Risposta
Seghe di Velo, 16
luglio 1894.
Cara Matilde,
Il vostro biglietto
roseo e l'articolo più roseo ancora mi trovano in una verde solitudine mondana
che segretamente mi ama, mi parla, mi ristora di ogni stanchezza e d'ogni
tedio, mi conforta e mi aiuta in un lavoro d'arte. Grazie, cara Matilde; la
vostra notizia è buona. Io sono contento che uomini valorosi amino e pensino
come io amo e penso; e, se ignorano il nome mio, ne son pure contento perchè
sdegno mescolare questa indomabile vanità, nostra miseria comune, ad una
compiacenza migliore. Così fui lieto, non è molto, che un editore inglese
rifiutasse una versione offertargli del mio discorso sulla Origine dell'uomo,
scusandosi con dire, molto ragionevolmente, che le mie idee potevano parer
nuove in Italia, ma che in Inghilterra tenevano già il campo. Quale indegno
cavaliere dello Spirito sarei se non sentissi così? Noi non fummo posti in
sella per aver croci nè spalline, ma solamente per combattere. Purchè i nostri
avanzino, che importa a ciascuno di noi cadere dimenticato?
Ragionando della
battaglia che ho dato io e della dubbia fortuna che vi ebbi, voi dite di me:
«che poteva egli fare solo solo?» In quella questione che pare speciale, benchè
vi poggi su l'universo, io sono forse ancora, qui in Italia, solo; ma lungi dal
pensar cosa io possa fare in questa condizione, ne traggo, cara Matilde, la
coscienza di una forza. Non credo aver bisogno di citare Ibsen che fa dire a
qualcuno de' suoi personaggi: «sono forte perchè son solo». Uno è meglio inteso
quando parla solo; se l'idea ch'egli annuncia e difende è nuova per i suoi
ascoltatori, essa viene al cimento netta e intera, immune da quell'interno
disordine onde soffrono certe idee grandi, come l'idea socialista,
rappresentate e difese in troppi diversi modi.
E se quest'uomo solo
contraddice, come avvenne a me, una moltitudine, la novità e la singolarità
della cosa gli conciliano una certa attenzione; egli stesso se ne compiace ed
affronta il conflitto con una baldanza che nascerà forse in parte d'orgoglio, ma
che pure gli giova; è libero, non ha compagni che gl'imbarazzino l'azione; se
non ha il diritto mai, nella sua responsabilità verso l'Idea, d'essere
imprudente, nemmeno è costretto, da convenienze umane, a cautele che gli
ripugnano. Dei vituperi che gli si scagliano per la sua fede, tutta la gloria è
sua. Essi non possono abbatterlo nè sgomentarlo; egli corre invece pericolo
d'insuperbirne troppo, di rendere nel suo cuore un troppo amaro e orgoglioso
disprezzo agl'insultatori.
«Ogni plebe m'insulta e rossa e nera,
Dio, perch'io vidi un cielo aperto e
Te.
Si leva e come un'iraconda fiera
Sorge il demonio de l'orgoglio in
me.»
Io conosco chi
scrisse questi versi dopo essere stato insultato da destra e da sinistra per
una Idea che egli era solo a difendere. Del resto, quale sia stato il mio
successo nel sostenere pubblicamente, con tre consecutivi discorsi, la
sostanziale armonia dell'Idea evoluzionista con la fede cristiana, nè voi nè io
nè altri lo può dire. Prima ancora di scendere in campo io sapevo perfettamente
bene che una maggioranza enorme del mio pubblico non si sarebbe curata del mio
concetto; che altri si sarebbero stretti, come voi dite, nelle spalle per
disdegno di un tema così lontano dalle loro opere e dai loro pensieri; che
altri avrebbe pigliato interesse oggi al problema come ad un giuoco nuovo di
Parigi, alla question d'Orient, per gittarlo domani, quando arriva la question
romaine.
Io non mi sono
curato affatto, mai, di ciò che potrebbe pensare, dire, fare tutta questa
gente. Previdi pure di venire assalito come un empio; questo era triste, ma, in
Italia, inevitabile; e di venir disprezzato come un piccolo cervello credente;
questo era desiderabile e bello. Ebbi infatti quella tristezza e questa gioia.
Cara Matilde, voi mi avete detto «non impavido perchè non pugnace» mi avete
dato una taccia gravissima, credendo scolparmi con una ragione di temperamento.
