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«Se continui così» esclamò Carlino udendo sua sorella ordinare alla
cameriera cappello, pelliccia e guanti, «se mi lasci solo tutto il giorno, ti
giuro che ritorniamo a villa Diedo. Almeno là non saprai dove andare.»
«Ho pensato di mandarti Chieco» diss’ella. «Oggi alle due suona dalla Regina
e poi verrà da te. Addio.»
E partì senza lasciare al fratello il tempo di replicare. Il suo coupé
l’aspettava. Diede al domestico l’indirizzo del sottosegretario di Stato per
l’Interno e salì.
Era un sabato. Da più giorni Jeanne non dormiva né, quasi, mangiava. Il
martedì sera aveva saputo dall’Albacina quello che si tramava contro Piero e
come suo marito, il sottosegretario di Stato, fosse invitato dal ministro ad
unirsi a lui per avere al ministero una conversazione con quest’uomo tanto
temuto e odiato dalla corte del Sommo Pontefice, dalla fazione intransigente
che voleva prevalere in Vaticano. Ella corse da Noemi, le fece scrivere quel
biglietto, telefonò a un giovine segretario suo ammiratore di venire al Grand
Hôtel e diede a lui l’incarico di trovare la persona che consegnasse il
biglietto, perché di mandarlo a villa Mayda non era forse più in tempo. Ma
sapeva pure, questo gliel’aveva detto Noemi, che Piero era febbricitante. Pensò
di fargli trovare alla porta del ministero la sua carrozza col domestico che
aveva conosciuto Maironi a villa Diedo. Un’imprudenza; ma che le ne importava?
Niente le importava fuorché la vita cara. La partecipazione di morte della
marchesa Nene le era arrivata quella sera stessa, coll’ultima distribuzione.
Volle che Piero l’avesse subito, che potesse subito pregare per la povera
morta. Strana cosa ma vera: ella si trasfondeva in lui, dimenticando sé, la
propria incredulità, per sentire cosa dovesse sentire o desiderar egli con la
sua fede. La notte stessa il domestico le diede conto della sua missione. Le
descrisse Maironi come uno spettro, un cadavere. Ella si disperò. Sapeva del
conflitto fra il professore Mayda e sua nuora, sapeva che il professore era
chiamato molto spesso fuori di Roma, lo stimava un grande chirurgo ma non un
grande medico, immaginava che nella sua assenza la giovine signora non avrebbe
avuto un riguardo, un’attenzione al mondo per l’infermo. E sapeva dei tre soli
giorni che s’intendevano concedere dal Direttore generale. Oh non era possibile
lasciar Piero a villa Mayda! Portarlo via, bisognava! Trovargli un nascondiglio
dove né Questura né carabinieri sapessero scovarlo, dove fosse assistito bene,
con ogni cura e da un medico valente!
Non pensò a consultare i Selva. Neppure aveva detto a Noemi la propria
intenzione di mandare la carrozza al ministero. Le passò per la mente l’idea di
proporre loro che ospitassero Piero ma non le parve buona; le relazioni di
Piero con Giovanni Selva erano troppo note perché quello fosse un nascondiglio
sicuro. Dentro questa considerazione prudente fremeva una segreta gelosia di
Noemi, una gelosia di carattere particolare, non violenta, non ardente, perché
Noemi non amava Piero di un amore simile al suo, ma quasi più tormentosa perché
ella comprendeva che Piero poteva accettare il sentimento mistico di Noemi,
perché di un tale sentimento ella era incapace e anche perché non aveva una
ragione giusta di dolersi dell’amica, di rimproverarla, di sfogarsi. Un altro
possibile nascondiglio le si offerse al pensiero, l’alloggio di un vecchio
senatore suo conoscente, stato amico intimo di suo padre, molto religioso e
pieno di ammirazione affettuosa per Maironi. Afferrò quell’idea. Ora,
rivolgendosi al senatore per chiedergli nientemeno che di accogliere a casa sua
un uomo ammalato e in pericolo di arresto, le conveniva di giustificare il
proprio zelo. Ella non figurava fra i discepoli di Piero e il senatore ignorava
affatto il passato. Ma il senatore conosceva Noemi; egli era quel vecchio dai
capelli bianchi e dalla faccia rossa che si era trovato alla riunione di via
della Vite; Noemi e lui s’incontravano spesso nella «catacomba». Jeanne gli
