispose il Papa «e debbo
dire che la tua preghiera è cristiana. Tu non dirai niente ma io non posso
tacere che sei stato accusato di molte cose. Lo sai?»
Benedetto sapeva di un’accusa sola o
almeno ne dubitava. Il Papa aveva l’aria più imbarazzata di lui. Egli era
sereno.
«Ti accusano» ripigliò il Papa «di
esserti spacciato, a Jenne, per un taumaturgo e di essere stato causa, per
questi tuoi vanti, che un disgraziato morisse in casa tua. Si arriva persino a
dire ch’egli è morto per certi beveraggi che gli hai dati. Ti accusano di aver
predicato al popolo piuttosto da protestante che da cattolico e anche...»
Il Santo Padre esitò. Al suo pudore
verginale ripugnava persino accennare a certe cose.
«Di relazioni non lecite» disse «con la
maestra del paese. Cosa rispondi, figlio mio?»
«Santo Padre» rispose Benedetto,
tranquillo, «lo Spirito risponde per me nel Suo cuore.»
Il Pontefice lo guardò, attonito, ma non
solamente attonito; anche un poco turbato, come se Benedetto gli avesse letto
nell’anima. Il viso gli si dipinse di un lieve rossore.
«Spiegati» diss’egli.
«Iddio mi dona di leggere nel Suo cuore
che Lei non crede ad alcuna di quelle accuse.»
A queste parole di Benedetto il Papa
contrasse lievemente le sopracciglia.
«Adesso» riprese Benedetto «Vostra
Santità pensa che io mi attribuisca una chiaroveggenza miracolosa. No, è una
cosa che vedo nel Suo viso, che sento nella Sua voce, da povero uomo comune
quale sono.»
«Forse tu sai» esclamò il Papa«chi è
stato in questi giorni da me!»
Egli aveva fatto chiamare a Roma
l’arciprete di Jenne, lo aveva interrogato su Benedetto. L’arciprete, trovato
un Papa di suo genio, un Papa ben diverso dai due zelanti che lo avevano
intimorito a Jenne, non aveva perduta l’occasione di mettersi facilmente in
pace colla propria coscienza, aveva dato sfogo ai rimorsi lodando e rilodando.
Benedetto non ne sapeva niente.
«No» rispose «non lo so.»
Il Pontefice tacque, ma il suo viso, le
mani, la intera persona, tradivano una viva inquietudine. Egli si abbandonò
finalmente sulla spalliera della seggiola, chinò il capo sul petto, stese le
braccia al tavolino e appoggiatevi le mani, una presso all’altra, pensò.
Mentre pensava, immobile, fissi gli
occhi nel vuoto, la fiamma della lucernina a petrolio salì fumigando, rossa,
nel tubo. Egli non se n’avvide subito. Quando se n’avvide la regolò e poi ruppe
il silenzio.
«Credi tu» diss’egli «avere veramente
una missione?»
Benedetto rispose, con una espressione
di fervore umile:
«Sì, lo credo.»
«E perché lo credi?»
«Santità, perché ciascuno viene al mondo
con una missione scritta nella sua natura. Quand’anche non avessi avuto visioni
né altri segni straordinari, la mia natura ch’è religiosa mi imporrebbe il
dovere di un’azione religiosa. Come posso dirlo? Ecco, lo dirò...» Qui la voce
di Benedetto tremò di emozione «...come non l’ho detto a nessuno. Io credo, io
so che Dio è il nostro Padre di tutti, ma io sento nella mia natura la Sua
paternità. Quasi non è un dovere il mio, è un sentimento di figlio.»
«E credi avere il còmpito di esercitarla
qui, adesso, un’azione religiosa?»
Benedetto giunse le mani come se
implorasse già di venire ascoltato.
«Sì» diss’egli «anche qui, anche
adesso.»
Ciò detto, pose un ginocchio a terra
tenendo sempre giunte le mani.
«Alzati» disse il Santo Padre. «Di’
liberamente quello che lo Spirito ti consiglia.»
Benedetto non si alzò.
«Mi perdoni» diss’egli «io devo parlare
al solo Pontefice e qui non mi ascolta il solo Pontefice!»
Il Papa trasalì, lo interrogò con gli
occhi, severo.
Benedetto porse un poco il mento,
inarcando le sopracciglia, verso una porta grande alle spalle del Papa.
