Il nostro secolo
Io vidi il nostro
secolo quattro volte. La prima volta fu sulla terrazza dello Stabilimento di
Lido, a Venezia, tre anni sono. Egli sedeva tutto grigio fra due scarpini
gialli e una cravatta rossa, presso l'entrata del caffè, al tavolino di destra.
Era certo più giovanilmente elegante che non convenisse alla sua vecchiaia;
ridicolo, però, non era. Non poteva esserlo, malgrado la sua parrucca e i suoi
baffi tinti, con quella faccia così straordinariamente aspra e cattiva. Le
spalle grosse e curve, le mani scarne e grinzose tradivano i suoi molti anni;
lo sguardo li smentiva o almeno li smentì per un momento. Quello sguardo non
cercava nè il bel mare tinto di verde e di viola, nè le eleganti signore che
andavano e venivano sulla terrazza. Era immobile, pareva spento in un tedio, in
un fastidio mortale del luogo e della gente. Passò frettoloso un cameriere con
un gran vassoio in aria e, svoltando, urtò leggermente quel tavolino. Udii uno
scatto, un borbottamento furioso, e, passato il cameriere, vidi colui girargli
il capo dietro, seguirlo con due occhi di fiera; dopo di che le sopracciglia
gli durarono un pezzo agrottate. Molti, entrando e uscendo, lo salutavano con
rispetto. Egli rispondeva appena. Un mio conoscente che mi aveva scorto da
lontano venne a me e, passandogli davanti, gli fece una gran levata di
cappello, lo salutò con effusione veneziana: «Conte, buon giorno». Quegli chinò
un poco il capo con un grugnito; niente altro.
«Chi è quel
vecchio?» domandai subito al mio conoscente. «Fiol d'un can!» mi rispose
costui, forte coloritore della parola. «Gastu sentido, ah?». E grugnì
imitandolo. «In malora! - Ti dirò io chi è, proseguì. È il conte X, di Milano,
ma io lo chiamo «il nostro secolo», questo diavolo di secolo, che non crepa
ancora con novant'anni sul groppone. Già, se X non ha novant'anni, pochi gliene
mancano. Un egoista, anima mia, che si sarebbe messo suo padre sotto una scarpa
e sua madre sotto l'altra se gli avessero detto che fa bene ai calli. Un
superbo cane che non rispetta neanche Satanasso.
Guardalo là! Con
quel muso di fico secco, con quella pelle di mummia marcia che deve avere, un
mostro d'un vizioso che mantiene ancora delle ballerine. Un rabbioso maledetto
che, a passargli un po' troppo vicino, morde». Qui l'amico grugnì da capo: «In
malora i cani!» diss'egli. «Con tutto questo» riprese «pieno di ingegno. Ha
viaggiato. Fin dove ci sono cuochi, letti elastici, bordeaux, sigarette turche
e il resto, quel mastino lì c'è stato. Da giovane ha servito in diplomazia,
dicono; per divertirsi. Sa tutte le lingue, ha letto tutti i libri moderni di
cui il mondo ha parlato. In politica ha fatto il democratico e porta il suo
stemma sulle babbucce. Non crede in Dio, ma crede nelle goccie rigeneratrici.
Fa la doccia ogni giorno e ha un'anima che puzza di tutte le porcherie. E poi gli
piace la musica. Insomma, quando ti dico che somiglia al nostro secolo come uno
sputo a un altro!»
***
L'amico, mezzo
artista, mezzo uomo politico, l'aveva a morte, in quel quarto d'ora, col secolo
presente, perchè una certa personcina non era venuta a Lido col vaporetto delle
quattro, come aveva promesso. Io lo lasciai sfogare. Pensavo a quel vecchio che
intanto avevo veduto alzarsi e partire un po' curvo, a passo lento, con le mani
dietro la schiena. Adesso sapevo bene chi era, avendo più volte udito parlare
del conte X a Milano e a Como. Era un gentiluomo lombardo vedovo da trent'anni
di una donna celebre per la sua bellezza, per i suoi amori e per una morte
spaventosa. Amabile cavaliere in gioventù, era diventato, invecchiando, un
atrabiliare terribile. Non so se il suo nome di battesimo fosse Damone; so che
molti, a Milano, lo chiamavano don Demonio.
