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Antonio Fogazzaro
Il santo

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      • 9. Nel turbine di Dio.
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Benedetto amava il professore Mayda. Quando, nella casa del senatore, udì ch’egli aveva risoluto di portarlo con sé a villa Mayda, ebbe un momento di gioia. Amava il professore, forse incapace ancora di fede ma profondamente convinto che vi hanno enigmi insolubili per la scienza, generoso, fiero ai potenti, mite agli umili. Amava pure il giardino, gli alberi, i fiori e l’erba ond’era stato, come del professore, il servo e l’amico. Tutto vi era pieno di care, innocenti anime, con le quali in certi momenti di rapimento spirituale aveva adorato Iddio posando le labbra sulle loro vesti picciolette, sopra un fiore, sopra una foglia, sopra uno stelo, dentro un alito di frescura verde. Gli piaceva l’idea di morire in mezzo ad esse. Talvolta, sotto un pino volgente al Celio l’ombrello pieno di vento e di suono, aveva pensato all’ultima scena della Visione, si era contemplato steso sull’erba nell’abito benedettino, pallido, sereno tra faccie compiangenti, cantando il pino sopra di lui un canto misterioso del cielo. Ogni volta si era soffocata nel cuore questa compiacenza non scevra di vanità egoistiche, umane, non tutta raccolta e chiusa nell’ossequio della Divina Volontà; ma non aveva potuto svellerne la radice.

Tese dunque le braccia, riconoscente, al professore. Ma subito fu preso da uno scrupolo. La sua intelligenza e il suo sentimento cristiano si trovarono in contraddizione. Sapeva di essere sgradito alla signora che aveva sposato il figlio del professore, ufficiale di marina, allora in Oriente; capiva che ritornando a villa Mayda sarebbe stato causa di dispiacere a lei e perciò di dissapori con il suocero. Ma come ora dirlo senz’accusare di poca giustizia e di poca carità una persona che appunto per essergli nemica egli doveva particolarmente amare? Pregò il professore di lasciarlo andare a Sant’Onofrio. La mutazione fu così repentina che Mayda ne meravigliò, pensò un momento, capì, gli disse aggrottando le ciglia:

«Volete che io non perdoni mai più qualche cosa a qualcuno?»

Benedetto non si oppose più. Soltanto quando a notte venne il momento di scendere alla carrozza ed egli si sentì incapace di reggersi, sorrise, disse al professore posandogli la mano sul braccio:

«Lei sa che a questo modo domani o posdomani avrà un morto in casa

Il professore rispose che con lui non mentiva, che questo era possibile, ma non certo.

«Lei sa» rispose Benedetto, non più sorridente, «che prima vi avrà…»

«So quello che volete dire» interruppe il professore. «Venite in pace, caro. Non sono credente come voi ma lo vorrei essere e aprirò rispettosamente la mia porta a chi vorrete voi. Intanto prenderemo questo, vero

Staccò dalla parete il Crocifisso che Benedetto aveva portato con sé e prese l’infermo nelle sue braccia potenti.

Il tragitto si fece senza guai. Adagiato nel traverso nel landau sopra una diga di cuscini, Benedetto, che sembrava diminuito di statura, rispondeva più col sorriso che colla voce fievole alle frequenti domande del professore. Questi gli teneva continuamente la mano al polso e di tempo in tempo gli amministrava un cordiale. All’entrata della villa, fosse commozione o stanchezza, il povero viso scarno dell’infermo imbiancò e si coperse di sudore, i grandi occhi lucenti si chiusero. Mayda lo portò nel suo proprio letto. Così avvenne che Benedetto, nel ricuperare la coscienza, non si raccapezzasse più.