Questi prese un campanello di argento
che stava sul tavolino, accennò imperiosamente a Benedetto di alzarsi e suonò.
Ricomparve dalla porta della Galleria il prete di prima. Il Papa gli ordinò di
far venire in Galleria don Teofilo, il cameriere fedele che aveva portato con
sé dalla sua sede arcivescovile del Mezzogiorno. Venuto don Teofilo, egli
andrebbe ad attendere Sua Santità nelle sale della Biblioteca.
«Ripasserai di qua» diss’egli.
Parecchi minuti trascorsero nell’attesa
silenziosa che colui rientrasse. Il Pontefice, pensoso, non alzò mai gli occhi
dal tavolino. Benedetto, in piedi, teneva chiusi i suoi. Li aperse quando
rientrò il prete. Uscito che fu costui per la porta sospetta, il Papa accennò
con la mano e Benedetto parlò, a voce bassa. Il Pontefice lo ascoltava
stringendo i bracciuoli della sedia, pôrta in avanti la persona e chino il
viso.
«Santo Padre» disse Benedetto «la Chiesa
è inferma. Quattro spiriti maligni sono entrati nel suo corpo per farvi guerra
allo Spirito Santo. Uno è lo spirito di menzogna. Anche lo spirito di menzogna
si trasfigura in angelo di luce e molti pastori, molti maestri della Chiesa,
molti fedeli buoni e pii ascoltano devotamente lo spirito di menzogna credendo
ascoltare un angelo. Cristo ha detto: «io sono la Verità» e molti nella Chiesa,
anche buoni, anche pii, scindono la Verità nel loro cuore, non hanno riverenza
per la Verità che non chiamano religiosa, temono che la verità distrugga la
verità, pongono Dio contro Dio, preferiscono le tenebre alla luce e così
ammaestrano gli uomini. Si dicono fedeli e non comprendono quanto scarsa e
codarda è la loro fede, quanto è loro straniero lo spirito dell’apostolo che
tutto scruta. Adoratori della lettera, vogliono costringere gli adulti a un
cibo d’infanti che gli adulti respingono, non comprendono che se Dio è infinito
e immutabile, l’uomo però se ne fa un’idea sempre più grande di secolo in
secolo e che di tutta la Verità Divina si può dire così. Essi sono causa di una
funesta perversione della Fede, che corrompe tutta la vita religiosa; perché il
cristiano che con uno sforzo si è piegato ad accettare quello ch’essi accettano
e a respingere quello che respingono, crede aver già fatto il più per servire
Iddio, mentre ha fatto meno che niente e gli resta di vivere la fede nella
parola di Cristo, nella dottrina di Cristo, gli resta di vivere il fiat
voluntas tua, che è tutto. Santo Padre, oggi pochi cristiani sanno
che la religione non è principalmente adesione dell’intelletto a formole di
verità ma che è principalmente azione e vita secondo questa verità, e che alla
fede vera non rispondono solamente doveri religiosi negativi e obblighi verso
l’autorità ecclesiastica. E quelli che lo sanno, quelli che non scindono la
Verità nel loro cuore, quelli che hanno il culto supremo di Dio verità, che ardono
di una fede impavida in Cristo, nella Chiesa e nella Verità, ne conosco, Santo
Padre!, quelli sono combattuti acremente, sono diffamati come eretici, sono
costretti al silenzio, tutto per opera dello Spirito di menzogna, che lavora da
secoli nella Chiesa una tradizione d’inganno per la quale coloro che oggi lo
servono si credono di servire Iddio, come lo credettero i primi persecutori dei
cristiani. Santità...»
Qui Benedetto pose un ginocchio a terra.
Il Papa non si mosse. Pareva aver abbassato il capo ancora di più. Il zucchetto
bianco era quasi tutto nel lume della lucernina.
