Il mattino dopo, alla stazione
di..., la penultima del suo lungo viaggio, Cortis trovò B. e alcuni altri amici
che gli erano venuti incontro. Correvano ansiosi su e giù lungo il treno,
aprendo gli sportelli, ficcando il viso nelle carrozze. Scoperto Cortis, gli
furono tutti sopra a stringergli forte la mano, a salutarlo con voce sommessa e
in aria compunta.
Molto male? diss'egli,
oscurandosi pure, guardando rapidamente ciascuno di loro.
Malissimo rispose B. accasciato.
Malissimo, te lo dico schietto. Per me, non faccio complimenti, affare andato.
Piano, piano saltò su un altro. A
questo poi, oh Dio!... La scusi, dico, non mi pare.
Allora B., che un momento prima
parlava come se non avesse più fiato in corpo, scattò in piedi e si mise a
tempestare come un energumeno:
Ma sì, andato, Le dico, ma sì! Non
mi pare! Ma cosa non mi pare? Ma dove vive Lei? Ma non sa della
società operaia? Ma non sa del giornale?
E i muri? suggeriva un terzo
sottovoce.
Bravo! urlò B. E i muri? Dieci
manifesti di quell'altro per uno dei nostri!
Ma L'aspetti, si vedrà oggi!
Sì, bravo, cosa vuole che si
veda?
Si vedrà oggi, Le dico.
Ah sì, Lei li volta, Lei li
ribalta, quella gente!
Ma sì!
Ma no!
Adesso schiamazzavano tutti
insieme, litigavano tra loro come se Cortis non fosse presente.
Un momento, signori! diss'egli
soverchiando con la sua voce le altre. Quest'adunanza, c'è o non c'è?
Sì!
Altro!
Sì, signore!
Sicuro!
E ci dovrò intervenire? ripigliò
Cortis.
Ecco il punto, capisci! gridò B.
rovesciandoglisi quasi addosso e scotendogli sul viso le mani con le punte
delle dita raccolte in su. Ecco il punto che noi faremo la proposta d'invitarti
e non sappiamo ancora se passerà, perché gridano, capisci! gridano ch'è
inutile! che ne sanno abbastanza! Che che che che che...
Ma questa lettera? interruppe
Cortis. Questa lettera mia che hanno stampata?
Ah esclamò B. percotendosi la
fronte e poi frugandosi le tasche a due mani. Che testa! Dire che sono venuto
apposta! L'ho qui, l'ho qui!
Fuori giornali, fuori lettere,
fuori note. B., rosso come un gambero, guardava in fretta e in furia carte e
carte, le buttava per terra, sui sedili, sulle gambe degli amici. Finalmente
uscì un brano di giornale con la famosa lettera diretta a un tale prof. M. di
Venezia, morto da due mesi. Il giornalista asseriva di averla in ufficio e ne
pubblicava alcuni periodi.
La lettera è un pretesto disse B.
raccogliendo e rinfrescando, ad una ad una, le sue carte disperse. La lettera è
un pretesto. Non ti vogliono.
Eh no, per questo osservò un
altro, se la lettera non fosse sua...
Ma è sua sussurrò qualcuno,
mentre Cortis, saltati i commenti del giornale, leggeva questi terribili
periodi:
Se per ora non si può far di
meglio, transeat; cerchiamo di passare come che sia; ma tu sai che io
sono cattolico e che confido in quello sviluppo progressivo della civiltà
cristiana in cui confidava il conte di Cavour. Perciò affretto col desiderio il
momento in cui si costituirà un partito parlamentare, un elemento di governo
con questo ideale. Che alcuni tentativi per muovere la pubblica opinione sieno
falliti, oportebat: tu sai meglio di me che questa è stata sempre la
preparazione storica di tutte le imprese grandi e difficili. Altri ancora ne
cadranno, ma io sono fermamente convinto che a un dato momento questo partito
sorgerà per effetto di necessità politiche, e che allora, anzi prima di allora,
si troverà l'eroe, come direbbe il tuo Carlyle, per condurlo; dietro al quale
eroe, o nelle prime o nelle ultime file, ci sarà pure, se vivo, il tuo
DANIELE CORTIS
Altro che mia! esclamò Cortis
verso colui che ne aveva espresso il dubbio. Altro che mia! Perfettamente mia!
Euh! fece B. Si sapeva bene.
Gli altri tacquero.
E cosa dicono questi signori
elettori? chiese Cortis.
Cosa dicono? rispose B. Guarda il
giornalista cosa dice.
Il giornalista è un idiota.
