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I Selva e di Leynì raggiunsero il gruppo
di persone che li aspettavano nel viale degli aranci. Erano tutti laici meno
uno, un giovine sacerdote abruzzese, piccolo, dal viso olivastro, dagli occhi
neri, profondi e ardenti. Vi era lo studente Elia Viterbo, ora cristiano, stato
battezzato da quel sacerdote. Vi era il biondo giovinetto lombardo prediletto
dal Maestro. Vi era un giovine operaio, abruzzese anche lui, amico del prete,
bellissimo, dalla faccia di apostolo; vi era quell’Andrea Minucci della
riunione religiosa di Subiaco; vi erano un pittore, un ufficiale di marina
comandato al Ministero e altri; tutti uomini che ogni amore terreno avrebbero
sacrificato all’amore di Benedetto. Nessuno di loro aveva creduta vera una sola
delle voci calunniose sparse contro di lui. Lo avevano difeso con impetuoso
sdegno contro i compagni diffidenti. Si potrà dire di essi un giorno che furono
posti alla prova dalla Provvidenza ed eletti quindi a continuatori dell’opera
del Maestro. Di Leynì era della loro schiera; in Giovanni Selva essi ammiravano
e riverivano un uomo ammirato e riverito dal Maestro, provandone però
soggezione. Stavano da un pezzo nel viale degli aranci ad aspettare appunto
lui; perché a entrar dal Maestro non si aspettava che il signor Giovanni. Molti
di loro avevano le lagrime agli occhi. All’avvicinarsi dei Selva, tutti si
levarono il cappello in silenzio. Giovanni si avviò, seguito dall’intero
gruppo, verso la casina. Sua moglie veniva ultima. Uno dei giovani le accennò
di passare avanti, ma ella non volle e nessuno insistette. Non era luogo né ora
di cerimonie; Maria sentiva che quegli uomini erano chiamati prima di lei a
continuare l’opera di Benedetto dopo la sua morte. Camminavano in silenzio e a
capo scoperto malgrado la pioggia, Selva come gli altri.
Mayda li ricevette sulla soglia. Al suo
ritorno dall’Università, egli aveva accolto la notizia del passaggio di
Benedetto alla casina con un terribile scoppio di collera. Non aveva poi
disarmato con la suora, con il giardiniere, con i servi; ma si era persuaso in
cuor suo, considerando la nota delle temperature prese ogni mezz’ora, che quel
colpo di follia non aveva modificato sensibilmente il corso fatale della
febbre. Alla domanda se si dovesse restar poco nella camera, cercare che
l’ammalato parlasse il meno possibile, rispose:
«Fate tutto quello che desidera; è il
banchetto del condannato.»
E li precedette sur una scaletta di
legno.
«I tuoi amici» diss’egli, entrando nella
camera. Li fece passare, e, chiuso l’uscio, si appoggiò a uno stipite della
porta, con le mani incrociate dietro il dorso, guardando Benedetto. L’alta
figura bruna non si mosse più di là tutto il tempo che Benedetto trattenne i
suoi fedeli.
Benedetto aveva il viso acceso, gli
occhi lucenti, il respiro frequente. Salutò gli amici con un «grazie» vibrante
di sovreccitazione lieta che strappò a qualcuno dei singhiozzi. Allora egli
alzò la mano come pregando di chetarsi. Dopo ricevuto il Viatico la sua
continua preghiera era stata di poter parlare ai suoi discepoli prediletti, di
avere da Dio parole di verità e forza bastevole a pronunciarle. Si sentiva ora
il petto pieno dello Spirito.
«Venitemi vicini» diss’egli.
Il giovinetto biondo passò avanti agli
altri, s’inginocchiò, rigato il viso di tacite lagrime, al letto del Maestro
che gli posò la mano sul capo e riprese:
«Restate uniti.»
Le dolorose parole taciute accorarono
maggiormente; ma ciascuno sentì che quell’anima era per dare l’ultima luce di
ammaestramento e di consiglio, ciascuno represse il pianto. La voce di
Benedetto suonò nel silenzio più profondo.