scrisse immediatamente dicendo di farlo a nome dell’amica Noemi che non osava;
mise fuori le condizioni di salute e le circostanze che sempre per questo
riguardo consigliavano di togliere Maironi da villa Mayda; tacque del pericolo
di arresto; espose la preghiera dell’amica; soggiunse che lo stato dell’infermo
rendeva la cosa urgentissima, che se il senatore acconsentisse lo pregava di
consegnare al latore della lettera una sua carta di visita per Maironi con due
semplici parole di offerta. Chiuse domandandogli un colloquio al Senato nella
giornata e pregandolo di tacere, intanto, ogni cosa. Poi scrisse a Noemi,
l’avvertì di quanto aveva fatto a suo nome, la incaricò di ottenere da suo
cognato, se il senatore avesse dato la carta di visita, che si recasse subito
in vettura, con la detta carta di visita, a villa Mayda, che persuadesse
Maironi ad accettare l’offerta e il professore Mayda a lasciarlo partire,
servendosi delle ragioni politiche. Scritte le due lettere ebbe un accesso di
prostrazione con fenomeni così gravi che la cameriera si sgomentò. Costei non
svegliò Carlino perché Jeanne trovò la forza di vietarglielo imperiosamente ma
fece chiamare il medico senza dirlo alla signora. Il medico pure si sgomentò.
Venendo per Carlino l’aveva conosciuta nervosa; però non gli era mai accaduto
di vederla in uno stato simile, irrigidita, cadaverica, incapace di parlare.
L’accesso durò fino alle sei della mattina. Il primo segno di miglioramento fu
questo che Jeanne domandò l’ora. La cameriera, pratica, mormorò al medico
«passa» e rispose forte:
«Le sei, signora.»
La parola parve miracolosa. Jeanne ch’era stata adagiata sul letto senza
spogliarla, si alzò a sedere, smarrita sì ma padrona delle sue membra e della
sua voce. Domandò subito di Carlino, ansiosamente. Carlino dormiva, non aveva
udito nulla, non sapeva nulla. Ella respirò, disse sorridendo al medico:
«Adesso caccio Lei.»
E non ebbe pace fino a che il medico non se ne andò. La cameriera si accinse
a spogliarla; si prese prima della stupida e poi delle scuse, quasi lagrimose.
«Oh!» disse la ragazza «Lei vuol prima mandare quelle lettere! Sì, sì, le
mandi via, quelle cattive lettere, che Le hanno fatto tanto male!»
Jeanne le diede un bacio. Quella giovine l’adorava e lei pure le voleva
bene, la trattava qualche volta come una cara sorellina scioccherella.
Chiuse le due lettere, le disse di chiamare il domestico, gli diede le
istruzioni: prendere una botte, andare dal signor senatore…, via della Polveriera,
40, consegnare la lettera diretta a lui, aspettare la risposta. Se gli si
rispondesse che non c’era risposta, ritornare al Grand Hôtel e riferire.
Se invece il signor senatore gli facesse rimettere un biglietto, portarlo con
l’altra lettera, in via Arenula, a casa Selva. Un’ora dopo, il domestico venne
a riferire che tutto era stato fatto; due ore dopo, un biglietto del senatore
avvertiva Jeanne che Benedetto era già a casa sua. A mattina inoltrata venne
Noemi. Jeanne riposava, finalmente. Noemi attese che si svegliasse, le raccontò
che suo cognato si era subito recato a villa Mayda; che non vi aveva trovato il
professore il quale era partito a mezz’ora dopo mezzanotte per Napoli; che
Maironi aveva subito accettato l’offerta del senatore; che conoscendo l’umore
della persona, Giovanni non aveva creduto di farne saper niente alla giovine
signora Mayda; che aveva trovato Maironi molto giù, ma però senza febbre; per
cui era sicuro che non avrebbe sofferto del tragitto dall’Aventino a via della
Polveriera. Quel buon giardiniere lo aveva bene avviluppato, colle lagrime agli
occhi, in una grossa coperta. Forse Jeanne s’ingannava ma le pareva che Noemi,
pure mostrandole molto interesse nel parlarle di Piero, mostrandole molto
riguardo ai sentimenti di lei, le parlasse però in un tôno diverso da quello di
una volta e come un’amica che non avesse mutato linguaggio ma si fosse fatta
straniera nel cuore. Avrebb’ella forse desiderato Piero a casa Selva?