La seconda volta lo
vidi l'anno scorso in una villa del lago di Como. Eravamo in pochi: due uomini
e tre signore. Egli era poco meno ingrugnato che a Lido; pigliava parte alla
conversazione con una voce rude, con un parlare impetuoso e rotto. Le signore
proposero una questione di psicologia amorosa a proposito di non so quale
romanzo dove una donna appassionata e magnanima spingeva l'uomo amato da lei,
innamorato di lei, verso un'altra donna che le pareva tale da renderlo più
felice.
«Sarà stato guasto»
borbottò il conte «avrà avuto qualche difetto segreto. O quella donna sarà
stata di legno. Quell'autore è di stucco.»
***
Allora compresi che,
almeno per un rispetto, egli meritava davvero d'essere chiamato «il nostro
secolo.» Il nostro secolo, quando parla e scrive d'amore, è stupido come un
giovinetto che vuol parere corrotto, o come un vecchio che vuol farsi credere
gagliardo. Bisogna dire che in amore i sensi sono tutto e che l'amore umano
mira solamente a soddisfar quelli. Perciò bisogna descrivere i loro moti, i
loro desideri, le loro compiacenze. Bisogna mostrare che si ha questa scienza,
quantunque ciascuno sappia che tutti l'hanno. Bisogna negare l'impero delle
anime forti sul proprio corpo, il sacrificio volontario, che talvolta fanno
della soddisfazione amorosa. Bisogna dire, almeno, che costoro sono di
ghiaccio, benchè si senta tutto il loro sangue salire in un fiotto ardente,
arrestarsi, fremere, stridere, discendere sotto il comando della volontà. Tanti
omini, che dicono questo con l'intenzione di piacere a tante donnette, se ne
vanno poi col naso all'aria, contenti di sè come se fossero diventati grandi.
Mai non si è predicato così largamente un concetto dell'amore così basso come
lo predica questo putrido carcame di secolo.
Quell'altro carcame
di secolo in giacca nera e sottoveste bianca, dopo una breve discussione dove
io non misi quattro parole, se ne andò. Le signore mi dissero ch'egli non era
un così gran tristo come la gente credeva. Superbo, sì. Tanto superbo che la
morte gli faceva orrore, sopra tutto per l'idea delle ruvide mani plebee che
avrebbero maneggiato il suo corpo. Vizioso, anche, sì; però capace di una certa
fedeltà di cuore perchè aveva sempre
conservato e conservava tuttavia una relazione antica con certa gentildonna
oramai niente affatto piacevole, carica d'anni, di malanni e di umori bizzarri.
***
La terza volta lo
vidi quest'anno a Pontresina poco dopo avere appreso, con grandissimo dolore,
la sventura del povero Alberto Sormani. «Guarda», pensai, e ora me ne pento,
«Sormani è morto, e quella maligna carcassa lì si trascina ancora!».
L'incontrai presso l'Hôtel Roseg. Aveva seco una signora sui sessant'anni,
alta, magra, con un sottile naso adunco e due grandi occhi cerchiati di nero.
Egli teneva la sinistra e lei la destra della via; camminavano lenti, senza
parlarsi. Neanche andavano proprio a paro, ma si capiva ch'erano insieme perchè
avevano, una cosa strana!, del tutto lo stesso sguardo. «Quei due vecchi lì»
disse uno ch'era meco e non li conosceva «sono stufi morti d'essere marito e
moglie.» Io tacqui. Avrei domandato volentieri a don Demonio perchè si tenesse
ancora legato come amante a una donna che all'amore, quale lo aveva sempre inteso lui, non serviva più. Ma don Demonio
mi passò accanto, tutto elegante, tutto profumato di héliotrope, senza
guardarmi e non gli domandai nulla. - Quell'uomo mi dissi, non avrà creduto ai
grandi amori fedeli che Iddio dona. Ecco che Belzebù me lo ha impastoiato con
questo sempiterno cataplasma.
