Il parere di Ulisse
Tu conosci quella
sala così elegante e signorile nelle proporzioni, così ricca di fregi nelle
pareti e nel soffitto, di marmi preziosi e persino di madreperla nel pavimento,
che si direbbe ideata dall'architetto della Casa Reale di Micene per il suo
signore Agamennone? il quale vi sta solamente dipinto insieme alla principessa
Ifigenia, a monsignore Calcante, ad alcuni ufficiali civili, militari ed
ecclesiastici, a soldati, a marinai, a un cane di Corte e ad una cervetta che
andrà sotto il coltello invece del giovinetto florido corpo femminile. Il
nostro secolo democratico vi ha preso stanza con certi mobili che avrebbero
fatto stomaco all'ultimo di quegli argivi dipinti; i quali si vedono
continuamente tra' piedi un andare e venire di male bracati barbari e di
barbare cui non sempre Diana avrebbe
volute per sè. Ci si fanno molte chiacchiere, in quella sala, ma solamente il
cane, un bel grosso cane di Tessaglia, ha l'aria di stare ad ascoltarle dalle
pareti. Nessuno degli altri personaggi potrebbe, di solito, pigliarci
interesse, tranne forse la principessa, che, pur di cambiare posto, entrerebbe
nel «Kränzchen» delle signorine, e vestirebbe persine un reo costume di madame
M.
***
Ma nel luglio di
ciascun anno le cose cambiano e quei grandi Achei non possono a meno di
seccarsi dei discorsi di questi piccoli italiani, i quali non parlano quasi più
che di lingua greca, e ne parlano senza un riguardo al mondo, come se fossero
in casa propria e soli. Forse qualcuno di noi piglia Calcante per Abramo,
Ifigenia per Isacco, la cervetta per il caprone e si crede in casa di ebrei.
Anche iersera, proprio ai piedi di Agamennone vi era un piccolo guazzabuglio di
cappellini oscillanti e di ventagli battenti, con qualche piuolo mascolino nel
mezzo, dove la lingua di S. M. era trattata del tutto senza complimenti. «Oh
Dio, quel greco!» diceva una signora veneziana, nonna di un liceale. «Quel
malignaso greco!»
- «La tasa,
contessa!» esclamava la sorella d'un altro liceale con un consenso profondo. «È
una lingua barbara, già» disse ossequiosamente un maestro di musica. Una mamma
che ha due rampolli impaniati, uno in Platone e l'altro in Senofonte, non
faceva che battersi nervosamente il ventaglio sul petto, mormorando con gli occhi
rivolti al cielo: «Pori tosi, pori tosi!» E finalmente un'altra signorina
focosa, capricciosa, con due occhi prepotenti, esclamò: «È poi anche una lingua
ridicola! Quando mio fratello legge quegli sgorbi col professore non si sente
che «ohi, cai, ahi, pai, tai, toi, e basta.»
«Signori» disse un
grave Acheo dal muro «questa non mi pare convenienza.»
Cioè, disse niente,
ma parve a me che avrei detto così anche dipinto.
«E Lei e Lei e Lei»
sbuffò verso di me la signorina dagli occhi prepotenti, brandendo il ventaglio
come una sciabola «perchè fa quel muso, Lei? Su, dica, fuori! A cosa serve
questo greco?»
Serviva certo in
quel punto a far vedere due bianchissime file di dentini da pipistrello.
«È più facile dirle,
signorina, a cosa non serve. Non serve a ordinare un beefsteak a Corinto nè un
gelato ad Atene; non serve a leggere romanzi; non serve a ornare la
conversazione italiana; non serve per nomi eleganti di vivande; non serve per
fare all'amore se non in qualche rarissimo caso; non serve per avere più facilmente
un posto in diplomazia; non si richiede sempre
per insegnarlo nei licei e nelle università e molto meno per pubblicare
traduzioni di Sofocle o d'Eschilo; non serve finalmente alla professione del
droghiere cui è chiamata una moltitudine di anime umane.»
«Allora» replicò la
signorina, impavida «a che cosa serve?»
«Questo è un
segreto» risposi.