Egli non la ricuperò, in quella sua spossatezza estrema, senza passare per ombre di pensamenti vani. Gli parve esser morto, giacere steso sulla faccia perpetuamente oscura della luna, avere a cerchio di sé l’imbuto dei raggi solari fuggenti all’infinito e vedere sul fondo nero dell’imbuto fiammeggianti occhi di stelle. Poco a poco si conobbe in un letto enorme, tutto scuro, cinto di un chiaror fioco che si perdeva ai lati verso pareti male visibili. Grandi ombre gli si movevano intorno. A fronte gli si apriva un azzurro tutto sparso di punti lucenti. Gli batté il cuore; non erano veramente stelle? Dovette richiamarsi alle sensazioni del letto e del proprio vivere per comprendere ch’erano veramente stelle ma ch’egli non giaceva sulla luna. Allora dov’era? Si lasciò andare a una dolcezza che lo invadeva, alla dolcezza di non sentirsi quasi più il corpo e di sentirsi Dio nell’anima, tanto vicino e tenero e ardente. Era dove piaceva a Dio.

Una mano gli si posò sulla fronte, una lampadina elettrica lo abbagliò, un’affettuosa voce forte disse:

«Come va

Egli riconobbe Mayda. Allora domandò a lui dove fosse, perché non fosse nella sua cameretta antica. Prima ancora che il professore gli rispondesse, lo assalse un dubbio angoscioso. Il Crocifisso? Il caro Crocifisso? Era rimasto in casa del senatore? Il Crocifisso era sul tavolino da notte. Il professore glielo mostrò.

«Non sai» diss’egli «che lo abbiamo portato con noi?»

Benedetto lo guardò, contento del nuovo tu e porse la mano tremante cercando quella di Mayda che gliela prese fra le proprie, dolcemente.

In pari tempo si sentì umiliato della sua dimenticanza. Era egli vicino a perder la mente? Tutto il giorno prima aveva pensato le ultime parole da dire agli amici e alla persona che tanto gli aveva fatto sentire la sua presenza invisibile. Ma se perdeva la mente? Il professore diede mano a saturarlo di chinino. In principio Benedetto accettò volontieri iniezioni dolorose e pozioni amare, così per il desiderio di rinvigorirsi un poco e quindi di difendersi contro un oscuramento dello spirito, come per il desiderio di soffrire. Oh sì, soffrire, soffrire! Nei giorni precedenti aveva sofferto molto, non di sofferenze locali, non di sofferenze acute, ma di una sofferenza inesprimibile, diffusa dalle radici dei capelli alle estremità dei piedi. Era stata una beatitudine dell’anima poter associare in tali momenti la volontà propria alla Volontà Divina, accettare dall’Amore tutto il dolore che gli aveva destinato senza dirgliene il misterioso perché, un perché nascosto nel disegno dell’Universo, certo un perché di bene; non di solo bene della persona sofferente ma di bene universale, di un bene radiante dal suo povero corpo senza conosciuto confine, come il moto da un vibrante atomo del mondo. Grande cosa soffrire, continuare umilmente Cristo, continuare la redenzione come un peccatore può, compensare col dolore proprio il male altrui! sul sentiero solitario del Sacro Speco, nel fragore dell’Aniene, fra le montagne religiose, don Clemente gli aveva parlato così.

E adesso quel soffrir mortale era cessato. Quando il chinino cominciò a rombargli nel capo, se ne sgomentò. Questi rimedî lo istupidivano. Chiamò il professore; gli rispose una suora. Chiese che gli facessero venire un sacerdote dalla Bocca della Verità.

Il professore ch’era andato a riposare per un’ora, venne a rassicurarlo e credette allora dirgli quello che prima aveva taciuto. Don Clemente aveva telegrafato a Selva che sarebbe giunto a Roma l’indomani mattina alle dieci. Benedetto n’ebbe una gran gioia.