Quel che successe il
giorno dopo al ghiacciaio di Roseg, molti giornali lo hanno raccontato poco
esattamente e io lo so dalle fonti più sicure, le guide stesse che vi
accompagnarono il conte. Egli arrivò allo chalet in landau, con la signora,
verso le tre pomeridiane. Guardarono col cannocchiale un branco di camosci che
si vedevano pascere sulla montagna, poi la signora entrò a prendere qualche
cosa e il signore si fece accompagnare al ghiacciaio da due guide. Per giungere
al ghiacciaio bisogna superare la morena, una congerie di ciottoli e di
macigni, con certe buche dove non è difficile, cadendo, di spezzarsi le gambe.
Le guide, poi, vedendo che il vecchio signore faticava assai e avanzava
lentissimamente, gli offersero due volte la mano. Egli rifiutò, la seconda
volta, con un tale accesso di furore che ne tremava tutto. Arrivò al ghiacciaio
senza guai e proseguì abbastanza facilmente, avendo le scarpe ferrate. Però si
fece, sulle prime, tender l'ascia da una guida. Per la solita via che le guide
tengono si trova presto un crepaccio obliquo, profondissimo, ma stretto; un
crepaccio che fa allibire i novizi e sorridere le guide. Giunto colà, il
signore sedette e ordinò alle guide di andar a prendere la signora. Coloro
esitarono perchè faceva freddo e non pareva loro bene di lasciar quel vecchio
stanco a sedere sul ghiaccio per quasi due ore. Proposero che uno andasse e
l'altro restasse. Egli replicò furiosamente che la signora, per superare la
morena, aveva bisogno di due guide e che ubbidissero. Partirono. La signora non
volle muoversi dal caffè. Al loro ritorno sul ghiacciaio non trovarono più il
conte. Trovarono sparsi sull'orlo del crepaccio il suo cappello, il suo soprabito,
il suo bastone e un portamonete aperto, pieno d'oro; come una mancia buttata là
con disprezzo, silenziosamente. Spaventati, gridarono, chiamarono, guardarono
nel crepaccio. A un metro o poco più di profondità, quel crepaccio, che alla
superficie ha forse un metro e mezzo di larghezza, si restringe per modo da non
lasciar passare un corpo umano. Ne seguirono l'orlo, e a un certo punto
scopersero sotto l'orlo, nella parete interna, due leggere traccie sporche,
recenti, rigate di cinque o sei strisce, che ascendevano diritte al basso.
Giudicarono subito che fosse una scivolata di due talloni ferrati. La parete
opposta era lì un poco rientrante, si vedeva giù come una stretta gola
verdognola in fondo alla gran bocca sgangherata del ghiaccio. In quella gola un
corpo umano poteva entrare. Corsero via, ritornarono con molti compagni e molta
corda, ma fino ad oggi nulla è più comparso del conte ed è a credere che,
secondo il suo desiderio, mani umane non lo toccheranno mai più.
***
La quarta volta che lo
vidi fu questa notte, in sogno. Mi pareva esser disceso nell'oscurità gelata
del crepaccio. Scorsi prima nell'ombra una macchia nera con qualche cosa di
biancastro nel mezzo e in alto; poi sentii l'odore di héliotrope, e
venni discernendo poco a poco il cadavere. Era orribile. Stava a cavalcioni di
uno spuntone del ghiaccio, con le gambe penzolanti, le braccia aperte e il capo
rovesciato all'indietro, sulla parete obliqua. Nel biancor vago dello sparato
luceva un brillante, e nel biancor vago del viso morto, gli occhi aperti,
crucciosi ancora e superbi, parevano di vetro.
No, il nostro secolo
non morrà così. Farà la sua confessione generale mescolando i vanti, legittimi
e grandi, ai rimorsi; avrà esequie di prima classe con discorsi e poesie e sarà
solennemente sepolto nello champagne. Per alquanto tempo non si parlerà
che di lui, in seguito verrà dimenticato dalle moltitudini come, nell'oscuro
abisso di ghiaccio, il cadavere del conte. Ma nello stesso modo che io rividi,
con orrore, costui, così qualche poeta dello splendido futuro potrà riveder
morto, in sogno, negli abissi del passato, il secolo decimonono, sinistro quale
apparve negli ultimi anni suoi, spirante superbia, odio, cupidità, odori di
profumeria e di putredini.
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