Ah, mio caro, i nostri elettori non
sono mica tanti Cavour. Non capiscono. Vedono cattolico, vedono civiltà
cristiana, vedono nuovo partito parlamentare, non intendono bene le
distinzioni che si possono fare tra conservatore e clericale, e dicono
addirittura che già sei clericale. Il chiasso maggiore poi, lo fanno per quella
prima frase del passare come che sia e gridano... scusa, io adesso
ripeto... gridano che è una slealtà, una indegnità che ti basta di farti
eleggere in un modo o nell'altro, che ti fai giuoco del collegio e che so io.
Ma già bisogna sapere che quell'altro ha fatto un lavoro del diavolo, e per
questa gente lavorata la lettera è un pretesto. Infatti, son loro che non ti
vogliono neppur sentire.
Ma bisogna disse Cortis con gli
occhi scintillanti, bisogna che mi sentano! Oh Santo Dio, cosa possono aver
capito da quella lettera? bisogna che mi sentano!
Sì, sì, bisogna, bisogna brontolò
B. con un riso amaro. Ma vorranno? Speriamo!
Io vengo senza invito e solo, se
i miei amici non hanno il coraggio di accompagnarmi rispose Cortis. E se
nessuno mi dà la parola, me la piglio. E...?
Qui Cortis nominò un pezzo
grosso, quel grande elettore che lo favoriva.
Eh, caro mio! rispose B. Eccolo.
E alzata la mano destra, con le
dita aperte in aria, la girò sul polso come se una molla gli fosse scattata
all'avambraccio.
Da quella parte proseguì siamo in
terra del tutto. Anzi ricordati che, se oggi parli, ci vuole un'allusione a
questo despota che pretende fare la pluie et le beau temps nel collegio.
Bene disse Cortis, adesso vi
prego di lasciarmi pensare un poco.
Si cacciò in un angolo del
vagone, lesse e rilesse l'atto d'accusa, poi si mise a riflettere, ora
guardando dal finestrino, ora coprendosi il viso con le mani, fino a che B. gli
disse:
Ci siamo. Sono le dodici
soggiunse. Io ho qui la carrozza e ti porto a casa mia. Là ti lascio a far
colazione e vado a tastare il terreno. Al tocco vengo a prenderti e si va, coûte
que coûte. Oh, guarda, quell'altro!
Mentre Cortis scendeva dal treno,
il suo competitore si accomiatava, sotto la tettoia, da una folla di amici che
parlavan forte e ridevano.
Capite? mormorò B. con una faccia
sepolcrale. Li sentite? Sono sicuri.
Qualcuno del gruppo avversario
vide Cortis. Tutti si voltarono, meno l'emulo, a sbirciarlo insolentemente.
Appena egli e la sua comitiva ebbero oltrepassato il cancello dell'uscita, si
udirono alle spalle due o tre fischi.
Aspettatemi qui disse Cortis
fermandosi su due piedi.
Tornò tranquillamente indietro e
andò diritto verso l'altro candidato che aveva già un piede sul montatoio del vagone,
gli stese la mano senza curarsi degli altri, come se non esistessero. Colui
diventò rosso rosso, gli fece un garbuglio di saluti premurosi, si scusò
goffamente di non averlo veduto prima.
Oh! rispose Cortis. Non esigevo
di essere salutato da te. Io, come gentiluomo e amico di gentiluomini, ci tengo
a fare un atto di cortesia verso il mio avversario prima d'incrociar le lame.
Addio.
Ciò detto, ripassò a fronte alta
in mezzo al gruppo, e raggiunse B. e gli altri che avevano spiato il colloquio
da lontano.
Cosa, cosa, cosa? chiesero tutti,
pallidi, ansiosi.
Niente, andiamo via disse Cortis
ripigliando B. a braccetto. Gli ho rivelato con la cortesia più squisita che
lui e i suoi amici sono un branco di mascalzoni. Adesso mi rispettano, capite?
E poi questo mi fa bene, di dar del mascalzone a chi se lo merita.
Venti minuti dopo, tutti
sapevano, nella piccola città, la scena della stazione, i fischi, l'atto di
Cortis. B., che appena accompagnatolo a casa, era corso al caffè, tornò a
prenderlo al tocco, tutto scalmanato, gridando:
Presto, andiamo, buona
impressione, sono inteso col Comitato. La bravata quegli altri la chiamano
così, ma a mezza bocca, a mezza bocca la bravata ha fatto buona impressione. Un
gentiluomo, dicono. Io poi ho predicato a quei cretini che non ti volevano
sentire. Oh che duri! Ma ho predicato, ho predicato!
Cortis lo interruppe sorridendo.
Grazie diss'egli; ma sai poi se
sarai contento di quello che dirò?
