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Benedetto amava il professore Mayda. Quando, nella casa del senatore, udì
ch’egli aveva risoluto di portarlo con sé a villa Mayda, ebbe un momento di
gioia. Amava il professore, forse incapace ancora di fede ma profondamente
convinto che vi hanno enigmi insolubili per la scienza, generoso, fiero ai
potenti, mite agli umili. Amava pure il giardino, gli alberi, i fiori e l’erba
ond’era stato, come del professore, il servo e l’amico. Tutto vi era pieno di
care, innocenti anime, con le quali in certi momenti di rapimento spirituale
aveva adorato Iddio posando le labbra sulle loro vesti picciolette, sopra un
fiore, sopra una foglia, sopra uno stelo, dentro un alito di frescura verde.
Gli piaceva l’idea di morire in mezzo ad esse. Talvolta, sotto un pino volgente
al Celio l’ombrello pieno di vento e di suono, aveva pensato all’ultima scena
della Visione, si era contemplato lì steso sull’erba nell’abito benedettino,
pallido, sereno tra faccie compiangenti, cantando il pino sopra di lui un canto
misterioso del cielo. Ogni volta si era soffocata nel cuore questa compiacenza
non scevra di vanità egoistiche, umane, non tutta raccolta e chiusa
nell’ossequio della Divina Volontà; ma non aveva potuto svellerne la radice.
Tese dunque le braccia, riconoscente, al professore. Ma subito fu preso da
uno scrupolo. La sua intelligenza e il suo sentimento cristiano si trovarono in
contraddizione. Sapeva di essere sgradito alla signora che aveva sposato il
figlio del professore, ufficiale di marina, allora in Oriente; capiva che ritornando
a villa Mayda sarebbe stato causa di dispiacere a lei e perciò di dissapori con
il suocero. Ma come ora dirlo senz’accusare di poca giustizia e di poca carità
una persona che appunto per essergli nemica egli doveva particolarmente amare?
Pregò il professore di lasciarlo andare a Sant’Onofrio. La mutazione fu così
repentina che Mayda ne meravigliò, pensò un momento, capì, gli disse
aggrottando le ciglia:
«Volete che io non perdoni mai più qualche cosa a qualcuno?»
Benedetto non si oppose più. Soltanto quando a notte venne il momento di
scendere alla carrozza ed egli si sentì incapace di reggersi, sorrise, disse al
professore posandogli la mano sul braccio:
«Lei sa che a questo modo domani o posdomani avrà un morto in casa?»
Il professore rispose che con lui non mentiva, che questo era possibile, ma
non certo.
«Lei sa» rispose Benedetto, non più sorridente, «che prima vi avrà…»
«So quello che volete dire» interruppe il professore. «Venite in pace, caro.
Non sono credente come voi ma lo vorrei essere e aprirò rispettosamente la mia
porta a chi vorrete voi. Intanto prenderemo questo, vero?»
Staccò dalla parete il Crocifisso che Benedetto aveva portato con sé e prese
l’infermo nelle sue braccia potenti.
Il tragitto si fece senza guai. Adagiato nel traverso nel landau
sopra una diga di cuscini, Benedetto, che sembrava diminuito di statura,
rispondeva più col sorriso che colla voce fievole alle frequenti domande del
professore. Questi gli teneva continuamente la mano al polso e di tempo in
tempo gli amministrava un cordiale. All’entrata della villa, fosse commozione o
stanchezza, il povero viso scarno dell’infermo imbiancò e si coperse di sudore,
i grandi occhi lucenti si chiusero. Mayda lo portò nel suo proprio letto. Così
avvenne che Benedetto, nel ricuperare la coscienza, non si raccapezzasse più.