Probabile.
Da quel mercoledì mattina in poi erano state corse continue. A Palazzo
Madama si sorrideva di un riverito collega dai capelli bianchi e dalla faccia
rossa, che riceveva ogni giorno, nella sala dei telegrammi, lunghe visite di
una bella ed elegante signora. Dal Senato Jeanne correva al Grand Hôtel per
somministrare una medicina a Carlino; dal Grand Hôtel a via Arenula per
avere e dare notizie o in via Tre Pile per vedere il medico del senatore, che
aveva in cura Piero. Corse il giorno e lagrime la notte; lagrime di angoscia
per lui consumato da un recondito male invincibile, ripreso dalla febbre dopo
ventiquattr’ore di apiressia perfetta. Anche altre lagrime, altre crucciose
lagrime per le accuse ch’erano state sparse fra i discepoli e gli amici di
Piero e non da tutti respinte. Ella n’era informata da Noemi. Le accuse che
riguardavano presunti amori di Piero a Jenne non eran credute, ma era invece
creduto da molti ch’egli avesse in Roma relazioni segrete con una signora
maritata della quale però nessuno sapeva il nome. Che fossero relazioni tanto
colpevoli quanto dicevano i calunniatori non si credeva. I più fedeli non
credevano neppure a un legame ideale; ma erano pochi. Una volta Noemi, nel
riferire a Jeanne certe defezioni, certe freddezze, ruppe improvvisamente in
pianto. Jeanne fremette, si rabbuiò; vide allora negli occhi dell’amica uno
sgomento tanto supplice che, trapassando dalla collera gelosa a un impeto di
affetti senza nome, le aperse le braccia, se la strinse al seno. Questo era
successo il venerdì sera, la sera in cui spiravano i tre giorni concessi a
Maironi per allontanarsi da Roma. Verso il mezzogiorno di sabato Jeanne
ricevette un biglietto dell’Albacina. La signora del sottosegretario di Stato
aspettava Jeanne in casa sua, alle due. Fu per questo invito ch’ella uscì in
carrozza poco prima delle due, non curando le proteste di Carlino.
Appena la carrozza partì, Jeanne rialzò il velo, tolse il biglietto dal
manicotto e chinatovi su il bel viso pallido, lo fissò non già leggendo, non
già scrutando il senso molto piano e semplice delle parole, ma pensando che
avesse a dirle l’Albacina, immaginando ogni cosa possibile. Si era deciso di
lasciare Maironi in pace? O la Questura ne aveva scoperto la dimora e
s’intendeva procedere all’arresto?
«Certo sarà il peggio!» si disse Jeanne. «Ah, Dio!»
E dimentica un momento di sé, si levò il manicotto al viso, vi premette la
fronte. Ah forse no, forse no! Rialzato rapidamente il capo, guardò fuori, se
qualcuno l’avesse veduta. La carrozza correva veloce, silenziosa sulle ruote di
gomma. Ella tornò alle sue congetture, vi si perdette a segno di non avvedersi
che la carrozza si era fermata se non quando il cameriere aperse lo sportello.
Discese.
L’Albacina le venne incontro sulle scale, pronta per uscire. Jeanne doveva ripartire
con lei, subito. Subito? E dove andare? Sì, subito, subito, con la carrozza di
Jeanne, perché l’Albacina non poteva in quel momento disporre della propria. E
l’Albacina stesse diede l’indirizzo al cameriere di Jeanne, un indirizzo ignoto
a Jeanne, molto lontano. Si sarebbe spiegata in viaggio. E la carrozza riprese
la corsa veloce, silenziosa sulle ruote di gomma. Ah, l’Albacina aveva
dimenticate le carte di visita! Fece fermare ma poi guardò l’orologio, vide che
si perdeva troppo tempo; avanti! Jeanne ne fremeva d’impazienza. Dunque,
dunque? Dove si va? Ecco, si va dal cardinale… Jeanne trasalì. Dal cardinale…?