«Pregate senza posa e insegnate a pregare senza posa. Questo è il fondamento
primo. Quando l’uomo ama veramente di amore una persona umana o una idea della
propria mente, il suo pensiero aderisce in segreto continuamente al suo amore
mentr’egli attende alle più diverse occupazioni della vita, sia vita di servo,
sia vita di re; e ciò non gli toglie di attendervi bene ed egli non ha bisogno
di rivolgere molte parole al suo amore. Gli uomini del mondo possono portare
così nel loro cuore una creatura, una idea di verità o di bellezza. Portate voi
sempre nel vostro il Padre che non avete veduto ma che avete sentito tante
volte come uno Spirito di amore spirante in voi, che vi metteva il desiderio
dolcissimo di vivere per esso. Se così farete, l’azione vostra sarà tutta viva
di spirito di Verità.»
Riposò un poco, guardò don Clemente
seduto accanto al letto, sorrise.
«Parole Sue della cara Santa Scolastica»
diss’egli. E continuò:
«Siate puri nella vita perché altrimenti
disonorerete Cristo davanti al mondo; siate puri nel pensiero perché altrimenti
disonorerete Cristo davanti agli spiriti di bontà e agli spiriti di nequizia
che si combattono nelle anime dei viventi.»
Detto così, egli cinse col braccio la testa del giovinetto biondo quasi a
difenderla dal male e pregò nell’anima per lui ch’era forse la sua maggiore
speranza. Poi ripigliò:
«Siate santi, non cercate né lucri né
onori, mettete in comune per le vostre opere di verità e di carità il superfluo
misurato secondo la voce interna dello Spirito. Siate benefici amici a tutti i
dolori umani nei quali v’incontrerete, siate mansueti ai vostri offensori e
derisori che saranno molti anche nell’interno della Chiesa, siate intrepidi a
fronte del male; datevi alle necessità l’uno dell’altro; perché se tali non
vivrete non potrete servire lo Spirito di Verità e perché il mondo riconosca la
Verità dai vostri frutti, perché i fratelli riconoscano dai vostri frutti che
voi siete di Cristo.»
Don Clemente si piegò sopra di lui per
la pietà del suo respirare affannoso, gli disse piano che riposasse. Benedetto
gli prese, gli strinse la mano, tacque alcuni istanti. Poi, levatigli in viso i
grandi occhi lucenti, rispose:
«Hora ruit.»
E ricominciò:
«Ciascuno di voi adempia i suoi doveri
di culto come la Chiesa prescrive, secondo stretta giustizia e con perfetta
obbedienza. Non prendete nomi per la vostra unione, né parlate mai
collettivamente, né fatevi regole comuni oltre a queste che vi ho dette.
Amatevi, l’amore basta. E comunicate gli uni con gli altri. Molti lavorano
nella Chiesa lo stesso lavoro al quale vi preparate voi con la preparazione
morale che vi ho prescritta: voglio dire un lavoro di purificazione della fede
e di penetrazione della fede purificata nella vita. Onorateli e apprendete da
essi ma non fateli partecipi della vostra unione se spontaneamente non vengano
a voi per mettere il loro superfluo in comune. Questo sarà il segno che Iddio
li manda a voi.»
Qui Benedetto s’interruppe, pregò
dolcemente Giovanni Selva di venirgli più vicino.
«Desidero vederla» diss’egli. «Quello
che ho detto e più ancora quello che dirò è nato da Lei.»
Stese la mano a prendere quella di don
Clemente, soggiunse:
«Il padre lo sa. – Noi dobbiamo sentire
Iddio presente in noi stessi ma dobbiamo anche sentirlo ciascuno di noi
nell’altro e io lo sento tanto in Lei. – Sì» proseguì volgendosi a don Clemente
come per un appello alla sua autorità «questo è il fondamento vero della
fraternità umana e per questo coloro che amano gli uomini e si figurano di
essere freddi con Dio sono più vicini al Regno di tanti che si figurano
di amare Dio e non amano gli uomini.»
Il giovine prete che stava, quasi
timidamente, dietro Selva, esclamò: «oh sì sì!» Selva piegò il capo,
sospirando. L’alta figura bruna addossata a uno stipite della porta non si
mosse, ma il suo sguardo fermo a Benedetto ebbe una intensità, una tenerezza,
una tristezza indicibili.
Don Clemente si piegò da capo
all’infermo, gli disse di sostare un poco; anche la suora ne lo pregò. Mayda
non parlò né parlarono i discepoli. Benedetto bevve un po’ d’acqua, ringraziò e
riprese il suo dire.