Egli non la ricuperò, in quella sua spossatezza estrema, senza passare per
ombre di pensamenti vani. Gli parve esser morto, giacere steso sulla faccia
perpetuamente oscura della luna, avere a cerchio di sé l’imbuto dei raggi
solari fuggenti all’infinito e vedere sul fondo nero dell’imbuto fiammeggianti
occhi di stelle. Poco a poco si conobbe in un letto enorme, tutto scuro, cinto
di un chiaror fioco che si perdeva ai lati verso pareti male visibili. Grandi
ombre gli si movevano intorno. A fronte gli si apriva un azzurro tutto sparso
di punti lucenti. Gli batté il cuore; non erano veramente stelle? Dovette
richiamarsi alle sensazioni del letto e del proprio vivere per comprendere
ch’erano veramente stelle ma ch’egli non giaceva sulla luna. Allora dov’era? Si
lasciò andare a una dolcezza che lo invadeva, alla dolcezza di non sentirsi
quasi più il corpo e di sentirsi Dio nell’anima, tanto vicino e tenero e
ardente. Era dove piaceva a Dio.
Una mano gli si posò sulla fronte, una lampadina elettrica lo abbagliò,
un’affettuosa voce forte disse:
«Come va?»
Egli riconobbe Mayda. Allora domandò a lui dove fosse, perché non fosse
nella sua cameretta antica. Prima ancora che il professore gli rispondesse, lo
assalse un dubbio angoscioso. Il Crocifisso? Il caro Crocifisso? Era rimasto in
casa del senatore? Il Crocifisso era sul tavolino da notte. Il professore
glielo mostrò.
«Non sai» diss’egli «che lo abbiamo portato con noi?»
Benedetto lo guardò, contento del nuovo tu e porse la mano tremante
cercando quella di Mayda che gliela prese fra le proprie, dolcemente.
In pari tempo si sentì umiliato della sua dimenticanza. Era egli vicino a
perder la mente? Tutto il giorno prima aveva pensato le ultime parole da dire
agli amici e alla persona che tanto gli aveva fatto sentire la sua presenza
invisibile. Ma se perdeva la mente? Il professore diede mano a saturarlo di
chinino. In principio Benedetto accettò volontieri iniezioni dolorose e pozioni
amare, così per il desiderio di rinvigorirsi un poco e quindi di difendersi
contro un oscuramento dello spirito, come per il desiderio di soffrire. Oh sì,
soffrire, soffrire! Nei giorni precedenti aveva sofferto molto, non di
sofferenze locali, non di sofferenze acute, ma di una sofferenza inesprimibile,
diffusa dalle radici dei capelli alle estremità dei piedi. Era stata una
beatitudine dell’anima poter associare in tali momenti la volontà propria alla
Volontà Divina, accettare dall’Amore tutto il dolore che gli aveva destinato
senza dirgliene il misterioso perché, un perché nascosto nel disegno
dell’Universo, certo un perché di bene; non di solo bene della persona
sofferente ma di bene universale, di un bene radiante dal suo povero corpo
senza conosciuto confine, come il moto da un vibrante atomo del mondo. Grande
cosa soffrire, continuare umilmente Cristo, continuare la redenzione come un
peccatore può, compensare col dolore proprio il male altrui! Là sul sentiero
solitario del Sacro Speco, nel fragore dell’Aniene, fra le montagne religiose,
don Clemente gli aveva parlato così.
E adesso quel soffrir mortale era cessato. Quando il chinino cominciò a
rombargli nel capo, se ne sgomentò. Questi rimedî lo istupidivano. Chiamò il
professore; gli rispose una suora. Chiese che gli facessero venire un sacerdote
dalla Bocca della Verità.
Il professore ch’era andato a riposare per un’ora, venne a rassicurarlo e
credette allora dirgli quello che prima aveva taciuto. Don Clemente aveva
telegrafato a Selva che sarebbe giunto a Roma l’indomani mattina alle dieci.
Benedetto n’ebbe una gran gioia.
«Ma non sarà tardi?» diss’egli «Non sarà tardi?»
No, non poteva esser tardi. Egli non si trovava presentemente in pericolo
prossimo. Questione di vita o di morte era il rinnovarsi della febbre e nel
caso più disgraziato vi sarebbero state ancora molte ore. Mayda dubitò di avere
parlato troppo crudamente, gli sussurrò:
«Ma guarirai.»