Io non voglio il mascalzone! urlò
B. Io non voglio il mascalzone! Andiamo, presto, andiamo. Presto!
Alla porta del casino il
vetturale Schiro, che serviva qualche volta la contessa Tarquinia, fermò
Cortis. Alla signora contessa premeva assai di parlare con il signor Daniele;
gli aveva mandato la carrozza perché venisse a Passo di Rovese subito dopo il
discorso. Cortis ordinò a colui di tenere i cavalli pronti per le due e mezzo.
Nulla di nuovo? diss'egli.
No, signore.
Stanno tutti bene?
Sì, signore. Almeno lo credo.
Anche la contessina?
La contessina? La contessina è andata
via, signore. È andata via iersera. Ho sentito che dicevano che andavano a
Roma.
Ehi! disse B. vedendo Cortis che
stava lì trasognato, senza parlare, né muoversi. Andiamo! Presto!
Sulla porta del casino, sui
pianerottoli delle scale, v'erano già gruppi di elettori che s'aprivano davanti
a Cortis, salutandolo in silenzio, con una certa curiosità mista di riserbo; e
poi si avviavano lentamente, dietro a lui, verso la sala. In sala, tre o
quattro membri del Comitato elettorale discorrevano in piedi presso il gran
banco che fronteggiava una fitta ordinanza di sedie vuote, rigide, come parvero
a Cortis, e arcigne. Quei tre o quattro fecero verso di lui, quand'egli entrò,
un passo quasi peritoso, lo salutarono con imbarazzo.
Ella viene dalla Svizzera? disse
il più disinvolto.
Sì, signore.
Bel paese!
Sì, signore.
Allora B. si fece avanti tutto
affabile e sorridente.
Il nostro Cortis diss'egli è
dispostissimo...
Non è la parola interruppe
Cortis, mentre l'altro ripeteva ecco, ecco facendo grandi cenni d'assenso con
le mani e con la testa, e tirandosi indietro per dar luogo all'attore
principale. Non è la parola. Io era desiderosissimo di offrire agli elettori
delle spiegazioni a cui hanno tutto il diritto; e poiché la mia candidatura è
stata già discussa e deliberata qui, ho creduto doveroso, avendo a prendere la
parola, di prenderla qui.
Ecco giusto il presidente rispose
uno del Comitato, accennando ad un signore alto e grosso che entrava allora
tutto affannato e frettoloso e che salutò Cortis con maggior cordialità degli
altri. Quando questi si fece a ripetergli il discorso di prima lo interruppe
subito, dicendo: Sì, sì, so, va bene, ho parlato qui con l'amico B., sono
inteso, e poi mandò i colleghi a raccogliere e far entrare in sala i signori
elettori.
I quattro cretini mormorò B. a
Cortis guardando il soffitto mentre coloro uscivano.
Ecco disse allora il presidente
pigliando Cortis a parte. Io direi così, e gli snocciolò il discorsetto
preparato, con un'occhiata al suo interlocutore e un'occhiata agli elettori che
entravano, abbassando involontariamente la voce al comparire di certe facce
nemiche. B., che s'era piantato lì vicino per cogliere, se poteva, senza
parere, il discorsetto confidenziale del presidente, non ne perdeva una delle
facce che comparivano, le studiava, le seguiva per la sala con occhi benevoli o
diffidenti, fissava le teste che qua e là si chinavano l'una verso l'altra, con
la manifesta cupidità di porre un orecchio in tutti i bisbigli.
Molta gente diss'egli a Cortis,
poiché il presidente ebbe preso il proprio posto. Molti brutti musi. E quella
marmotta di presidente, dirà bene?
Costui suonò in quel punto il
campanello, guardandosi attorno con molta dignità e senza alcun sospetto che
proprio allora gli regalassero della bestia. Ricordò poi come in una precedente
seduta fosse stata approvata, a grande maggioranza, la candidatura Cortis, per
la quale il Comitato aveva anche iniziata la propaganda elettorale. Soggiunse
che una recente pubblicazione, a tutti nota, aveva levato tal rumore nel paese,
aveva prodotte impressioni così vive e diverse da rendere necessaria una nuova
adunanza e una nuova discussione. V'era stato, a dir vero, qualche dissenso fra
i colleghi dell'oratore sulla opportunità d'invitare all'adunanza l'onorevole
candidato signor Cortis, che si sapeva poi anche lontano. Qualcuno aveva
proposto di discutere e deliberare preliminarmente se il candidato dovesse
limitarsi a dare spiegazioni o no. La improvvisa venuta del signor Cortis aveva
tolto di mezzo questi dubbi, e il Comitato si teneva sicuro che anche i signori
elettori preferirebbero discutere e deliberare sulle pubbliche dichiarazioni
del candidato, piuttosto che sopra un brano di lettera. Quindi l'oratore
accordava la parola, se non vi fossero opposizioni, all'onorevole Cortis.