«Purificate la fede per gli adulti ai
quali è incomportabile il cibo degl’infanti. Questa parte del vostro lavoro è
per quelli che sono fuori della Chiesa, le appartengano di nome o no, per quelli
ai quali voi vi mescolerete incessantemente. Lavorate a glorificare l’idea di
Dio adorando sopra ogni cosa la Verità e insegnando che non vi è verità contro
Dio né contro la Sua legge. Badate però con altrettanta cura che gl’infanti non
accostino la bocca al cibo degli adulti. Non vi offenda una fede impura, una
fede imperfetta dove pura è la vita e giusta è la coscienza; perché rispetto
alle profondità infinite di Dio poca differenza vi è tra la fede della
femminetta e la fede vostra e se la coscienza della femminetta è giusta, se la
sua vita è pura, voi non passerete avanti a lei nel Regno dei Cieli. Non
pubblicate mai scritti intorno a questioni religiose difficili perché sieno
venduti ma distribuiteli secondo prudenza e mai non vi apponete il vostro nome.
«Lavorate per la penetrazione della fede
purificata nella vita. Questo lavoro è per quelli che nella Chiesa sono e nella
Chiesa vogliono essere e si chiamano turba, popolo infinito; per coloro che
veramente credono nei dogmi e si compiacerebbero di crederne anche più, che
veramente credono nei miracoli e si compiacciono di crederne anche più, ma
veramente non credono nelle Beatitudini, che dicono a Cristo: «Signore,
Signore!» ma pensano che sarebbe troppo duro di fare tutta la Sua volontà e
neppure hanno zelo di cercarla nel Libro Santo e non sanno che religione è
sopra tutto azione e vita. A costoro che pregano abbondantemente, spesso
idolatricamente, insegnate voi a praticare, oltre alle preghiere prescritte,
anche la preghiera mistica in cui è la fede più pura, la più perfetta speranza,
la più perfetta carità, che purifica per sé l’anima e purifica la vita. Vi dico
io di prendere pubblicamente il posto dei Pastori? No; ciascuno lavori nella
propria famiglia, ciascuno lavori fra i propri amici, chi può lavori nel libro.
Così lavorerete anche il terreno onde i Pastori sorgono.
«Figli miei, non vi prometto che
rinnoverete il mondo. Lavorerete nella notte senza profitto apparente come
Pietro e i suoi compagni sul mare di Galilea, ma Cristo alfine verrà e allora
il vostro guadagno sarà grande.»
Tacque, pregò per i suoi discepoli,
sospirò nella prescienza di molto loro soffrire da molte specie di nemici e
disse le ultime parole:
«Più tardi le vostre preghiere; adesso
il vostro bacio.»
I discepoli domandarono a una voce di
essere benedetti. Egli si schermì, disse di non sentirsi degno:
«Non sono che il povero cieco, al quale
il Signore ha aperti gli occhi col fango.»
Don Clemente non parve udire,
s’inginocchiò dicendo:
«Anche me.»
Benedetto gl’impose con umile obbedienza
la mano sul capo, disse le parole latine della benedizione rituale e lo baciò.
Così fece agli altri, uno per uno. Parve a ciascuno sentirsi fluire
nell’interno da quella mano il vento dello Spirito. Quando fu la volta del
prete, questi mormorò:
«Maestro, e noi?»
Il morente si raccolse alcuni istanti,
rispose:
«Siate poveri, vivete da poveri, siate
perfetti, non compiacetevi né di titoli né di vesti di onore, non dell’autorità
personale né dell’autorità collettiva, amate coloro che vi odiano, astenetevi
dalle parti, pacificate nel nome di Dio, non accettate uffici civili, non
tiranneggiate le anime né vogliate governarle troppo, non fate culture
artificiali di sacerdoti, pregate Dio di esser molti ma non temete di esser
pochi; non crediate che vi abbisogni molta scienza umana, solo vi abbisogna
molto rispetto per la ragione e molta fede nella Verità universale e
inscindibile.»
Ultima si avvicinò Maria Selva.
S’inginocchiò a due passi dal letto. L’infermo le sorrise, le fe’ cenno di
alzarsi.
«La ho già benedetta in Suo marito»
diss’egli. «Non li so distinguere. Ella è una parte dell’anima sua. Ella è il
suo coraggio, lo sia sempre più nelle ore penose che lo aspettano. E siate
insieme la poesia dell’amore cristiano fino all’ultimo. Fermatevi ora qui un
poco tutt’e due.»