«Ma non sarà tardidiss’egli «Non sarà tardi

No, non poteva esser tardi. Egli non si trovava presentemente in pericolo prossimo. Questione di vita o di morte era il rinnovarsi della febbre e nel caso più disgraziato vi sarebbero state ancora molte ore. Mayda dubitò di avere parlato troppo crudamente, gli sussurrò:

«Ma guarirai

E uscì della camera. Benedetto, pensando a don Clemente, passò dalla quiete della sua contentezza nel sopore e nel sogno, dove discesero gli spiriti mali a comporgli con le ultime parole del professore una visione d’inganno.

Egli si vide in faccia un colossale muraglione di marmo, incoronato di ricche balaustrate, tutto bianco di luna. in alto, dietro le balaustrate, agitavasi al vento una densa foresta. Sei scale, pure fiancheggiate di balaustri, scendevano per isghembo, tre da sinistra e tre da destra, sulla fronte del muraglione, terminando a sei ripiani sporgenti. Le balaustrate superiori erano partite da pilastrini che reggevano urne. Ed ecco fra le urne, a mezzo di ciascun intervallo, apparire come in danza, nello stesso istante, nello stesso abito celeste scollato, nello stesso grazioso atto del capo, sei giovani donne bellissime; e con lo stesso armonioso gesto delle braccia ignudo tendere a lui dall’alto, piegando il busto, sei scintillanti coppe di argento. Si ritraevano quindi a un punto dalla balaustrata e a un punto ricomparivano sulle sei scale, le scendevano uguali velocemente, e, toccati i ripiani, a un punto riporgevano graziose il busto, gli tendevano, guardandolo con una gravità strana, le sei coppe scintillanti. Dalle loro labbra non usciva parola e tuttavia gli era evidente che le sei giovani gli offrivano nell’argento un liquore di vita, di salute, di piacere.

Egli sentiva di averne uno sgomento morale angoscioso e tuttavia di non poter levare lo sguardo dalle coppe scintillanti, dai bei volti gravi, chini sopra di esse. Si sforzava di chiudere gli occhi e non poteva, di levarsi e non poteva, d’invocare Dio e non poteva. Le sei danzatrici piegarono a un punto le coppe verso di lui, sei mobili nastri di liquore rigarono l’aria. «Come io» pensò il dormente scambiando persone nella memoria turbata «a Praglia.» E tutto scomparve, si vide davanti Jeanne. Ritta in piedi, chiusa nel mantello verde foderato di skuntz, ombrata il viso dal grande cappello nero, ella lo guardava come lo aveva guardato a Praglia nel momento del primo incontro. Ma stavolta il dormente vide una rispondenza fra la gravità di quello sguardo e la gravità dei volti delle danzatrici, vide con lo spirito la parola silenziosa delle sette anime: povero uomo, tu ora conosci il tuo doloroso errore, tu ora sai che Dio non è. La gravità degli sguardi non era che tristezza di pietà. Le coppe della vita, della salute e del piacere gli erano offerte discretamente e senza gioia come a uno ch’è nel lutto, che ha perduto ogni cosa più cara; come il solo povero conforto che gli rimane. Così Jeanne offriva il suo amore. E il dormente fu invaso da questa presunta evidenza nuova che Dio non è. Era una vera e propria sensazione fisica, un gelo diffuso per tutte le membra, movente lento al cuore. Egli prese a tremare, a tremare, e si destò. Mayda pendeva sopra di lui col termometro in mano. Benedetto mormorò con gli occhi sbarrati: Padre! – Padre! – Padre! – La suora suggerì: – Padre nostro che sei nei cieli… – e avrebbe continuato con la sua voce disgraziatamente sciocca senza un brusco richiamo del professore. Questi mise il termometro a Benedetto che quasi non se ne avvide. Era tutto nello sforzo di staccare dall’intimo sé le immagini delle figure tentatrici e della orribile loro parola, di gettarsi, anima e coscienza, in seno al Padre, di aderire a Lui con l’intero essere proprio, di annientarsi in esso. Le immagini cedevano lentamente, con ritorni di assalto sempre più brevi, sempre più deboli. Il viso appariva tanto trasfigurato nella mistica tensione dell’anima che Mayda si pietrificò a contemplarlo, dimenticò di guardar l’orologio fino a che i lineamenti contratti nell’affannosa preghiera non si vennero distendendo in una compostezza di pace. Allora si sovvenne, levò il termometro. La suora, dietro a lui, reggeva la lampadina elettrica cercando pure di vedere. Egli non discerneva, sulle prime, il grado. In quei pochi secondi di silenzio e di attenzione intensa né l’uno né l’altra si avvidero che l’infermo si era voltato sul fianco e guardava il professore. Finalmente Mayda scosse lo strumento. Che grado aveva segnato? La suora non osò chiederlo e la faccia del professore era impenetrabile. L’ammalato allungò la mano senza ch’egli se ne avvedesse, lo toccò lievemente sul braccio. Mayda si volse a lui, gli lesse negli occhi sorridenti la domanda: «e dunque?» Non rispose a parole ma solo con l’ondular della mano spiegata: né benemale. Poi sedette accanto al letto, silenzioso ancora, impenetrabile, guardando Benedetto che non guardava più lui ma guardava, rimessosi a giacere supino, i punti lucenti nell’immenso azzurro.