Il presidente sedette soddisfatto
girando il capo a cercare approvazioni a destra e a sinistra sui visi
accigliati dei colleghi; e trascorso un momento senza che nessuno parlasse,
Cortis si levò in piedi, cominciò a parlar lentamente, con voce misurata, in
questo modo:
Signori!
Io vi ringrazio e vi felicito di
avermi accordata la parola.
Che i miei nemici, per assalirmi,
abbiano dovuto compiere un atto disonesto, né me ne dolgo, né me ne vanto; è
una cosa naturale, e io lascierò volentieri nell'ombra, che ad essi giova, i
loro atti e le loro persone. Sta ch'è venuta in luce una mia lettera...
Un mormorìo sordo si levò nella
sala.
Sì, onorevoli signori riprese
Cortis con forza, mentre i suoi amici lo guardavano pallidi e palpitanti, una
lettera che io raccolgo come mia, senza credere di abbassarmi.
Qualcuno in un canto della sala
gridò Bene!, gli altri zittirono; seguì un silenzio profondo.
Si è pubblicata una mia lettera
suscettibile, forse, d'interpretazioni molto gravi, molto atte a togliermi la
fiducia di coloro che temono l'introdursi nella Camera di elementi ostili alle
nostre istituzioni e alla libertà; tanto che alcuno di voi, alcuni elettori di
cui rispetto l'onesto terrore, ripugnavano persino, come ho testè inteso
dall'egregio presidente, a udirmi. Ebbene, signori, io vi felicito che abbia
prevalso in voi il partito più liberale e più equo, malgrado il senso ignobile
che si vuol attribuire ad alcune mie parole. Io respingo, a questo proposito,
con disprezzo l'accusa di slealtà che mi viene mossa, la indegna accusa di
volermi far giuoco di questo nobile collegio.
Sì, ho scritto privatamente e
oggi ripeto senza esitazione in pubblico, che se per ora non si può far di
meglio, convien passare come che sia; e voi comprenderete facilmente,
rileggendo quella lettera, che io non potevo alludere alla mia situazione
personale in questo collegio; comprenderete che io alludevo invece al presente
periodo della vita politica nazionale, periodo poco prospero, a mio avviso, e
poco promettente, periodo che bisogna pure attraversare alla meglio, augurando
e preparando un altro ideale.
La stessa voce di prima gridò:
Bravo!.
Vi furono dei zitto, delle
risatine sommesse. Tutti guardavano verso un angolo della sala.
Io ringrazio il mio incognito amico
disse Cortis, guardando anche lui da quella parte e ottenendo opportunamente
dall'uditorio un riso blando, io ringrazio il mio incognito amico che mi
conforta con l'esempio a esprimere le convinzioni del mio cuore anche a costo
di essere vox clamantis in deserto.
Risa e alcuni applausi tosto
repressi. Cortis si fermò un momento; quindi riprese abbassando e rallentando
la voce:
Vengo a questo ideale.
Chinò il viso per raccogliere un
poco i pensieri. Nessuno fiatava. Tutti gli occhi erano fissi in lui che rialzò
subito la fronte e la voce.
No, onorevoli signori, il mio
ideale politico non sarà mai l'ideale politico del partito che vorrebbe
subordinare i diritti e gli interessi dello Stato a un'autorità, sia pur
grande, sia pur legittima, ma fondata sovr'altra base, con altri mezzi, per
altro fine. Io posso desiderare, per un concetto di equilibrio politico e per
un patriottico voto di pacificazione interna, che questo partito accetti
onestamente l'attuale ordine di cose, ed entri utile e rispettabile nella
Camera; me se io avrò in quel tempo l'onore di sedervi, non militerò mai con
esso...
Applausi scoppiarono qua e là,
non caldi, non unanimi; l'amico incognito rimase zitto.
... fino a che, almeno,
trasformatosi di partito essenzialmente religioso in partito essenzialmente
civile, non modifichi profondamente le proprie vedute sui diritti e le funzioni
dello Stato.
È evidente, signori, che
scrivendo una lettera familiare, io ho potuto non servirmi dei termini più
esatti e propri.
A questo punto un sussurro si
levò nella sala, una specie di finalmente! diluito nella soddisfazione. Cortis
s'interruppe.
No diss'egli, io non ripudio una
sola di quelle parole, ma è certo che avrei potuto chiarire il mio concetto con
maggior precisione, come cercherò di fare in questo momento.