La luce venne meno rapidamente nella
camera mentre i discepoli uscivano. Si udì il rombo del tuono, la suora andò a
chiudere la finestra. Prima guardò nel giardino, esclamò: «poverini!» Benedetto
udì, volle sapere, apprese che il giardino formicolava di persone venute per
vederlo, che una pioggia tempestosa era imminente. Pregò i Selva di attendere e
Mayda di far entrare il popolo.
Un calpestio pesante suonò sulla
scaletta di legno. La porta si aperse, parecchi popolani entrarono adagio in
punta di piedi. In un momento la camera fu piena. Una calca di teste scoperte
si affacciava alla porta. Nessuno parlava, tutti guardavano Benedetto,
smarriti, riverenti. Benedetto salutò colle due mani, a braccia aperte.
«Vi ringrazio» diss’egli. «Pregate come
certo a qualcuno di voi ho insegnato. E Dio sia con voi, sempre.»
Un omone grande gli rispose, tutto
rosso:
«Noi si pregherà ma Lei non more, sa.
Lei non creda sta cosa. Però ce benedica.»
«Sì, ce benedica» suonò da ogni parte.
«Ce benedica.»
Intanto dalla scaletta venivano voci
impazienti di gente che voleva e non poteva salire. Benedetto disse qualche
cosa, piano, a don Clemente. Don Clemente ordinò che i presenti sfilassero
davanti al letto uscendo poi dalla camera perché potessero sfilare anche gli
altri.
A uno a uno passarono tutti. Erano
genterella del Testaccio, operai, garzoni di negozio, venditrici di frutta,
piccoli merciaiuoli, accattoni. Benedetto andava ripetendo di tanto in tanto,
con voce stanca, parole di congedo. – Addio. – Pregate per me. – A rivederci in
paradiso. – Chi passando davanti lui piegava il ginocchio in silenzio, chi
toccava il letto e si faceva il segno della croce, chi gli raccomandava sé o
persone care, chi gli diceva benedizioni. Uno gli domandò perdono di aver creduto
ai suoi calunniatori. Fu allora una sequela di «anche a me, anche a me.» Passò
la gobbina di via della Marmorata, cominciò a raccontargli piangendo che il suo
vecchio prete si era confessato e avrebbe voluto dirgli tutta la sua
gratitudine. Chi seguiva la spinse via ed ella passò per sempre dagli occhi di
lui. Tanti così gli passarono davanti l’ultima volta e piangendo si
allontanarono da lui per sempre, ch’egli aveva consolati nello spirito e nel
corpo. Molti ne riconobbe e salutò col gesto. Quelli giravano via pure girando
il volto lagrimoso continuamente a lui. La fila che scendeva sfiorando sulla
scaletta la fila che saliva, le antecipava le impressioni della camera
dolorosa. – Ah che viso! – Ah che voce! – Dio, muore! – È un angelo di Dio! –Vedrete!
– Ci ha il paradiso negli occhi! – E non pochi mormoravano maledizioni
agi’infamacci che lo avevano calunniato, non pochi parlavano, fremendo, di
veleno e di assassinio. Dio, portato via dai questurini, ritornava così! Un
lugubre tuonare continuo e il gran pianto uguale della pioggia coprivano i
sussurri pietosi e irosi.
Finito di scolare il fiume del popolo,
Mayda fece aprire la finestra perché l’aria si era viziata. Benedetto pregò che
gli alzassero un poco il capo, desiderando vedere il gran pino inclinato al
Celio. La verde livida corona dell’ombrello tagliava obliqua il cielo
tempestoso. La guardò a lungo. Riadagiato il capo sul guanciale, accennò a don
Clemente di piegarsi verso di lui, gli disse, quasi all’orecchio:
«Sa, quando mi hanno portato qua dalla
villa, ho sentito un fortissimo impulso a pregare che mi portassero sotto il
pino che si vede dalla finestra, per morire lì. Ma ho anche pensato subito
ch’era una cosa troppo voluta, e che non era buona. E poi – soggiunse
sorridendo – sarebbe sempre mancato l’abito.»
Un lieve moto delle labbra di don
Clemente gli rivelò ch’egli aveva recato l’abito con sé da Subiaco. N’ebbe un
assalto di commozione intensa. Giunte le mani, stette in silenzio fino a che
durò la lotta interna fra il desiderio che la Visione si compiesse e la
coscienza che non si sarebbe compiuta naturalmente. Si raccolse in un atto di
abbandono alla Divina Volontà.
«Il Signore vuole che io muoia qui»
diss’egli. «Però mi permette di avere almeno l’abito sul letto prima di
morire.»
