La contessa Tarquinia era
inquietissima. Appena partita Elena, avrebbe voluto pigliar suo cognato a
quattr'occhi; ma com'era possibile in mezzo a quella baraonda? E poi il conte Lao
s'era dileguato subito. A mezzanotte, quando, partita la musica e spenti i
lumi, la contessa rimase sola, non osò più andarlo ad assalire nella sua
camera. Vi andò al mattino e lo trovò a letto con l'emicrania, nero, ringhioso
da non poterlo accostare. Maledetti i lumi, maledetti gli strepiti; non sapeva
niente, non aveva capito niente, non aveva dato niente, non s'era inteso di
niente.
Dunque disse la contessa
sbigottita, lui è andato via senza danari, né carta, né promesse?
Il conte Lao, con tutta la sua
emicrania, si rizzò di colpo a sedere sul letto, si cacciò a gridare:
Ma sì, e così fosse andato
all'inferno! E non statemi più a seccare! E andate fuori dei piedi anche voi!
La contessa scappò via, si sbatté
l'uscio dietro con un colpo rabbioso.
Oh che bestia! diss'ella.
Elena l'aveva ingannata, dunque!
E aveva ingannato suo marito!
E s'era accordata con suo zio,
certo. Adesso si capiva tutto. Era stato uno stratagemma del signor Lao per non
metter fuori quattrini e di Elena per evitar scene e scandali in famiglia. Non
averlo inteso subito! Però, dove mai aveva trovato tanto zelo, Elena? Lei
sempre così sdegnosa delle questioni di danaro, lei che non aveva mai mosso un
dito prima d'ora per evitare queste scene? Ci aveva ad essere una ragione
occulta di tale condotta. Ma quale? V'era da perder la testa. E che farebbe
adesso quell'altro bestione di suo genero? Capace di tutto, colui. Ah, non aver
capito! Tutto quello stordimento di cose e di persone non gliene aveva lasciato
il tempo. Ed esser sola, oramai, perché anche Grigiolo e Malcanton erano
partiti, esser sola con il rospo di suo cognato, non avere un aiuto, un
consiglio! Quel benedetto Cortis dove s'era mai ficcato? Ci fosse stato lui,
almeno! Come si sentiva male! Anche la casa e il giardino le davan noia con il
loro disordine, fastidiosa feccia del tripudio scolato. La lista di reseda e di
vaniglie intorno alla casa era tutta pesta; gli abeti e il giardino eran
tempestati di carte abbruciacchiate; persino il biliardo aveva imbrattato di
colla, quel Grigiolo, con i suoi palloncini! E che puzzo di sigaro nelle
stanze!
Alle undici capitò il vetturino,
giusta gli ordini avuti il giorno prima. La contessa se n'era dimenticata.
Aveva ben altro che visite, ora, per il capo! Era per congedarlo quando, servitor
suo, servitor suo, le sbucò davanti, sul prato, fra macchia e macchia, il
piccolo nero don Bortolo in gran tricorno e canna d'India. Veniva a riporre i
paramenti della chiesetta di San Pietro e a bere un bicchier di bianco. La
contessa gli domandò subito se sapesse niente di Cortis. Altro se sapeva, don
Bortolo! Il dottor Picuti era tornato dal capoluogo del collegio con tante
notizie elettorali. C'eran fuori gli avvisi per una riunione da tenersi quel
giorno stesso e si aspettava Cortis. Anzi il signor Checco Zirisèla era partito
con l'idea di andare anche lui a udirlo.
Credo soggiunse il prete che
abbia telegrafato da Milano al suo gastaldo e che domani lo aspettino a casa.
Fu allora che la contessa
Tarquinia pensò di mandare il vetturale a pigliarlo. Ell'aveva fede in Daniele
Cortis. Gli direbbe tutto, gli chiederebbe consiglio. Già quell'egoistone di
Lao non pensava che a' suoi reumi.
Lei, contessa, lo saprà bene
dov'è andato quel campanile di quel signor Daniele chiese ex abrupto don
Bortolo.
Non lo so rispose asciutta la
contessa.
Guardate, corpo, che
combinazione! esclamò quegli alzando ed allargando le braccia. Una contessa
ch'è una contessa, non lo sa, e a Villa lo sa anche la serva dell'arciprete.
Dunque, dov'è andato?
Dunque, dunque, dunque... La fa
da oca, Lei, signora contessa. Lo sa meglio di me. No? Bene. A Lugano, è
andato. E sa a trovar chi? La santa donna di sua madre che a noi ci hanno dato
a bere che fosse morta e poi era viva questa gran...!
La contessa non parve molto
sorpresa. Aveva sempre dubitato di questo. E aborrendo da qualunque relazione
con sua cognata, preferiva quasi che Cortis non avesse detto niente.
Come lo hanno saputo? diss'ella.