Oggi siete voi, signori elettori
della vecchia legge, che avete in pugno un grande potere dello Stato, ma si sta
già predicando il Nuovo Testamento e domani ne farete parte
evangelicamente alle turbe. È una ingiuriosa follìa di credere che questi nuovi
elettori vorranno subito mettere le mani su qualche cosa e che il paese andrà a
soqquadro; ma è pure una follìa il non riconoscere che si sarà fatto, non un
salto nel buio, ma un lungo passo avanti nella chiara e fatale via della
evoluzione democratica, e che le nuove moltitudini elettorali saranno inclinate
a procacciarsi un utile diretto con la loro partecipazione al Governo, a
promuovere un'azione legislativa, esagerata ed improvvida, esclusivamente a
loro favore. Io non ne provo, signori, una vana e puerile paura; io credo che
vi è in questo fermento democratico qualche lievito rubato al cristianesimo; io
vedo nel mio pensiero un luminoso e possibile ideale di democrazia cristiana,
molto diverso da quel dispotismo di maggioranze egoiste, avide di godimento,
che minaccia le libertà moderne. Non è sulla base di aerei ideali che si può
costituire un vero partito politico; non vi si cammina su, lo so bene. Ma un
ideale ci vuole, esso è la forza di coloro che avversano le nostre istituzioni;
e noi, quali ideali abbiamo da opporre loro? Oggi la riforma elettorale e
l'abolizione del corso forzoso, domani la perequazione fondiaria e la rendita a
100.
E non basta? disse una voce.
No rispose Cortis, non basta a
tenere uniti i cuori e le intelligenze, molto più con un corpo elettorale
ampliato in cui il sentimento e la fantasia avranno tanto maggior potenza. E
quando mi si parla di un partito nuovo il cui ideale sarebbe puramente la
conservazione degli ordini sociali e politici come ora esistono, io dico ancora
che ciò non basta, che questo ideale è senza grandezza e senza vita. La patria,
signori, non si conserva come un vecchio momumento immobile, cingendolo di
puntelli e di spranghe; la patria è un essere vivente, un organismo che
continuamente si sviluppa, che si conserva con il movimento ragionevole, con il
giusto esercizio di tutte le sue naturali facoltà.
A queste parole pronunciate con
voce veemente, vivi applausi scoppiarono nella sala.
Io desidero ripigliò Cortis
tranquillamente la costituzione di un partito che abbia nel pensiero il
luminoso ideale di cui vi ho parlato e che espressamente consenta, in ordine a
quello, sulle necessità presenti. Io sono convinto che se si vuol preparare
l'avvenimento di una democrazia sinceramente liberale, senza predominio di
alcuna classe, ci vuol un potere politico abbastanza fermo per condurre un
paese, giusta un concetto prestabilito, sopra e, se mai fosse necessario, anche
contro i flutti delle maggioranze parlamentari: ci vogliono dei ministri
convinti che la monarchia non è una irresponsabilità nelle nuvole, non è uno
stemma coronato sul coperchio del meccanismo costituzionale, ma è una ruota
maestra, se così posso dire, di questo meccanismo, una ruota responsabile
davanti a Dio e alla storia e che si guasta ben presto, per una legge comune,
se resta inoperosa. Allora questo potere così forte, sicuro di una larga
adesione nel paese, può e deve essere molto ardito, e, lasciando libero sfogo a
tutte le opinioni, prendere in mano le questioni sociali, condurre ogni riforma
possibile con ogni cautela, misura e fermezza.
Vi sono degli scrittori di gran
talento...
Qualche bisbiglio si levò qua e
là. Parve che la parola scrittori avesse gittato nella sala un'inquietudine, un
buffo di tedio.
Io non so disse Cortis interrompendosi
se non pongo a troppo dura prova la vostra pazienza.
Parecchi no, più cortesi
che cordiali, gli risposero.
Io ricordo riprese riafferrando
subito il pubblico che un uomo di grande ingegno e di grandi studi politici, mi
diceva: Il popolo è un fanciullo, lasciate che giuochi col fuoco, lasciate che
si scotti, imparerà. Questa è la legge naturale, e a volerla contrariare si fa
peggio. Ebbene, signori, io non sono persuaso di tale dottrina; io dico che per
la legge naturale coloro che hanno senso, volontà e forza si uniscono a
impedire che altri bruci la casa comune.
Giusta, giusta dissero alcune
voci.
Ma non basta ancora, per il
futuro partito, di consentire in un simile indirizzo di governo; bisogna
consentire nella questione ecclesiastica e religiosa.
Ecco esclamò dal suo angolo
l'amico incognito.