Don Clemente si chinò sopra di lui e lo
baciò in fronte.
Intanto i Selva attendevano in disparte.
Benedetto li chiamò a sé, disse loro che avrebbe ricevuto la signora Dessalle
fra mezz’ora, ma che la pregava di non venire sola. Poteva venire con loro.
Insieme ai Selva uscì anche Mayda. La suora dormicchiava. Allora Benedetto
pregò don Clemente di recarsi poi dal Pontefice, di dirgli come la fine della
Visione non si fosse avverata, come quindi tutto l’apparente miracoloso della
sua vita svanisse, come finalmente egli avesse sentita con grande dolcezza,
prima di morire, la benedizione del Papa.
«E gli dica» finì «che spero di poter
parlare ancora nel suo cuore.»
L’ambascia era diminuita ma la voce si
affiochiva, le forze venivano mancando colla febbre. Don Clemente gli prese e
tenne a lungo il polso. Poi si alzò.
«Lei va a prendere l’abito?» mormorò
Benedetto con un sorriso dolcissimo. Il bel viso del padre si coperse di
rossore. Egli vinse presto il sentimento umano che gli consigliava di simulare,
e rispose:
«Sì, caro. Credo che sia il tempo.»
«Che ore sono?»
«Le cinque e mezzo.»
«Lei crede alle sette? Alle otto?»
«No, non così presto, ma desidero che tu
abbia questa consolazione subito.»
In un salottino della villa, Giovanni
Selva, guardato l’orologio, disse a sua moglie:
«Andate.»
L’intelligenza era che con Jeanne
andassero da Benedetto Maria e Noemi. Questa stese le mani a suo cognato.
«Sai» diss’ella, tutta tremante « vado a
dargli una notizia che riguarda l’anima mia. Non ti offendere se la do a lui
prima che a te.»
Jeanne intuì la notizia che Noemi
avrebbe portato al morente: la sua prossima conversione al Cattolicismo. Tutta
la forza ch’ell’aveva raccolto in sé per il momento supremo l’abbandonò.
Abbracciò Noemi e scoppiò in lagrime. I Selva le fecero animo, ingannandosi
circa quel pianto. Ella pregò, fra i singhiozzi, che andassero, che andassero;
a lei era impossibile di venire. Noemi sola intese. Jeanne non voleva venire
perché aveva indovinato e non poteva fare quanto avrebbe fatto lei. La supplicò,
la scongiurò, le mormorò tenendola abbracciata: «perché non cedi, in questo
momento?»
Jeanne rispose solamente, singhiozzando:
«Oh tu mi capisci!» E perché Noemi
protestava di non voler più andare, la supplicò alla sua volta di andare, di
andare subito, di non tardare a dargli questa consolazione. Ella non poteva,
non poteva, non poteva! Non ci fu verso di smuoverla. Un domestico venne a
chiamare Selva. Maria e Noemi uscirono.
Rimasta sola, Jeanne ebbe un momento
l’idea di raggiungerle, di arrendersi, di andargli a dire ella pure una parola
di gioia. Cadde ginocchioni, stese le braccia, quasi a lui che le stesse
davanti, singhiozzò: «caro, caro, come ti potrei ingannare?» Aveva lottato più
volte col proprio scetticismo imperioso e sempre invano. Uno slancio di
dedizione alla fede, lo sapeva, non sarebbe stato durevole.
«Perché non mi vuoi sola?» gemette
ancora, sempre ginocchioni. «Perché non mi vuoi sola? Perché le coscienze pie
non si offendano? Perché la mia disperazione non ti turbi? Perché non mi vuoi sola?
Posso io dire davanti a loro quello che ho dentro di me? Tu che sei buono come
il tuo Signore Gesù, perché non mi vuoi sola? Oh!»
Ella scattò in piedi, convinta che se
Piero la udisse risponderebbe «sì, vieni.» Stette un attimo come impietrata,
colle mani alle tempie; e mosse poi lentamente, simile a una sonnambula, uscì
del salotto, attraversò il vestibolo, scese in giardino.