Il cardinale aveva fama d’intransigente fra i più fieri. L’Albacina lo doveva
assolutamente vedere e un quarto d’ora più tardi non lo avrebbe più trovato in
casa. Ah che complicazione di cose! Ella non poteva spiegare tutto in poche
parole. Lo scopo della visita, s’intende, era sempre quello per il quale donna
Rosetta Albacina lavorava da tre giorni con il confessato interesse alle idee e
alla persona del Santo di Jenne, e il non confessato piacere di condurre un
intrigo difficile senza dissapori con la propria coscienza. Ella si era
incapricciata di Jeanne a Vena di Fonte Alta, nulla sapendo del suo passato. E
nulla ne sapeva ora. La sospettava innamorata del Santo ma supponeva un amore
mistico, nato all’udirlo parlare nella catacomba di via della Vite. Si teneva
certa ch’ell’avesse avuto parte nella scomparsa di lui da villa Mayda, che
conoscesse il suo nascondiglio e non volesse dirlo per aver promesso il segreto
agli amici. Perché Jeanne, fidandosi poco della signora che le pareva leggera e
della quale non poteva dimenticare ch’era moglie di un nemico potente, le aveva
ripetutamente negato di saperlo. Questa scarsa fiducia di Jeanne la offendeva
un poco perché in fondo, lei, donna Rosetta, moglie di un’Eccellenza,
arrischiava molto più; ma insomma il suo amor proprio era oramai impegnato nel
giuoco la cui posta era la permanenza libera del Santo di Jenne in Roma, ed
ella era ferma di tirare avanti la partita.
Una gran complicazione di cose, dunque. Intanto, almeno fino a venerdì sera,
la Questura non aveva ancora scoperto l’asilo del Santo. Riteneva che fosse in
Roma, questo sì. Qui donna Rosetta fece una pausa, sperando che Jeanne dicesse
qualche cosa. Niente. Ammise, riprendendo il discorso, che suo marito potesse
sospettare i maneggi ch’ella gli nascondeva, non essere interamente sincero con
lei. Questo non era però verisimile. Quando suo marito non parlava sincero,
donna Rosetta lo capiva in aria. Capiva pure gli altri, del resto. Quanto a suo
marito, donna Rosetta s’ingannava. A Palazzo Braschi si sapeva fino da
mercoledì sera dove trovare Maironi, e non lo si voleva dire, e il
sottosegretario di Stato si fidava di sua moglie meno ancora che se ne fidasse
Jeanne.
Ma le novità grosse erano le vaticane. Avevano raccontato al Papa i fatti di
via della Marmorata e Sua Santità era irritatissima contro il Governo perché le
si era fatto credere che il Governo fosse strumento, in questo affare, degli
odiiche massonici contro un uomo gradito
al Papa. Intorno al Papa gli animi erano divisi. Gl’intransigenti più fanatici,
contrarii al cardinale segretario di Stato, caldeggiavano la nomina sgradita al
Quirinale per la sede arcivescovile di Torino e disapprovavano gl’intrighi
segreti col Governo italiano. Secondo il loro capo, l’Eminentissimo che donna
Rosetta si proponeva ora di visitare, altri mezzi dovevano adoperarsi per
sottrarre il Santo Padre alla influenza pestifera di un razionalista inverniciato
di misticismo. Queste cose l’Albacina le sapeva dall’abate Marinier che veniva
a sorriderne argutamente nel suo salotto. Bisognava sentire quanto veleno di
accuse, con quali arti, si seminava dagl’intransigenti, tutti d’accordo in
questo, contro quel povero diavolo di razionalista mistico del quale l’abate
sorrideva non meno che de’ suoi nemici!
C’erano novità anche al ministero dell’Interno. Quali novità? Donna Rosetta
stava per rispondere quando la carrozza si fermò davanti a un grande convento.