«...io ho letto proprio oggi grandi
parole di Lei ai Suoi diocesani antichi, sulla molteplice rivelazione di Dio
Verità nella Fede e nella Scienza, e anche direttamente, misteriosamente,
nell’anima umana. Santo Padre, molti, moltissimi cuori di sacerdoti e di laici
appartengono allo Spirito Santo; la Spirito di menzogna non ha potuto entrarvi
neppure sotto una veste angelica. Dica una parola, Santo Padre, faccia un atto
che rialzi questi cuori devoti alla Santa Sede del Pontefice romano! Onori
davanti a tutta la Chiesa qualcuno di questi uomini, di questi sacerdoti che
sono combattuti dallo Spirito di menzogna, ne sollevi qualcuno all’episcopato,
ne sollevi qualcuno al Sacro Collegio! Anche questo, Santo Padre! Consigli
esegeti e teologi, se è necessario, a camminare prudenti poiché la scienza non
progredisce che a patto di essere prudente; ma non lasci colpire dall’Indice né
dal Sant’Uffizio per qualche soverchio ardimento uomini che sono l’onore della
Chiesa, che hanno la mente piena di Verità e il cuore pieno di Cristo, che
combattono per difesa della fede cattolica! E poiché Vostra Santità ha detto
che Iddio rivela le sue verità anche nel segreto delle anime, non lasci
moltiplicare le divozioni esterne, che bastano, raccomandi ai Pastori la
pratica e l’insegnamento della preghiera interiore!»
Benedetto tacque un momento, spossato.
Il Papa alzò il viso, guardò l’uomo inginocchiato che lo fissava con occhi
dolorosi, luminosi sotto le sopracciglie contratte, vibrando nelle mani giunte
dove si appuntava lo sforzo dello spirito. Il viso del Papa tradiva una
commozione intensa. Egli voleva dire a Benedetto che si alzasse, che sedesse; e
non parlò per timore di tradire la commozione anche nella voce. Insistette a
cenni, tanto che Benedetto si alzò e presa la sua seggiola, appoggiatevi alla
spalliera le mani ancora giunte, ricominciò a parlare.
«Se il clero insegna poco al popolo la
preghiera interiore che risana l’anima quanto certe superstizioni la
corrompono, è per causa del secondo spirito maligno che infesta la Chiesa
trasfigurato in angelo di luce. Questo è lo spirito di dominazione del clero. A
quei sacerdoti che hanno lo spirito di dominazione non piace che le anime
comunichino direttamente e normalmente con Dio per domandarne consiglio e
direzione. A buon fine! Il Maligno inganna, così la loro coscienza; a buon
fine! Ma le vogliono dirigere essi in qualità di mediatori e queste anime
diventano fiacche, timide, servili. Non saranno molte, forse; i peggiori
maleficî dello spirito di dominazione sono diversi. Egli ha soppressa l’antica
santa libertà cattolica. Egli cerca fare all’obbedienza, anche quando non è
dovuta per legge, la prima delle virtù. Egli vorrebbe imporre sottomissioni non
obbligatorie, ritrattazioni contro coscienza, dovunque un gruppo d’uomini si
associa per un’opera buona prenderne il comando, e, se declinano il comando,
rifiutar loro l’aiuto. Egli tende a portare l’autorità religiosa anche fuori
del campo religioso. Lo sa l’Italia, Santo Padre. Ma cosa è l’Italia? Non è per
essa che io parlo, è per tutto il mondo cattolico. Santo padre, Ella forse non
lo avrà provato ancora, ma lo spirito di dominazione vorrà esercitarsi anche
sopra di Lei. Non ceda, Santo Padre! Ella è il Governatore della Chiesa, non
permetta che altri governi Lei, non sia il Suo potere un guanto per invisibili
mani altrui. Abbia consiglieri pubblici e siano i vescovi raccolti spesso nei
Concilii nazionali e faccia partecipare il popolo alla elezione dei vescovi
scegliendo uomini amati e riveriti dal popolo, e i vescovi si mescolino al
popolo non solamente per passare sotto archi di trionfo e farsi salutare dal
suono delle campane ma per conoscere le turbe e per edificarle a imitazione di
Cristo, invece di starsene chiusi da principi orientali negli episcopii, come
tanti fanno. E lasci loro tutta l’autorità che è compatibile con quella di
Pietro!
Santità, posso parlare ancora?»
Il Papa, che da quando Benedetto aveva
ricominciato a parlare gli teneva gli occhi in viso, rispose con un lieve
abbassar del capo.