E uscì della camera. Benedetto, pensando a don Clemente, passò dalla quiete
della sua contentezza nel sopore e nel sogno, dove discesero gli spiriti mali a
comporgli con le ultime parole del professore una visione d’inganno.
Egli si vide in faccia un colossale muraglione di marmo, incoronato di
ricche balaustrate, tutto bianco di luna. Là in alto, dietro le balaustrate,
agitavasi al vento una densa foresta. Sei scale, pure fiancheggiate di
balaustri, scendevano per isghembo, tre da sinistra e tre da destra, sulla
fronte del muraglione, terminando a sei ripiani sporgenti. Le balaustrate
superiori erano partite da pilastrini che reggevano urne. Ed ecco fra le urne,
a mezzo di ciascun intervallo, apparire come in danza, nello stesso istante,
nello stesso abito celeste scollato, nello stesso grazioso atto del capo, sei
giovani donne bellissime; e con lo stesso armonioso gesto delle braccia ignudo
tendere a lui dall’alto, piegando il busto, sei scintillanti coppe di argento.
Si ritraevano quindi a un punto dalla balaustrata e a un punto ricomparivano
sulle sei scale, le scendevano uguali velocemente, e, toccati i ripiani, a un
punto riporgevano graziose il busto, gli tendevano, guardandolo con una gravità
strana, le sei coppe scintillanti. Dalle loro labbra non usciva parola e
tuttavia gli era evidente che le sei giovani gli offrivano nell’argento un
liquore di vita, di salute, di piacere.
Egli sentiva di averne uno sgomento morale angoscioso e tuttavia di non
poter levare lo sguardo dalle coppe scintillanti, dai bei volti gravi, chini
sopra di esse. Si sforzava di chiudere gli occhi e non poteva, di levarsi e non
poteva, d’invocare Dio e non poteva. Le sei danzatrici piegarono a un punto le
coppe verso di lui, sei mobili nastri di liquore rigarono l’aria. «Come io»
pensò il dormente scambiando persone nella memoria turbata «a Praglia.» E tutto
scomparve, si vide davanti Jeanne. Ritta in piedi, chiusa nel mantello verde
foderato di skuntz, ombrata il viso dal grande cappello nero, ella lo
guardava come lo aveva guardato a Praglia nel momento del primo incontro. Ma
stavolta il dormente vide una rispondenza fra la gravità di quello sguardo e la
gravità dei volti delle danzatrici, vide con lo spirito la parola silenziosa
delle sette anime: povero uomo, tu ora conosci il tuo doloroso errore, tu ora
sai che Dio non è. La gravità degli sguardi non era che tristezza di pietà. Le
coppe della vita, della salute e del piacere gli erano offerte discretamente e
senza gioia come a uno ch’è nel lutto, che ha perduto ogni cosa più cara; come
il solo povero conforto che gli rimane. Così Jeanne offriva il suo amore. E il
dormente fu invaso da questa presunta evidenza nuova che Dio non è. Era una
vera e propria sensazione fisica, un gelo diffuso per tutte le membra, movente
lento al cuore. Egli prese a tremare, a tremare, e si destò. Mayda pendeva
sopra di lui col termometro in mano. Benedetto mormorò con gli occhi sbarrati:
Padre! – Padre! – Padre! – La suora suggerì: – Padre nostro che sei nei cieli…
– e avrebbe continuato con la sua voce disgraziatamente sciocca senza un brusco
richiamo del professore. Questi mise il termometro a Benedetto che quasi non se
ne avvide. Era tutto nello sforzo di staccare dall’intimo sé le immagini delle
figure tentatrici e della orribile loro parola, di gettarsi, anima e coscienza,
in seno al Padre, di aderire a Lui con l’intero essere proprio, di annientarsi
in esso. Le immagini cedevano lentamente, con ritorni di assalto sempre più
brevi, sempre più deboli. Il viso appariva tanto trasfigurato nella mistica
tensione dell’anima che Mayda si pietrificò a contemplarlo, dimenticò di
guardar l’orologio fino a che i lineamenti contratti nell’affannosa preghiera
non si vennero distendendo in una compostezza di pace. Allora si sovvenne, levò
il termometro. La suora, dietro a lui, reggeva la lampadina elettrica cercando
pure di vedere. Egli non discerneva, sulle prime, il grado. In quei pochi
secondi di silenzio e di attenzione intensa né l’uno né l’altra si avvidero che
l’infermo si era voltato sul fianco e guardava il professore. Finalmente Mayda