Il cardinale alloggiava lì. Donna Rosetta discese sola. Dal cardinale la
presenza di Jeanne non occorreva, sarebbe anzi stata inopportuna. Occorreva in
altro luogo. Jeanne attese in carrozza, crucciata di non sapere ancora, dopo
tante chiacchiere, il perché di quella visita. Passarono cinque, dieci minuti.
Jeanne si rizzò sulla persona, dall’angolo dove si era raccolta nei suoi
pensieri, a guardar l’entrata del convento, se donna Rosetta ricomparisse. Radi
viandanti passavano lenti per la via silenziosa, guardavano nella carrozza. A
Jeanne pareva offensivo che vi fosse della gente tanto tranquilla. Ah Dio, e
lui, e lui? Il medico le aveva promesso un bollettino al Grand Hôtel per
le sette. Non erano ancora le tre. Più di quattr’ore di attesa. E cosa direbbe
il bollettino? Tante corse, tante pratiche, tanti maneggi, tante cose, e poi?
Dio Dio, e poi? Si morse le labbra, si soffocò un singhiozzo in gola. Ah, ecco
donna Rosetta, finalmente. Il cameriere apre lo sportello, ella gli ordina:
«Palazzo Braschi!»
E sale in carrozza, si getta un libriccino ai piedi, si strofina a furia le
labbra, invece di parlare, col fazzoletto profumato, dice fremendo che ha
dovuto baciar la mano al cardinale e ch’era tanto poco pulita. Però la visita è
andata bene. Ah se suo marito sapesse! Ell’aveva fatto una parte veramente
orribile. Il cardinale era quello famoso che si era incontrato una volta con
Giovanni Selva nella biblioteca del monastero di Santa Scolastica a Subiaco, e
lo aveva assalito chiamandolo profanatore delle mure sacre, promettendogli che
sarebbe andato all’inferno e più giù. Donna Rosetta aveva soffiato nel
suo fuoco per mandare a monte l’accordo segreto fra Vaticano e palazzo Braschi,
era andata a raccontargli che la haute religiosa di Torino voleva l’uomo
scelto dal Vaticano e sgradito al Quirinale. Quel diavolo di cardinale,
conosciuto da lei nel salotto di un prelato francese, aveva sulle prime
risposto solamente, col suo accento né francese né italiano:
«C’est vous qui me dites ça?
C’est vous qui me dites ça?»
Infatti donna Rosetta aveva risposto ridendo:
«Oh c’est énorme, je le sais!»
Era un discorso che poteva costare l’Eccellenza a suo marito. Ma poi
l’Eminentissimo le aveva quasi promesso che i voti della haute di Torino
parrebbero stati soddisfatti:
«Ce sera lui, ce sera lui!»
Finalmente le aveva detto:
«Comment donc, madame, avez vous épousé un franc
maçon? Un des pires, aussi! Un des pires! Faites lui lire cela!»
E le aveva dato un libretto sulle dottrine infernali e la dannazione
inevitabile dei framassoni. Era il libretto che l’Albacina si era gettato ai
piedi salendo in carrozza.
«Figuriamoci» diss’ella «se mio marito legge questa roba!»
Ma che ne importava a Jeanne? Jeanne era impaziente di conoscere le novità
del ministero dell’Interno. E ora da chi si andava, al ministero dell’Interno?
Dal ministro o dal sottosegretario di Stato?
Si andava dal sottosegretario di Stato, dal marito di donna Rosetta. Donna
Rosetta aveva taciuto fino a quel momento il proposito e l’oggetto di questa
visita per non lasciare a Jeanne il tempo di schermirsi né di prepararsi
troppo. L’on. Albacina sapeva dell’amicizia di sua moglie per la signora
Dessalle e dell’amicizia della signora Dessalle per i Selva, tanto legati, alla
loro volta, a Maironi. Egli aveva detto a sua moglie di voler parlare
direttamente a questa signora, per fini suoi che intendeva tacere. L’avrebbe
aspettata al ministero dopo le tre. Ce la poteva portare lei, sua moglie; ma
senz’assistere al colloquio. Il movimento primo di Jeanne fu un’esclamazione di
rifiuto. Donna Rosetta la persuase facilmente a mutar consiglio. Ella non
poteva dire che progetti avesse in testa suo marito, non lo sapeva; ma secondo
lei sarebbe stata follia di non andare, di non udire, poiché non ci poteva
essere pericolo, da parte di Jeanne, d’impegnarsi a niente. Jeanne si arrese,
benché il silenzio serbato dall’Albacina fino all’ultimo in cosa di tanto
momento, la facesse trepidare come un infermo cui si annunci, dopo molti
discorsi scherzosi, la visita di un chirurgo celebre che verrà per dargli
un’occhiata e non più.