Tutti zittirono e Cortis riprese
la parola in mezzo a un silenzio pieno d'elettrico.
Io vi dico, signori, che nessun
principato, nessuna repubblica scioglierà mai i problemi sociali dell'avvenire,
senza la cooperazione del sentimento religioso; il quale non potrà esser dato
in Italia che dalla Chiesa cattolica.
Un flutto agitò gli uditori, levò
in tutta la sala sussurri, fremiti, voci che cozzavano insieme.
Cortis, puntati i pugni al banco,
protese la persona in avanti come ad affrontare un urto nemico, lasciò cader
quel flutto e proseguì con voce ferma e sonora:
Pur troppo, signori, la curia di
Roma e gran parte del clero cattolico hanno mostrato una così cieca avversione
al nostro movimento nazionale, un tale funesto apprezzamento dei beni terreni
che quando si parla in Italia di favorire il cattolicismo è facile di sentirsi
rispondere come fu risposto in Africa a quel missionario che parlava di Dio
onnipotente: E se ci mangia? Io ho domandato più volte a me stesso se l'attuale
reazione violenta contro la Chiesa e i suoi istituti, riconducendo, col suo
procedere, il clero alla povertà e all'umiltà evangelica, costringendolo allo
studio e all'illibatezza, non riuscirà salutare al vero sentimento cattolico.
Ma un prudente uomo di Stato deve considerare in tale eccessiva reazione il
pericolo di quelle credenze che insegnano il rispetto della legge, la
fraternità umana e una specie di subordinazione morale delle classi più agiate
alle più sofferenti, in cui è l'aiuto maggiormente gagliardo che possa
desiderarsi per riparare le ingiustizie e le miserie sociali.
Il futuro partito dovrà dunque da
un lato consentire nella rigida applicazione del diritto comune alla Chiesa.
Io non vi dirò sin dove andrei per
questa via: son già troppo caro al vostro venerabile clero cui non intendo
offrire, in espiazione de' miei peccati politici, né medaglie benedette, né
vite di santi, né supplementi di congrue.
Un riso ironico gli lampeggiava
negli occhi pronunciando quest'allusione a certi procedimenti del suo emulo. La
sala risuonò di risa e d'applausi.
Ma d'altro lato proseguì Cortis
alzando la fronte e aggrottando le sopracciglia bisogna consentire in questo
principio affermato dal conte di Cavour in un memorabile discorso
sull'abolizione del Foro ecclesiastico, che al progresso della società moderna
si richiede il concorso della religione e della libertà. Bisogna esigere
l'istruzione religiosa data dal clero dove vuole e come vuole; non bisogna
stupidamente figurarsi di offendere la libertà perché non si tollerano
professori di ateismo agli stipendi dello Stato; bisogna riconoscere le
associazioni religiose che non hanno uno scopo contrario alle leggi, guarentire
in massima a tutti i cittadini il pacifico esercizio del proprio culto in
privato e in pubblico, astenersi da qualunque immistione legale o violenta
negli affari interni della Chiesa, salvo il diritto di tutela sulle sue
proprietà; bisogna che il governo mostri sempre col suo contegno di attribuire
un altissimo valore allo spirito religioso.
Solo le frasi relative
all'istruzione e alle associazioni religiose turbarono l'uditorio che lasciò
passare in silenzio il resto di questo periodo scabroso.
Voi mormorate, signori esclamò
Cortis, ma io mi figuro quali meno benevoli accoglienze otterrei se avessi mai
l'onore, come non me ne mancherebbe l'audacia, di dire a un'adunanza di
sacerdoti quale dovrebb'essere, a mio avviso, la condotta del clero per il
maggior bene della religione cattolica. I vostri radi sussurri mi hanno
risvegliato in mente un ricordo di scuola. Io ricordo aver inteso descrivere a
scuola certi grandi banchi di conchiglie viventi che, giacendo sul lido del
mare, si aprono al sole, fanno udire, chiudendosi, un largo mormorio ogni volta
che qualche nube lo oscura. Lasciatemi credere che avete trovato nelle mie idee
molto più sole che ombra.
Debbo poi dichiararvi che io
stimo ancora alquanto immatura la formazione di questo futuro partito, e che
perciò non vi era ieri, non vi è oggi alcuna opportunità di segnarne le basi in
un programma elettorale, anche perché una complicazione estera, collegata con
la nostra politica ecclesiastica, potrebbe costringere temporaneamente lo Stato
ed essere meno liberale nei suoi rapporti giuridici con la Chiesa. Non avrei
dunque parlato se non ci fossi stato spinto dall'avvenuta pubblicazione, se il
vostro desiderio non me n'avesse fatto una legge.