Che è andato a Lugano si sa dalle
persone di casa che hanno avuto l'ordine di mandargli lettere e telegrammi a
Lugano. Di sua madre si sa dall'arciprete. All'arciprete pare che la ci
scrivesse qualche volta.
Perché?
Che so io? Per aver la fede di
buoni costumi. Oh, Ella si vuol disturbare!
Veniva il solito tintinnio di
bicchieri. La contessa, fatte portar le chiavi della chiesetta, lasciò don
Bortolo a godersi in loggia, nella fresca brezza meridiana, un limpido vinetto
d'oro.
Faccio un poco di preparazione
diss'egli e poi vado subito.
Ella salì nella cameretta d'Elena
ricordandosi che questa le aveva detto di restituire a Cortis il libro che
troverebbe sul tavolino. Entrò nella stanzetta vôta, si commosse un poco
vedendo quel freddo ordine senza vita e dondolarsi al vento le rose care ad
Elena. Il libro era lì, sul tavolino. La contessa si ricordò di averlo visto
più volte fra le mani d'Elena. Ne guardò il frontespizio Chateaubriand Mémoires d'Outre-tombe.
Non lo conosceva. Chi sa che
libro triste, che libro alto! A Elena non piacevano che letture così. Daniele
Cortis aveva scritto il proprio nome sul frontespizio interno. La contessa lo
guardò a lungo e disse fra sé, sospirando:
Per Elena ci voleva lui.
Ma! Qui lei non ci aveva colpa.
Quando Daniele incominciava forse a pensarci, Elena era una fanciullona
cresciuta prima del tempo e affatto indifferente alle occhiate dei giovanotti.
E poi, lui era andato via, era capitato in casa quell'altro... Pareva proprio
un buon partito, un partito serio.
Aperse il cassetto del tavolino.
Non c'era che un biglietto di visita d'Elena, lacerato. Aveva, oltre al nome,
poche parole di scritto, cancellate, illeggibili.
La contessa lo raccolse con
l'istinto che la occulta ragione della condotta d'Elena, non potuta trovare da
lei in nessun modo, fosse appunto lì sotto quel buio nascondiglio di cancellature
onde usciva una voce indistinta.
Verso le quattro, cavalli e ruote
entrarono fragorosamente nel portico. La contessa corse fuori mentre Cortis
saltava dal calesse a terra. Gli porse ambedue le mani. Quanto gli era grata!
Con quel caldo!
Povere bestie! brontolò il
vetturale.
Dunque? disse Cortis ansioso.
Sola?
Altro che sola, figlio caro!
Appena furono in casa la contessa
non mancò di mettersi a piangere. Cortis non sapeva che pensare.
Insomma, zia? Cosa è stato?
diss'egli.
La zia indugiò un poco a
rispondere. Intanto due o tre colpi di campanello suonarono in alto.
Niente diss'ella, non sarà
niente; saranno sciocchezze mie, ma intanto io ho stretto il cuore, Daniele,
ch'è una cosa grande, e non vedevo l'ora di averti qua, di parlarti, di sentir
cosa dici. Ti ricordi quella sera del temporale che tu venivi dalla camera di
Lao e mi hai incontrata qui in sala? Ti ricordi che avevo le lagrime agli
occhi? Bene.
Ella cominciò a raccontar cose
che Cortis sapeva già in gran parte: gl'imbarazzi di danaro di suo genero, le
sue pretese, le tante questioni suscitatene in famiglia, l'inflessibilità di
Lao, il martirio proprio.
Signora disse la cameriera
entrando, il conte ha udito la carrozza e ha voluto sapere chi fosse arrivato,
e adesso dice che aspetta il signor Daniele.
Santo cielo! sbuffò la contessa
impazientita. Non si può dire una parola. E ha l'emicrania, s'intende. Il
signor Daniele verrà subito. Abbia pazienza un momento.
Volle finire il suo racconto e lo
finì in fretta e in furia. Né Cortis né lei si accorsero che intanto il
campanello chiamava e strillava più forte di prima, e che la cameriera era
tornata là, sulla porta.
Signor Daniele disse costei
timidamente.
Sì, sì, sì, va su, in nome del
cielo! esclamò la contessa. Va su e sbrigati, e torna giù che t'aspetto.
Ma Cortis non aveva ancor posto
piede sulla scala che l'uscio della loggia si aperse con fracasso e Saturno gli
saltò al petto mugolando e gemendo di gioia. Dietro a Saturno c'era il gastaldo
di Villascura con altre due persone. Il gastaldo aveva udito da don Bortolo che
il suo padrone si sarebbe trattenuto a villa Carrè; perciò era venuto a
prenderne gli ordini e a condurgli i signori segretari comunali di... e di...,
desiderosissimi di conferire con lui. Cortis strinse la mano a questi signori,
e, pregatili di volerlo attendere un momento, salì dal conte Lao.