«Non Le direi di andar sola» conchiuse sorridendo l’Albacina. «Gli uscieri
ne hanno viste tante, al tempo di certi ministri e
vice-ministri! Ma ci vengo io che al ministero sono
conosciuta; e poi adesso quello che accadeva una volta non accade più.»
L’on. Albacina stava presso il ministro. Un deputato, chiamato allora allora
per entrare, riconobbe donna Rosetta e le offerse di annunciarla a suo marito.
Egli non aveva che due parole a dire, sarebbe uscito subito. Infatti dopo
cinque minuti l’on. deputato uscì insieme ad Albacina che pregò Jeanne di
passare dal ministro con lui. Le due signore non si attendevano a ciò, donna
Rosetta domandò a suo marito se non fosse lui che voleva parlare a Jeanne. Sua
Eccellenza non si smarrì per così poco, congedò sua moglie con modi molto
sommarî e portò, di sorpresa, la Dessalle dal ministro. La presentò al
superiore, imbarazzata, quasi offesa.
Il ministro l’accolse colla più rispettosa cortesia, da uomo austero solito
a onorare la donna tenendosene a distanza. Egli aveva conosciuto il banchiere
Dessalle, padre di Jeanne, e le ne parlò subito:
«Un uomo» disse «che aveva molto oro nei suoi forzieri ma il più puro nella
sua coscienza!» Soggiunse che questa memoria lo aveva incoraggiato ad
abboccarsi con lei per una faccenda delicatissima. Proferite ch’egli ebbe
queste parole, anzi mentre le diceva, Jeanne sentì con certezza che quell’uomo
sapeva il passato. Ella non poté a meno, di guardare alla sfuggita il sottosegretario.
Gli lesse negli occhi la stessa scienza; ma lo sguardo del sottosegretario la
turbava e la irritava; quello del ministro, invece, le apriva un’anima paterna.
Il ministro entrò in argomento parlando di Giovanni Selva del quale fece ampie
lodi. Si dolse di non avere con lui relazioni personali. Disse di sapere che
Jeanne era amica della famiglia Selva. Egli si rivolgeva a lei per affidare a
questi suoi amici una missione importante presso un’altra persona. E parlò di
Maironi, sempre avendo cura d’interporre i Selva fra lo stesso Maironi e
Jeanne, di evitare ogni accenno a possibili comunicazioni dirette fra l’uno e
l’altra. Jeanne lo ascoltava, divisa fra l’attenzione alle sue parole, intensa,
lo studio, pure intenso, di preparare una risposta prudente, misurata, e il
fastidio sdegnoso che le dava la presenza del piccolo, mefistofelico Albacina.
Il discorso del ministro fu diverso da quello che, in principio, ella si
attendeva; migliore ma più imbarazzante. Egli le disse che non parlava come
ministro ma come amico; che con lei non voleva fare misteri; che certe ombre
non avevano avuto assolutamente corpo; che né ministri, né magistrati, né
agenti di P. S. avevano a occuparsi affatto del signor Maironi il quale era
perfettamente libero di sé e niente aveva a temere dalla giustizia del suo
paese, fattasi persuasa della inanità di certe accuse mossegli per odio
religioso; ch’egli aveva molta simpatia per le idee religiose del signor
Maironi e anche molta stima per i suoi propositi di apostolato, ma che il signor
Selva doveva persuaderlo della opportunità di allontanarsi, almeno per qualche
tempo, nell’interesse del suo stesso apostolato, da Roma dove gli si faceva dai
suoi nemici religiosi una guerra tale, a colpi di calunnie, ch’egli era per
rimanere ben presto, inevitabilmente, senza discepoli. Qui il ministro, anche
credendo fare cosa gradita a Jeanne, affermò la propria religiosità; abbaglio
tragico, pensò lei amaramente. Egli sperava che in un prossimo avvenire il
signor Maironi potesse esercitare liberamente la propria influenza in luogo
altissimo; vi erano molti segni di una prossima trasformazione di quel tale
ambiente, di una prossima disgrazia degl’intransigenti; ma per ora gli era
opportuno di eclissarsi. Questo era il consiglio amichevole ma pressante che si
desiderava di fargli pervenire per mezzo del suo illustre amico. Accettava la
signora Dessalle di parlare all’illustre amico?