***
Mezz'ora dopo, tutto
il guazzabuglio di cappottini, di ventagli e di voci passò nella vicina stanza
del piano ed una delle signorine di casa ci suonò ammirabilmente Grieg. Io non
dirò che per qualcuno di quegli uditori Grieg e greco fossero due cose molto
simili come nel suono dei nomi così nella oscurità della sostanza. Quanto a me,
che trovo Grieg assai chiaro malgrado le sue stranezze, mi posi a sedere
guardando quell'affresco stupendo dove il pittore d'Ifigenia gettò, fuori d'una
grande arcata classica, le onde chiare dell'Egeo, Calipso e un'ancella nel
bagno, una costa bianca come Albione che par dipinta col siero, e sul davanti,
gittò a sedere in un angolo del parapetto, con le gambe dentro la stanza, un
tenebroso Ulisse meditabondo e triste, dipinto col sangue, con la bile e con
l'ombra. Giacomo Zanella voleva che quell'ingrugnato greco fosse Achille perchè
la Dea nel bagno gli pareva alquanto vecchia e perciò più simile a Teti che a
Calipso; ma il nobile poeta non pensava che appunto le prime rughe di Calipso
rendevano meditabondo quel Savio e voglioso di pigliar il largo. Io che quando
sento della buona musica faccio volentieri a meno di ascoltarla e vado invece a
caccia di fantasmi, mentre passava un adagio di Grieg accorato, stanco e
meditabondo come Ulisse, diedi la vita a quell'uomo dipinto e mi posi a
parlargli con la foga con la quale son uso parlare io quando taccio:
«Consiglia tu,
Odisseus dai molti consigli. Di' tu se noi barbari dobbiamo gittare ancora le
perle della tua lingua regale, matribus detestata, a tutti i nostri
figliuoli che le mastichino durante cinque anni nient'altro che per la gioia di
poterle un giorno sputar via per sempre.
Di' tu, o vagabondo straccione pastore di popoli che sai le leggi e i costumi
di mezzo mondo, di' tu se non sarà bene per noi di aprire le porte amare della
scuola di greco e mandarne liberi tutti i droghieri per torto di nascita, tutti
gli sventurati che domandano a cosa il greco serve. Noi, noi resteremo nella
scuola, noi poeti, noi per diritto di nascita cultori della bellezza, noi
ancora innamorati di Elena, di Calipso...»
«Pigliatevela»
mormorò il traditore.
«....di Elettra e di
Antigone: noi che soli ancora sentiamo la divina dolcezza del vostro idioma,
ahimè lacerato adesso nei dittonghi più armoniosi da una rinnovata barbarie. I
pensatori resteranno nella scuola e i discepoli ardenti che pendono ancora dal
labbro di Platone e non si rifiutano di ascoltare Aristotile. Resteranno nella
scuola gli spiriti amorosi del passato, quelli che si ristorano deliziosamente
in Erodoto, che si travagliano con ardore su Tucidide e che non si rifiutano
talvolta di dormire sopra Senofonte. La tua lingua insemina,
o re, e la grande arte di cui tu stesso fosti maestro avranno ancora e sempre il culto degli spiriti eletti, ma più libero,
più degno. Leva il volto e parlami. Metti una volta fuori anche qui le parole
tue che sogliono sul principio cader lente e placide come neve senza vento.
Mettile fuori una volta sincere, se puoi, o augusto bugiardo dalle gambe
corte!»
Ulisse levò il volto
e mi guardò.
«Tu restare a
scuola?» diss'egli. «Tu sei vecchio, tu non vai più a scuola. La mia lingua, i
poeti italiani che non vanno più a scuola, la sanno.»
«I nostri padri»
incominciai «Giacomo Leopardi, Ugo Foscolo...»
«Non i vostri padri,
ma voi, dico.»
«Noi, noi...... Può
essere che qualcuno di noi la sappia. Certo qualcuno finge di saperla. Quanto a
me, il passare dai libri moderni e dalle faccende tediose al racconto che Omero
scrisse de' casi tuoi mi parve sempre
uno scendere dal più cocente polverio estivo in acque fresche e pure che vadano
con moto blando.»
«Bene; ma lo sai,
tu, il greco?»
«Quante volte non
lessi nell'originale quel passo dove Omero ti descrive appunto pensoso, presso
al mare, della tua patria lontana!»
«Bene; ma lo
intendevi?»
Esitai un poco e poi
risposi:
«Amico, ti confido
che tenevo un'Odissea pubblicata Parisiis editore Ambrosio Firmin Didot,
con la traduzione latina a fronte del testo.»
Incominciarono
allora le famose parole placide e lente come la neve:
«Doveva essere così.
Qui la mia lingua non è morta; è rimorta. Puzza; buttatela in mare. Le correnti
la riporteranno al Jonio, dal Jonio si spanderà nell'Egeo. I flutti la faranno
suonare intorno ai lidi del Peloponnese e dell'Attica, intorno alle isole e fin
sulle prode Retee. I figli de' figli miei, che torneranno grandi, la serberanno
con fede e amore nei loro sacrarii come i sacerdoti dell'India serbarono nei
templi loro un'altra lingua, morta forse nel dare alla luce la mia. E voi
latini, voi germani, voi slavi, se vi punge desiderio della nostra grandezza,
andrete colà pellegrini.»
Questo mi parve un
consiglio da vile oste e volevo sostenere il mio punto; ma due signorine
suonavano allora a quattro mani un certo Pascolo dell'innocenza, onde,
malgrado il vivissimo dispiacere mio e, credo, anche di Ulisse, non si potè a
meno di addormentarci tutt'e due.
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