Ma qui il temperamento non c'entra e io respingo le vostre parole «non
impavido» nel senso che voi avete dato loro e che i vostri lettori vi avranno
trovato. Tutto il naturalismo, tutto il materialismo, tutto il positivismo,
tutto insieme ciò che a voi pare così prepotente contro le forze di uno
scrittore solo che vive in una piccola città, non può atterrirmi nè poco nè
molto. Alcuni discepoli di quelle dottrine mi hanno combattuto pubblicamente
con misura e cortesia, di che fui loro grato; altri usò lo scherno e
l'ingiuria; nessuno, ch'io sappia, mi oppose confutazioni che seguissero passo
passo gli argomenti miei, anche perchè, a confutarmi così, si richiedeva una
conoscenza della religione cristiana che nessuno fra gli avversari del
cristianesimo, lo dico ben alto, in Italia possiede. Quando una tale
confutazione mi venisse opposta, risponderei e vedreste, cara Matilde, che la
mia risposta non sarebbe incivile, perchè mio padre e mia madre mi hanno troppo
bene educato; che sarebbe forse ispirata, in qualche caso, a quella simpatia
che sento vivissima per tutti gli onesti cercatori del Vero, miei avversari o
no; ma che in nessun caso tradirebbe la menoma timidezza. Potrei difender male
la mia causa; non darei deliberatamente indietro d'un passo. Dunque «non
impavido» nel senso vostro, timido di fronte alle negazioni del cristianesimo,
no, mille volte no. Solamente, io temo Iddio. Il mio cristianesimo non è un
cristianesimo di fabbrica mia, non porta il mio suggello e io non ne possiedo
il brevetto. Io sono un cristiano che non si crede permesso di scegliere fra i
dogmi nè fra i precetti della sua Chiesa e che tutti li accetta con adesione pensata
e libera, con la coscienza di adempiere un dovere verso Dio. Io temo quindi
solamente di offendere questi dogmi e questi precetti. Perciò tenni sempre un'attitudine riverente e guardinga verso la
mia Chiesa. Non credetti bene rispondere alle violenze di fanatici che per la
loro ignoranza scuso e compiango; ma risposi a coloro che nel campo religioso
si levarono a combattermi con temperanza di forma e con serietà di concetto,
con argomenti di cui sono il primo a riconoscere la gravità. Risposi loro con fermezza,
ma con un rispetto di cui sentivo il dovere, abbandonando affatto qualsiasi
difesa della persona mia, del mio proprio ingegno, del mio proprio sapere, non
cedendo un pollice solo del terreno che ho preso.
Voi scrivete, cara
Matilde, che la mia causa abbisogna di lottatori ardenti e acerrimi. Le vivaci
correnti limpide della vostra prosa vanno e brillano fra terre politiche e ne
rodono, ne portan con sè qualche poco. Lottatori ardenti e acerrimi ci vogliono
a rovesciare un ministero o a trasformare una Camera; dove si tratta di
abbattere secolari edifici di opinioni filosofiche, scientifiche, religiose la
bisogna corre diversa e i metodi, credetelo, hanno ad esser diversi.
Evoluzionista
convinto, io non credo alla rapida trasformazione di abitudini intellettuali
inveterate e profonde. Il cammino d'ogni alta idea nel paese dove giunge nuova
è sempre lento, è in gran parte
occulto. Molto strepito di lotte quotidiane, di polemiche più o meno acerbe gli
può anche nuocere, sia stimolando tutte le resistente conservatrici, sia
scemando credito all'Idea e a' suoi difensori perchè non si discute
abbondantemente, frequentemente di cose elevate e difficili, senza mettere di
quando in quando un piede in fallo. Bisogna affidare i germi buoni alla terra e
necessariamente anche al cielo, al calore e alla luce, alle acque vitali che
vengon dall'alto. Io previdi, come vi dicevo testè, la indifferenza, il
disprezzo, le molteplici avversioni che avrei incontrate sul mio cammino; ma
sperai pure che in qualche generoso cuore la parola che io diedi sarebbe
accolta con gioia e darebbe frutti di vita, di accesa fede nell'ascensione
umana da un fosco passato a un futuro glorioso, di opere conformi alla legge
che quest'ascensione governa. Io confido non averlo sperato invano; e se da un
solo cuore ottenni tanto, il mio successo è stato grande.
Vi prego, cara
Matilde, di pubblicare queste mie parole nel giornale stesso dove, otto giorni
sono, avete scritto di me. Vi ringrazio, vi stringo la mano e ritorno all'arte
cui pure chiedo che disponga ad ascendere.
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