Jeanne trepidava. Era da fidarsi? Era da dir cose che forse coloro non
sapevano e cercavano sapere da lei? Guardò involontariamente il sottosegretario
e gli occhi suoi parlarono così chiaro ch’egli non poté a meno di pigliare una
risoluzione.
«Signora» disse col suo abituale sorriso sarcastico, «vedo che Lei non mi
desidera. La mia presenza non è necessaria e me ne vado per ossequio al Suo
desiderio: desiderio giusto e che si capisce.»
Jeanne arrossì ed egli se ne accorse, si compiacque di averla ferita con la
coperta allusione che si conteneva nelle sue ultime parole e più ancora nel
sorriso maligno.
«Però» soggiunse collo stesso sorriso «non me ne andrò senz’affermarle,
sulla mia parola, che mia moglie Le è un’amica fedelissima, che non mi ha mai
tenuto sul Suo conto un solo discorso indiscreto; come, sullo stesso argomento,
non ne ho mai tenuto io a mia moglie.»
Vendicatosi così, l’omino se ne andò, lasciando Jeanne agitatissima. Dio,
intendevano proprio che avesse a parlare lei, a Piero? Supponevano che lo
vedesse, pensavano essi pure che la santità di Piero fosse mentita? Si
ricompose con uno sforzo supremo, cercò aiuto nello sguardo grave, mesto,
rispettoso del ministro.
«Parlerò al signor Giovanni» diss’ella. «Credo però» soggiunse esitando «che
il signor Maironi sia ammalato, che non possa viaggiare.»
Nel nominare Maironi le salirono le vampe al viso. Ella le sentì assai più
che non si vedessero. Però il ministro se ne avvide e venne in suo soccorso.
«Forse, signora» diss’egli «Ella dubita di compromettere i Suoi amici Selva.
Non abbia questo dubbio. Prima Le ripeto che il signor Maironi non ha niente a
temere da nessuno e poi aggiungo che noi sappiamo tutto. Sappiamo ch’è in Roma,
che sta, per poche ore ancora, presso un senatore del Regno, in via della
Polveriera. Sappiamo pure ch’è ammalato ma ch’è in grado di viaggiare; anzi Lei
può dire al signor Selva che io gli farò avere, se vuole, dal mio collega dei
Lavori Pubblici un coupé riservato.»
Jeanne, tremante, fu per interromperlo, per esclamare: poche ore ancora? Si
contenne appena e prese congedo per correre al Senato, sapere.
«Forse il signor Selva lo ignora» disse il ministro, accompagnandola verso
l’uscio «ma il senatore aspetta non so quali parenti e non potrà più alloggiare
il signor Maironi. Gli rincresce. Gran brav’uomo! Siamo vecchi amici.»
Jeanne tremava di avere intravveduta la verità. A palazzo Braschi che il
senatore congedasse Piero; un’altra spinta per allontanarlo da Roma! Ma
possibile che il senatore si fosse lasciato persuadere? Congedare un infermo in
quello stato? Salì nel suo coupé, si fece portare a palazzo Madama,
chiese del senatore. Non c’era. L’usciere che le rispose così le parve un po’
imbarazzato. Aveva una consegna? Non osò insistere, lasciò una carta colla
preghiera di passare dal Grand Hôtel prima di pranzo. Ella stessa partì
per il Grand Hôtel fremendo, e gemendo insieme nel suo cuore, battendo
colla punta del piede il libretto contro la Massoneria, dimenticato da donna
Rosetta. Avrebbe voluto che i due sauri volassero. Erano le quattro e tre
quarti e il suo dovere quotidiano era di preparare la medicina per Carlino alle
quattro e mezza.
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