«Professore» diss’egli «che ore sono?»

«Le tre.»

«Alle cinque mandi ad avvertire a Bocca della Verità

«Va bene

«Sarebbe tardi

A quest’ultima domanda il professore rispose con un «no» sonoro, vibrato. E dopo un momento di silenzio soggiunse a voce più bassa «no» come a conclusione di un ragionamento interno. Il termometro era salito a trentasette e cinque; dalla sera precedente, più d’un grado. Se l’ascensione continuasse rapida, se vi fosse pericolo di delirio avrebbe mandato a Bocca della Verità prima delle cinque. L’ascensione rapida non gli pareva probabile benché quel trentasette e cinque avesse un colore nero.

Domandò all’ammalato se la luce della lampadina l’offendesse. Benedetto rispose che materialmente non l’offendeva, spiritualmente sì; gli toglieva di vedere per la finestra il cielo, la notte stellata.

«Illuminatio mea» diss’egli, dolcemente.

Il professore non capì, gli fece ripetere la parola, chiese quale fosse il suo lume, udì la voce fievole mormorare:

«Nox.»

Mayda non conosceva i Salmi, la parola profonda dell’antico ebreo, al quale parve oscuro il nostro piccolo sole che occulta il mondo superiore. Intese e non intese. Tacque riverente.

Benedetto cercava con gli occhi le stelle. La sua propria coscienza trapassava in esse che lo guardavano austere sapendolo presso a raccogliere, prima della morte imminente, tutta la storia morale della sua vita per dirla con parole che sarebbero un primo giudizio pronunciato nel nome di Dio Giustizia per impulso del Dio Amore, che non si perderebbero perché nessun moto si perde, che apparirebbero, chi sa come, chi sa dove chi sa quando, per la gloria di Cristo, come testimonianza suprema di uno spirito alla Verità morale contro sé stesso. Così gli parlavano le stelle silenziose, animate del suo pensiero. E la sua vita gli si disegnò nella mente da capo a fondo, non tanto nei punti salienti esterni, come nella linea morale interna. Egli ne vide tutta la prima parte dominata da una concezione religiosa prevalentemente egoistica, ordinata a far convergere l’amore di Dio e degli uomini a un bene individuale, a un fine di perfezione propria e di premio. Sentiva dolore di avere così obbedita solamente a parole la legge che all’amore di sé stesso antepone l’amore di Dio; ed era un dolore dolce, non perché gli fosse facile trovare scuse all’errore, imputarlo a maestri, ma perché gli era dolcezza sentire il proprio niente nell’onda di grazia che lo avvolgeva. E sentiva il proprio niente in quel passato sfacelo di una religiosità manchevole, operato dall’insorgere dei sensi, nella depressione centrale della sua vita, tutta un tessuto di sensualità, di debolezze, di contraddizioni e di menzogne; il proprio niente anche nella vita posteriore alla sua conversione, impulso e opera di una Volontà interna e prevalente alla sua, durante il quale ultimo tempo gli pareva di avere, per conto proprio, solamente gravato contro l’impulso buono. Anelò a deporre come una spoglia pesante tutto quel «sé» che lo tardava. Conobbe parte di questo «sé» pesante anche l’affetto alla Visione, aspirò alla Verità Divina nel suo mistero qualunque ella fosse, si donò a lei con tale violenza di desiderio da spezzarsi, quasi, nel palpito; e le stelle gli folgorarono un senso così vivo della incommensurabile grandezza della Verità Divina di fronte alla concezione religiosa sua e dei suoi amici, e insieme una fede così certa di essere avviato a quella immensità, ch’egli esclamò alzando di scatto la testa dal guanciale:

«Ah!»

La suora si era appisolata ma il professore no.

«Cosa c’è?» diss’egli. «Vedi qualche cosa? «

Sulle prime Benedetto non rispose. Il professore alzò la lampadina e si chinò sopra di lui che volse il viso a guardarlo con una espressione di desiderio intenso e dopo averlo guardato lungamente sospirò:

«Ah professore, c’è che Lei deve venire dove vado io.»

«Ma sai» disse Mayda «dove vai, tu?»

«So» rispose Benedetto «che mi separo da tutto quello che si corrompe e che pesa

Poi domandò se qualcuno fosse andato alla parrocchia. Come, se non era passato che un quarto d’ora? Si scusò, gli pareva che fosse passato un secolo. Supplicò il professore di ritirarsi, di prendere riposo, contemplò daccapo i lumi celesti; poi chiuse gli occhi, desiderò Gesù, due braccia umane che lo sollevassero e lo cingessero, un petto umano, animato di Divino, dove celare il viso entrando nell’immenso mistero.

 

 

Ebbe i sacramenti alle sei. Il termometro era salito di qualche linea.

Alle nove Benedetto domandò di Giovanni Selva. Seppe ch’era venuto, ch’era ripartito e che c’era invece di Leynì. Volle vederlo malgrado l’opposizione del professore. Gli disse che desiderava salutare almeno alcuni dei suoi amici delle catacombe. Di Leynì lo sapeva, gliene aveva parlato Selva. Poté annunciare che si erano dato convegno a villa Mayda verso il tocco. La suora infermiera, venuta poco prima a sostituire la sua compagna, ebbe l’imprudenza di dire che tanta gente del popolo domandava notizie. Benedetto, per , non disse nulla; ma, uscito di Leynì, fece chiamare il professore. Il professore non c’era, aveva dovuto recarsi all’Università. Il discorso della suora avea fatto prendere definitivamente a Benedetto una risoluzione pensata fin da quando la prima luce del giorno gli aveva mostrato le pareti della camera dipinte di soggetti mitologici nello stile della Casa di Livia. Desiderò di un desiderio indicibile la sua cameretta antica. avrebbe veduto gli amici, i popolani che volessero visitarlo, e, se fosse venuta, l’altra persona. Pregò di parlare al giardiniere e ai servi, espresse il suo desiderio; e perché coloro rifiutavano di trasportarlo, li supplicò per amor di Dio, li commosse tanto che si arresero, a rischio di venir cacciati. «Idee proprio di Santi» pensò la suora. Benedetto fece il tragitto nelle braccia del giardiniere e di un servo, avviluppato di coperte, col Crocifisso in mano. La sua consolazione di trovarsi nella cameretta povera fu così grande che parve a tutti migliorato. Ma il termometro saliva.

Dopo il tocco il termometro segnava trentanove. Don Clemente era arrivato alle dieci e mezzo.

 

 




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