scosse lo strumento. Che grado aveva segnato? La suora non osò chiederlo e la
faccia del professore era impenetrabile. L’ammalato allungò la mano senza
ch’egli se ne avvedesse, lo toccò lievemente sul braccio. Mayda si volse a lui,
gli lesse negli occhi sorridenti la domanda: «e dunque?» Non rispose a parole
ma solo con l’ondular della mano spiegata: né bene né male. Poi sedette accanto
al letto, silenzioso ancora, impenetrabile, guardando Benedetto che non
guardava più lui ma guardava, rimessosi a giacere supino, i punti lucenti
nell’immenso azzurro.
«Professore» diss’egli «che ore sono?»
«Le tre.»
«Alle cinque mandi ad avvertire a Bocca della Verità.»
«Va bene.»
«Sarebbe tardi?»
A quest’ultima domanda il professore rispose con un «no» sonoro, vibrato. E
dopo un momento di silenzio soggiunse a voce più bassa «no» come a conclusione
di un ragionamento interno. Il termometro era salito a trentasette e cinque;
dalla sera precedente, più d’un grado. Se l’ascensione continuasse rapida, se
vi fosse pericolo di delirio avrebbe mandato a Bocca della Verità prima delle
cinque. L’ascensione rapida non gli pareva probabile benché quel trentasette e
cinque avesse un colore nero.
Domandò all’ammalato se la luce della lampadina l’offendesse. Benedetto
rispose che materialmente non l’offendeva, spiritualmente sì; gli toglieva di
vedere per la finestra il cielo, la notte stellata.
«Illuminatio mea» diss’egli, dolcemente.
Il professore non capì, gli fece ripetere la parola, chiese quale fosse il
suo lume, udì la voce fievole mormorare:
«Nox.»
Mayda non conosceva i Salmi, la parola profonda dell’antico ebreo, al quale
parve oscuro il nostro piccolo sole che occulta il mondo superiore. Intese e
non intese. Tacque riverente.
Benedetto cercava con gli occhi le stelle. La sua propria coscienza
trapassava in esse che lo guardavano austere sapendolo presso a raccogliere,
prima della morte imminente, tutta la storia morale della sua vita per dirla
con parole che sarebbero un primo giudizio pronunciato nel nome di Dio
Giustizia per impulso del Dio Amore, che non si perderebbero perché nessun moto
si perde, che apparirebbero, chi sa come, chi sa dove chi sa quando, per la
gloria di Cristo, come testimonianza suprema di uno spirito alla Verità morale
contro sé stesso. Così gli parlavano le stelle silenziose, animate del suo
pensiero. E la sua vita gli si disegnò nella mente da capo a fondo, non tanto
nei punti salienti esterni, come nella linea morale interna. Egli ne vide tutta
la prima parte dominata da una concezione religiosa prevalentemente egoistica,
ordinata a far convergere l’amore di Dio e degli uomini a un bene individuale,
a un fine di perfezione propria e di premio. Sentiva dolore di avere così
obbedita solamente a parole la legge che all’amore di sé stesso antepone
l’amore di Dio; ed era un dolore dolce, non perché gli fosse facile trovare
scuse all’errore, imputarlo a maestri, ma perché gli era dolcezza sentire il
proprio niente nell’onda di grazia che lo avvolgeva. E sentiva il proprio
niente in quel passato sfacelo di una religiosità manchevole, operato
dall’insorgere dei sensi, nella depressione centrale della sua vita, tutta un
tessuto di sensualità, di debolezze, di contraddizioni e di menzogne; il
proprio niente anche nella vita posteriore alla sua conversione, impulso e
opera di una Volontà interna e prevalente alla sua, durante il quale ultimo
tempo gli pareva di avere, per conto proprio, solamente gravato contro
l’impulso buono. Anelò a deporre come una spoglia pesante tutto quel «sé» che
lo tardava. Conobbe parte di questo «sé» pesante anche l’affetto alla Visione,
aspirò alla Verità Divina nel suo mistero qualunque ella fosse, si donò a lei
con tale violenza di desiderio da spezzarsi, quasi, nel palpito; e le stelle
gli folgorarono un senso così vivo della incommensurabile grandezza della
Verità Divina di fronte alla concezione religiosa sua e dei suoi amici, e insieme
una fede così certa di essere avviato a quella immensità, ch’egli esclamò
alzando di scatto la testa dal guanciale:
«Ah!»