Sollecito di obbedirvi, non ho
considerato, ho sdegnato considerare il pericolo che troppo aperte e ardite
dichiarazioni mi togliessero l'onore di entrare col vostro suffragio in
Parlamento. Io ho fatto in quella mia lettera una citazione di mal augurio: la
frase sullo sviluppo della civiltà cristiana fu scritta dal conte di Cavour in
un programma agli elettori di Vercelli, che lo lasciarono sul lastrico. È
probabile, se mi si concede un così grande esempio, che mi tocchi la stessa
sorte; grato a quelli di voi che mi avranno mantenuta la loro fede, non serberò
risentimento alcuno contro chi me l'avrà tolta.
Si parlò di alte influenze a mio
favore; non ne ho mai mendicate, né ora ne mendicherò. Se vi hanno in questo
collegio dei numi che tutto muovono col ciglio, non voglio si dica di me come
di quell'imperatore romano prossimo a perdere il potere e la vita: alieni
jam imperii fatigabat deos. Uscendo da questa lotta vinto ma non abbassato,
io mi ricorderò, signori, che in ogni paese libero vi sono dei rappresentanti
senza mandato, dei legislatori fuori del Parlamento; che vi è modo per ogni
cittadino di propugnare davanti alla nazione qualunque concetto politico, e che
una muta pallina bianca o nera non è il solo mezzo né il più potente di farlo
prevalere.
Le prime file, di fronte
all'oratore, applaudirono: dalle altre si levò un lungo mormorìo di commenti
diversi. I membri del comitato rimasero immobili. Solo il presidente strinse la
mano a Cortis e gli disse a mezza voce, un po' con l'aria del professore
contento:
Bravo, bravo, molto franco, molto
schietto. Belle, idee nobili.
Cortis, pallido e grave, gli
rispose solo: Adesso a Lor signori, e uscì dalla sala, seguito da B. e da
parecchi altri amici.
Servitor suo, servitor suo
ripeteva l'amico incognito, facendosi strada fra la gente; e venne a
stringergli la mano sulla porta.
Mi congratulo diss'egli, un bel
faccione vivace con due gran baffi bianchi. Ella è un grand'uomo; ella non è
clericale un corno, capisce; ella è religioso e religioso sono anch'io, per...!
Dottor Franceschi, ai suoi comandi. E non abbia paura, che a quel b... f... di
quel nume del collegio gliela faremo tenere!
I vicini risero. Cortis salutò e
passò oltre con gli amici.
Dunque? diss'egli appena fuori
della sala. Io non sono niente contento. Cosa v'è parso?
Cane disse B. abbracciandolo,
bisogna che ti dia un bacio.
Uno alla volta l'abbracciarono
tutti soffocandolo di aggettivi iperbolici.
A me mi è piaciuto quella delle
conchiglie disse uno. Magnifica!
Eh, ma quella della patria saltò
su un altro, quella della patria ch'è un monumento che si sviluppa? Cosa andate
a cercare, che la è un'idea così bella, così giusta, così nuova!
Eh, ma quella delle conchiglie,
che è stato come un dire: Se brontolate, siete tante ostriche!
E le medaglie? esclamò un terzo.
Dove lasciate le medaglie e le vite dei santi?
Sì, sì disse B. Belle le
ostriche, belle le medaglie, ma il grande di questo discorso è nelle idee. Idee
nuove, idee ardite, alla Bismarche! Forza e progresso! Trono, altare, forca e
avanti!
No, no, no, no! gridò Cortis.
Cosa diavolo?
Eh, non signore osservò quello
delle ostriche mentre B. ripeteva: Siamo intesi, siamo intesi! Qua il signor
Cortis vuole anzi abbassarlo, il trono, tirarlo giù dal cielo; lo ha detto
chiaro, mi pare; tirarlo giù dalle nuvole, ha detto, che il re sia responsabile
anche lui come i ministri; cosa giusta!
Santo Dio! disse Cortis. Ho
parlato così male?
Tutti gli altri furono addosso a
quel disgraziato commentatore. Lo volevano mangiare.
Oh bene, signori osservò
finalmente B. Noi bisogna che torniamo dentro. Non sentite?
In sala facevano un gran baccano,
malgrado la vocina collerica del campanello presidenziale. B. promise a Cortis
che gli avrebbe mandato a Villascura, la sera stessa, le notizie della
deliberazione che l'assemblea prenderebbe.
Cosa credete che faranno? disse
Cortis. Io sentivo un freddo da togliere il respiro.