«Il terzo spirito maligno» riprese
Benedetto «che corrompe la Chiesa, non si trasfigura in angelo di luce perché
saprebbe di non poter ingannare, si accontenta di vestire una comune onestà
umana. È lo spirito di avarizia. Il Vicario di Cristo vive in questa reggia
come visse nel suo episcopio, con un cuore puro di povero. Molti Pastori
venerandi vivono nella Chiesa con eguale cuore, ma lo spirito di povertà non vi
è bastantemente insegnato come Cristo lo insegnò, le labbra dei ministri di
Cristo sono troppo spesso compiacenti ai cupidi dell’avere. Quale di essi piega
la fronte con ossequio a chi ha molto solamente perché ha molto, quale lusinga
con la lingua chi agogna molto, e il godere la pompa e gli onori della
ricchezza, l’aderire con l’anima alle comodità della ricchezza pare lecito a
troppi predicatori della parola e degli esempî di Cristo. Santo padre, richiami
il clero a meglio usare verso i cupidi dell’avere, sieno ricchi, sieno poveri,
la carità che ammonisce, che minaccia, che rampogna. Santo Padre!»
Benedetto tacque, fissando il Papa con
una espressione intensa di appello.
«Ebbene?» mormorò il Papa.
Benedetto allargò le braccia e riprese:
«Lo Spirito mi sforza a dire di più. Non
è opera di un giorno ma si prepari il giorno e non si lasci questo còmpito ai
nemici di Dio e della Chiesa, si prepari il giorno in cui i sacerdoti di Cristo
dieno l’esempio della effettiva povertà, vivano poveri per obbligo come per
obbligo vivono casti, e servano loro di norma per questo le parole di Cristo ai
Settantadue. Il Signore circonderà gli ultimi fra loro di tale onore, di tale
riverenza quale ora non è nel cuore della gente intorno ai Principi della
Chiesa. Saranno pochi ma la luce del mondo. Santo Padre, lo sono essi oggi?
Qualcuno lo è; i più non sono né luce né tenebre.»
Qui, per la prima volta, il Pontefice
assentì del capo mestamente.
«Il quarto spirito maligno» proseguì
Benedetto «è lo spirito d’immobilità. Questo si trasfigura in angelo di luce.
Anche i cattolici, ecclesiastici e laici, dominati dallo spirito d’immobilità
credono piacere a Dio come gli ebrei zelanti che fecero crocifiggere Cristo.
Tutti i clericali, Santità, anzi tutti gli uomini religiosi che oggi avversano
il cattolicismo progressista, avrebbero fatto crocifiggere Cristo in buona
fede, nel nome di Mosè. Sono idolatri del passato, tutto vorrebbero immutabile
nella Chiesa, sino alle forme del linguaggio pontificio, sino ai flabelli che
ripugnano al cuore sacerdotale di Vostra Santità, sino alle tradizioni stolte
per le quali non è lecito a un cardinale di uscire a piedi e sarebbe scandaloso
che visitasse i poveri nelle loro case. È lo spirito d’immobilità che volendo
conservare cose impossibili a conservare ci attira le derisioni degl’increduli;
colpa grave davanti a Dio!»
Il petrolio veniva mancando nella
lucerna, il cerchio delle tenebre si stringeva, si addensava intorno e sopra la
breve sfera di luce in cui si disegnavano, l’una in faccia all’altra, la bianca
figura del Pontefice seduto e la bruna di Benedetto in piedi.
«Contro lo spirito d’immobilità» disse
questi «io la supplico di non permettere che sieno posti all’Indice i libri di
Giovanni Selva.»
Quindi, posta la seggiola da banda,
s’inginocchiò nuovamente, stese le mani al Pontefice, parlò più trepido e più
acceso:
«Vicario di Cristo, io La scongiuro di
un’altra cosa. Sono un peccatore indegno di venire paragonato ai Santi ma lo
Spirito di Dio può parlare anche per la bocca più vile. Se una donna ha potuto
scongiurare un Papa di venire a Roma, io scongiuro Vostra santità di uscire dal
Vaticano. Uscite, Santo Padre; ma la prima volta, almeno la prima volta, uscite
per un’opera del vostro ministero! Lazzaro soffre e muore ogni giorno, andate a
vedere Lazzaro. Cristo chiama soccorso in tutte le povere creature umane che
soffrono. Ho vista dalla Galleria delle lapidi i lumi che fronteggiano un altro
palazzo di Roma. Se il dolore umano chiama in nome di Cristo, là si risponderà
forse: «no» ma si va. Dal Vaticano si risponde «sì» a Cristo, ma non si va. Che
dirà Cristo, Santo Padre, nell’ora terribile? Queste parole mie, se fossero
conosciute dal mondo, mi frutterebbero vituperî da chi più si professa devoto
al Vaticano; ma per vituperi e fulmini che mi si scagliassero non griderei io
fino alla morte: che dirà Cristo? Che dirà Cristo? A Lui mi appello.»