La suora si era appisolata ma il professore no.
«Cosa c’è?» diss’egli. «Vedi qualche cosa? «
Sulle prime Benedetto non rispose. Il professore alzò la lampadina e si
chinò sopra di lui che volse il viso a guardarlo con una espressione di
desiderio intenso e dopo averlo guardato lungamente sospirò:
«Ah professore, c’è che Lei deve venire dove vado io.»
«Ma sai» disse Mayda «dove vai, tu?»
«So» rispose Benedetto «che mi separo da tutto quello che si corrompe e che
pesa.»
Poi domandò se qualcuno fosse andato alla parrocchia. Come, se non era
passato che un quarto d’ora? Si scusò, gli pareva che fosse passato un secolo.
Supplicò il professore di ritirarsi, di prendere riposo, contemplò daccapo i
lumi celesti; poi chiuse gli occhi, desiderò Gesù, due braccia umane che lo
sollevassero e lo cingessero, un petto umano, animato di Divino, dove celare il
viso entrando nell’immenso mistero.
Ebbe i sacramenti alle sei. Il termometro era salito di qualche linea.
Alle nove Benedetto domandò di Giovanni Selva. Seppe ch’era venuto, ch’era
ripartito e che c’era invece di Leynì. Volle vederlo malgrado l’opposizione del
professore. Gli disse che desiderava salutare almeno alcuni dei suoi amici
delle catacombe. Di Leynì lo sapeva, gliene aveva parlato Selva. Poté
annunciare che si erano dato convegno a villa Mayda verso il tocco. La suora
infermiera, venuta poco prima a sostituire la sua compagna, ebbe l’imprudenza
di dire che tanta gente del popolo domandava notizie. Benedetto, lì per lì, non
disse nulla; ma, uscito di Leynì, fece chiamare il professore. Il professore
non c’era, aveva dovuto recarsi all’Università. Il discorso della suora avea
fatto prendere definitivamente a Benedetto una risoluzione pensata fin da
quando la prima luce del giorno gli aveva mostrato le pareti della camera
dipinte di soggetti mitologici nello stile della Casa di Livia. Desiderò di un
desiderio indicibile la sua cameretta antica. Là avrebbe veduto gli amici, i
popolani che volessero visitarlo, e, se fosse venuta, l’altra persona. Pregò di
parlare al giardiniere e ai servi, espresse il suo desiderio; e perché coloro
rifiutavano di trasportarlo, li supplicò per amor di Dio, li commosse tanto che
si arresero, a rischio di venir cacciati. «Idee proprio di Santi» pensò la
suora. Benedetto fece il tragitto nelle braccia del giardiniere e di un servo,
avviluppato di coperte, col Crocifisso in mano. La sua consolazione di trovarsi
nella cameretta povera fu così grande che parve a tutti migliorato. Ma il
termometro saliva.
Dopo il tocco il termometro segnava
trentanove. Don Clemente era arrivato alle dieci e mezzo.
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