Sì rispose B., freddi, freddi; ma
meno peggio di quel che temevo. Molti, poi, bisogna dirlo, erano intontiti, non
si raccapezzavano. Sei stato alto; piuttosto alto. Sai di cosa ho paura? Ho
paura per quella chiusa del legislatore fuori del Parlamento. Qualcuno potrà
dire che hai gli elettori... non so se mi spiego.
Alto, no disse un altro, neanche
per idea, alto. Mi spiego; alto, sì, ma abbiamo capito benone. Piuttosto,
forse... ci sarebbe voluta una parola sulla politica estera... sull'esercito...
sulla marina...
Ma se non c'entrava, benedetto!
disse B. alzando gli occhi al cielo. Andiamo, andiamo dentro. Presto!
Cortis discese solo le scale.
Giunto al fondo fu raggiunto dal signor Checco Zirisèla, che gli disse:
Servitor suo. Mi rincresce di non poter fermarmi; del resto, re assoluto se la
comanda, ma coi preti giuocar a tresette e poi basta. Dico io, sa; per conto
mio. Coi preti all'osteria, ma in chiesa niente. Servitor suo.
Cortis! gridò B. dall'alto della
scala. Quando ci vediamo?
Non lo so, non so cosa voglia mia
zia.
Eh, mandala a farsi benedire! Ci
vuol altro, adesso, che zie!
Il vetturale, che aspettava
nell'atrio, andò incontro a Cortis col cappello in mano.
Attacca gli disse questi. Dove
hai i cavalli?
Allo Scudo d'oro.
Vengo subito.
Cortis andò al caffè. I canti
delle strade, deserte a quell'ora bruciata, erano tappezzati di affissi
elettorali. I suoi eran pochi e in gran parte lacerati o coperti da quelli
immani dell'avversario, che cominciavano quasi tutti: Non eleggete nemici della
patria. Presso alla porta del caffè di Roma era scritto sul muro: Abbasso i
friulani.
Cortis entrò, nervoso. C'era un
crocchio di giovani che discorrevano della riunione elettorale. Uno propose di
andar ad aspettare quel paolotto di Cortis alla porta del casino per fischiarlo.
I compagni accettarono. Cortis, intanto, sorseggiava il suo caffè in silenzio.
Anche B. fischieremo disse uno
della comitiva.
Cortis si alzò pallido.
Quello no diss'egli.
L'altro lo guardò stupefatto e
rispose con voce malferma:
Come, no? Chi è Lei per
dire no?
Io sono uno tuonò Cortis che
quando dice no a Lei e a cento come Lei, non c'è più da dire sì a
meno di sentirsi sul viso...
Non finì la frase, rovesciò d'un
colpo, per farsi largo, sedie, tavolino, vassoio e tutto che c'era su, si piantò
a fronte di colui con le braccia incrociate sul petto. La padrona strillò, i
garzoni corsero; quegli altri, sbalorditi, sgomentati, non sapevano più in che
mondo si fossero. Cortis, visto che colui né parlava, né si moveva, gittò la
sua carta di visita ai garzoni che raccoglievano i cocci.
Pagherò tutto diss'egli; anche un
bicchierino di rhum che porterete a questo signore.
E uscì dal caffè.
Un quarto d'ora dopo correva nel
calesse del vetturale Schiro sulla via di Villascura, pensando ad Elena. Si sentiva
male: sentiva una tormentosa inquietudine, un fastidio mortale di sé, della
politica, dei nemici abbietti, degli amici stupidi, della collera mostrata a
quelli, della tolleranza usata con questi. Sì, l'Italia! Ma già se non riusciva
oggi, sarebbe riuscito domani. Era il suo destino e anche il suo proposito; ma
pure, un giorno d'amore! Dimenticar tutto tutto per un giorno solo, disprezzare
il mondo ed unirsi, lei, la più bella, egli, il più forte! Fantasmi di felicità
intensa gli attraversavano la mente. Dalla strada che, correndo diritta fra i
platani sull'orlo di un immenso piano, cavalca di tratto in tratto le limpide
acque dell'alpe imminente, gli occhi di Cortis risalivano avidi le correnti,
cercavan le macchie adombrate dagli scuri nuvoloni assisi sulla fronte della
montagna. Si vedeva là con Elena in una casa perduta fra i silenzi deserti.
Elena non aveva quel suo solito sguardo pieno di tristezza occulta: era tanto
felice di amarlo! Ora se la sentiva fra le braccia ridente e tremante come quelle
acque pure, ora la cercava nel bosco, ed ella gli saltava incontro, gli posava
il capo sul petto, gli diceva sottovoce: Sei felice? Io tanto.
Cortis si buttò nell'altro angolo
del calesse, a guardar l'orizzonte lontano dov'ella era scomparsa.
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