La fiammella della lucerna mancava,
mancava; nella breve sfera di luce fioca che le tenebre premevano non si vedeva
quasi più di Benedetto che le mani stese, non si vedeva quasi più del Papa che
la destra posata sul campanello d’argento. Appena Benedetto tacque, il Santo
Padre gli ordinò di alzarsi, poi scosse il campanello due volte. La porta della
Galleria si aperse, entrò il fido cameriere già popolare in Vaticano col nome di
don Teofilo.
«Teofilo» disse il Papa, «in Galleria, è
riaccesa la luce?»
«Sì, Santità.»
«Allora passa in Biblioteca dove
troverai monsignore. Digli che venga qua, che mi aspetti. E tu provvedigli
un’altra lucerna.»
Ciò detto, Sua Santità si alzò. Era piccolo
di statura e tuttavia un po’ curvo. Mosse verso la porta della Galleria
accennando a Benedetto di seguirlo. Don Teofilo uscì dalla parte opposta.
Triste presagio, nella buia sala dov’eran corse tante fiammelle di parole
accese dallo Spirito, non rimase che la piccola lucernina morente.
La Galleria delle lapidi, là dove il Papa e Benedetto vi entrarono, era
semibuia. Ma nel fondo una grande lampada a riflettore illuminava l’iscrizione
commemorativa a destra della porta che mette nella loggia di Giovanni da Udine.
Fra le grandi ali di lapidi schierate da capo a fondo della Galleria, che
guardavano l’oscuro dibattito delle due anime viventi come testimoni muti che
già conoscessero i misteri di oltre tomba e del giudizio divino, il Papa si
avanzava lento, silenzioso, seguito, un passo indietro e a sinistra, da
Benedetto. Sostò un momento presso il torso del fiume Oronte, guardò dalla
finestra. Benedetto si domandò se guardasse i lumi del Quirinale, palpitò,
attendendo una parola. La parola non venne. Il Papa riprese, tacendo sempre, il
suo lento andare, con le mani congiunte dietro il dorso, e il mento appoggiato
al petto. Sostò presso al fondo, nella luce della grande lampada; parve incerto
se ritornare o procedere. A sinistra della lampada la porta della Galleria si
apriva sopra uno sfondo di notte, di luna, di colonne, di vetri, di pavimento
marmoreo. Il Papa si avviò a quella volta, scese i cinque gradini. La luna
batteva per isghembo sul pavimento rigato dalle ombre nere delle colonne,
tagliato in fondo alla loggia dall’obliquo profilo dell’ombra piena, dentro la
quale mal si discerneva il busto di Giovanni.
Il Papa percorse la loggia fino a quell’ombra, vi entrò, vi si trattenne.
Intanto Benedetto, fermatosi molti passi indietro per non avere l’aria di premere
irriverentemente nel desiderio di una risposta, mirava l’astro veleggiante fra
nuvole grandi su Roma. Mirando l’astro, domandò a sé, a qualche Invisibile che
gli fosse vicino, quasi anche allo stesso volto severo e triste della luna, se
avesse troppo osato, male osato. Si pentì subito del suo dubbio. Aveva forse
parlato egli? Oh no, le parole gli erano venute alle labbra senza meditazione,
aveva parlato lo Spirito. Chiuse gli occhi in uno sforzo di preghiera mentale
ancora levando la faccia verso l’astro, come un cieco che porgesse il viso
avido al divinato splendore di argento.
Una mano lo toccò lievemente sulla spalla. Trasalì e aperse gli occhi. Era
il Papa e il suo viso diceva come avesse finalmente maturate nel pensiero
parole che lo appagavano. Benedetto chinò il capo rispettosamente ad
ascoltarlo.
«Figlio mio» disse Sua Santità «alcune di queste cose il Signore le ha dette
da gran tempo anche nel cuore mio. Tu, Dio ti benedica, te la intendi col
Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto
intorno a me perché io mi governi con essi secondo carità e prudenza; e devo
sovratutto misurare i miei consigli, i miei comandi, alle capacità diverse,
alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un povero maestro di
scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri
e dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni e
io non posso governare la Chiesa soltanto per te e per quelli che somigliano a
te. Vedi, per esempio; Cristo ha pagato il tributo allo Stato e io, non come
Pontefice ma come cittadino, pagherei volentieri il mio tributo di omaggio là
in quel palazzo di cui hai veduto i lumi, se non temessi di offendere così i
sessanta scolari, di perdere anche una sola delle loro anime che mi sono
preziose come le altre. E così sarebbe se io facessi togliere certi libri
dall’Indice, se chiamassi nel Sacro Collegio certi uomini che hanno fama di non
essere rigidamente ortodossi, se, scoppiando un’epidemia, andassi, ex
abrupto, a visitare gli ospedali di Roma.»