Pioveva tanto dirottamente, il cielo,
corso tuttora di tempo in tempo dal tuono, era tanto fosco che prima delle sei,
quella sera di febbraio, pareva già quasi notte. Jeanne entrò come stava, a
capo scoperto, nella pioggia fitta e fredda, prese, senz’affrettar il passo,
non il viale degli aranci a destra ma il sentiero che scende a sinistra fra due
righe di grandi agavi a un boschetto di lauri, di cipressi e di ulivi cui si
aggrappano rose. Passò dal gran pino che guarda il Celio e girando al basso
verso destra per un lungo arco di via, si condusse alla fonte che un avello
antico raccoglie nel pendìo ripido fra una cintura di mirti, pochi passi più
giù che la casina del giardiniere. Ivi si fermò. Una finestra della casina
luceva; certo la finestra di Piero. Vi passò un’ombra; forse Noemi! Jeanne
sedette sull’orlo marmoreo della vasca. Era possibile di affogare lì dentro?
Avrebbe cercato di morire se non ci fosse Carlino? Pensieri vani; non vi si
trattenne. Attese, attese, sotto la pioggia fredda, con gli occhi e l’anima
fermi alla finestra lucente. Altre ombre. Partono, adesso? Sì, forse partono
Maria e Noemi ma non lasceranno Piero solo. Ci sarà Mayda, ci sarà il
benedettino, ci sarà la suora. Ebbene, ella tenterà. Un passo frettoloso nel
viale degli aranci; qualcuno che si avvia alla casina. Jeanne, che si era
alzata, torna a sedere. Ecco, quell’ignoto è entrato. Movimento di ombre alla
finestra. Due persone escono parlando vivacemente; le voci del professore e di
Giovanni Selva. Pare che parlino di qualcuno venuto a prendere notizie. Altre
persone escono, l’acqua delle grondaie mormora sugli ombrelli. Devono esser
loro, Maria e Noemi. Jeanne si alza da capo, si avvia.
Passa l’uscio della casina, vede gente
nella cucina del giardiniere, prega una ragazza di salire a vedere presso
l’ammalato, chi ci sta. Quella esita, cerca schermirsi, ma poi va, scende
subito. Ci stanno il prete e la suora. Jeanne domanda un po’ di carta, una
matita, un lume. Comincia a scrivere:
«Padre – Mi rivolgo...» S’interrompe,
sta in ascolto. Qualcuno scende la scaletta di legno. Un passo d’uomo; dunque
il padre. Allora gli parlerà. Butta via la matita, gli va incontro sulla
scaletta. È scuro, don Clemente la scambia per Maria Selva.
«È quieto» dice, prima ch’ell’apra
bocca. «Pare che dorma. Gli ha fatto tanto bene quello che Sua sorella gli ha
detto. Il professore crede che passerà la notte. Faccia venire anche l’altra
signora. L’ha domandata. Credevo che fossero andate a prenderla.»
Jeanne tace, si fa da banda. Egli dice
«permesso» e passa senza guardarla, va in cucina per avere un po’ di pane e un
po’ d’acqua, digiuno com’è dalla sera precedente. Jeanne trema come una foglia.
Egli l’ha domandata! Queste parole, il favore del caso le danno le vertigini.
Sale piano piano, spinge l’uscio piano piano. La suora la vede, fa per alzarsi.
Ella le accenna, col dito alla bocca, di non si muovere, si accosta piano piano
al letto, vede una lunga cosa nera distesa sulle coltri, si arresta
esterrefatta, non comprende. Ode un lievissimo gemito. Il giacente alza la mano
destra con un gesto vago, come se cercasse qualche cosa. La suora si alza ma
Jeanne, più pronta, è di slancio al guanciale, si china su Piero che ha ripreso
a gemere, ad agitar la mano.
Jeanne lo interroga affannosa, egli non
risponde, geme, guarda qualche cosa accanto al letto e Jeanne offre un
bicchiere d’acqua, gli vede scotere il capo, si dispera di non capire. Ah, il
Crocifisso, il Crocifisso! La suora alza il lume da terra, Jeanne porge il
Crocifisso a Piero che gli affligge le labbra e la guarda, la guarda con gli
occhi grandi, vitrei, dov’è la morte. La suora getta un grido, corre a chiamare
il padre. Piero guarda Jeanne, guarda Jeanne, si sforza di prendere il
Crocifisso a due mani, di alzarlo verso lei, le sue labbra si agitano, si
agitano, non ne esce suono. Jeanne si raccoglie nelle proprie le mani di Piero,
bacia il Crocifisso di un bacio appassionato. Egli chiude allora gli occhi, il
suo volto s’irradia di un sorriso, si piega un poco sulla spalla destra, non si
move più.
FINE.
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