«Oh Santità!» esclamò Benedetto «mi perdoni ma non è sicuro che queste anime
disposte a scandolezzarsi del Vicario di Cristo per ragioni simili poi si
salvino, e invece è sicuro che si acquisterebbero tante altre anime le quali
non si acquistano!»
«E poi» continuò il Papa come se non avesse udito «sono vecchio, sono
stanco, i cardinali non sanno chi hanno messo qui, non volevo. Sono anche
ammalato, ho certi segni di dover presto comparire davanti al mio Giudice.
Sento, figlio mio, che tu hai lo spirito buono ma il Signore non può volere da
un poveruomo come me le cose che tu dici, cose a cui non basterebbe neppure un
Pontefice giovine e valido. Però vi sono cose che anch’io, con il Suo aiuto,
potrò fare; se non le cose grandi, almeno altre cose. Le cose grandi preghiamo
il Signore che susciti chi a loro tempo le sappia fare e chi sappia bene
aiutare a farle. Figlio mio, se io mi metto da stasera a trasformare il
Vaticano, a riedificarlo, dove trovo poi Raffaello che lo dipinga? E neppure
questo Giovanni? Non dico però di non fare niente.»
Benedetto era per replicare. Il Pontefice, forse per non volersi spiegare di
più, non gliene lasciò né il modo né il tempo, gli fece una domanda gradita.
«Tu conosci Selva» diss’egli. «Privatamente, che uomo è?»
«È un giusto» si affrettò a rispondere Benedetto. «Un gran giusto. I suoi
libri sono stati denunciati alla Congregazione dell’Indice. Forse vi si
troveranno alcune opinioni ardite ma non vi è confronto fra la religiosità
calda e profonda dei libri di Selva e il formalismo freddo, misero di altri
libri che corrono, più del Vangelo, per le mani del clero. Santo Padre, la
condanna di Selva sarebbe un colpo alle energie più vive e più vitali del
Cattolicismo. La Chiesa tollera migliaia di libri ascetici stupidi che
rimpiccioliscono indegnamente l’idea di Dio nello spirito umano; non condanni
questi che la ingrandiscono!»
Le ore suonarono da lontano. Nove e mezzo. Sua Santità prese tacendo una
mano di Benedetto, la chiuse fra le sue, gli fece intendere con quella muta
stretta sensi e consensi trattenuti dalla bocca prudente. La strinse, la
scosse, l’accarezzò, la strinse ancora, disse finalmente con voce soffocata:
«Prega per me, prega che il Signore m’illumini.»
Due lagrime brillavano nei belli occhi soavi di vecchio che mai non si
macchiò di un volontario pensiero impuro, di vecchio tutto dolcezza di carità.
Benedetto non riuscì, per la commozione, a parlare.
«Vieni ancora» disse il Papa. «Dobbiamo discorrere ancora.»
«Quando, Santità?»
«Presto. Ti farò avvertire.»
Intanto l’ombra, avanzando, aveva inghiottito la Figura bianca e la Figura
nera. Sua Santità pose una mano sulla spalla di Benedetto, gli domandò
sommessamente, quasi esitante:
«Ricordi la fine della tua visione?»
Benedetto rispose, pure sottovoce, abbassando il viso:
«Nescio diem neque horam.»
«Non sono nel manoscritto» riprese Sua Santità. «Ma ricordi?»
Benedetto mormorò:
«In abito benedettino, sulla nuda terra, all’ombra di un albero.»
«Se così sarà» riprese il Santo Padre, dolcemente «ti voglio benedire per
quel momento. Allora sarò ad aspettarti in cielo.»
Benedetto s’inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell’ombra:
«Benedico te in nomine Patris
et Filii et Spiritus Sancti.»
Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve.
Benedetto rimase ginocchioni, assorto in quella benedizione che gli era
parsa venire da Cristo. Si alzò al suono di un passo nella Galleria. Pochi
momenti dopo egli scendeva, accompagnato da don Teofilo, al Portone di bronzo.
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