Fu raggiunto sulle scale dalla
cameriera che gli sussurrò dietro:
Signor Daniele.
Questi si voltò.
Le posso dir qualche cosa io
della padroncina soggiunse l'altra. Colla padrona non parlo, perché... si sa,
poveretta!
Cosa c'è?
Ieri l'aiutavo a fare i bauli.
Bettina, la mi dice, ho paura che non ci vediamo altro. Cosa mai, signora?
dico. Perché non vuole che ci vediamo? Io faccio il mio caro conto di viver
ancor qualche annetto, dico. Eh sì, la dice, ma sono io, Bettina, che non
tornerò più da queste bande. Vado lontano, la dice. Eh, La tornerà!, dico;
perché non La vuol tornare? Non so niente, la dice. Vuole adesso, signor
Daniele, che la contessina abbia fatta questa parola senza una gran ragione?
Dio sa cosa aveva in testa, poveretta. Si figuri che un momento dopo prende un
libro, sta lì a guardarlo un quarto d'ora tremando tutta così come una foglia,
lo mette in fondo a una valigia e poi, quando la valigia è ben piena, fu fu fu,
me la disfa, piglia fuori il libro e intanto che io rifaccio la valigia, scrive
un biglietto e lo mette in questo libro. Poi va fuori e ritorna subito in gran
furia, straccia il biglietto e ne scrive un altro!
Daniele non le rispose niente,
entrò dal conte Lao. Un buio, un caldo, una zaffata di canfora lo fermarono
sulla porta.
Scusa, caro te, Daniele disse la
voce del conte. Accendi un fiammifero. La candela è in terra, dietro al letto.
Come va? chiese Cortis, piano.
Male, non importa. E così?
In quel punto il fiammifero di
Cortis brillò.
Oh ti vedo mormorò Lao. Ho
capito. Te l'ho detto prima, già. Non poteva cambiare che in peggio quella
donna lì.
Ti racconterò poi disse Cortis.
Basta. E l'elezione?
Male anche quella.
Cortis accese la candela, vide finalmente
il suo interlocutore, che, supino sul letto, pallido, con il capo fasciato, con
gli occhi socchiusi, diceva sottovoce:
Porci!
Cortis gli strinse la mano.
Ti lascio quieto diss'egli.
Lao lo trattenne, gli domandò
s'ella gli avesse raccontato il pasticcio del giorno prima.
Ti raccomando diss'egli che non
faccia niente senza dirlo a me. Addio. Che ore sono?
Cinque meno dieci.
Dammi la pillola. Lì, sul
tavolino.
Prese la sua pillola di
valerianato di chinino e, lasciata ricader la testa sul capezzale, sospirò
ancora mentre Cortis usciva:
Porci!
Cortis discese in fretta dai suoi
segretari comunali. Avevano buone notizie della montagna. Lassù non si prendeva
mica l'imbeccata dal capoluogo. Tutt'altro; c'era anzi una vecchia gelosia tra
il monte e il piano, un astioso antagonismo. Tuttavia, era necessario che
Cortis facesse una scappata, l'indomani, a..., tanto per lasciarsi vedere. Egli
lo promise subito.
Intanto la contessa Tarquinia
andava e veniva, gittando delle occhiate impazienti a Cortis e a' suoi amici
politici.
Finalmente! diss'ella quando quei
due se ne furono andati. Diede il Chateaubriand a Cortis che non ricordava più
di avere prestato libri ad Elena e lo aperse curiosamente. Vi trovò un
biglietto di visita di sua cugina che vi aveva scritto: Con molti
ringraziamenti e saluti.
A proposito! disse la contessa.
Vado a prenderti un altro biglietto ch'era nel suo tavolino.
Cortis intese ora il racconto
della cameriera.
Quello era il libro che Elena
aveva prima riposto con tanta emozione, per portarselo via: con una emozione
così gelosamente nascosta nell'ultimo biglietto, dopo quell'impeto di
pentimento. Forse dal primo biglietto ne traspariva ancora troppa ed ella non
aveva voluto tradirsi.
La contessa tornò con questo
biglietto. Non era possibile indovinarvi neppure una lettera. Cortis ci si
provò invano e lo rese alla contessa con apparente indifferenza, senza dir
parola.
Stamattina le ho scritto, intanto
diss'ella. Ma penso cosa sarà successo o cosa succederà quando suo marito
sappia di essere stato ingannato. Una bestia di quella sorte!
La contessa parlava, gemeva,
sospirava, riparlava, mescolando nei suoi lamenti il passato, il presente e
l'avvenire. Cortis non le rispondeva mai.
Se fossi un uomo diss'ella
finalmente credo che le sarei già corsa dietro. Ti pare ch'io possa pregar
qualcheduno, Daniele, di farmi questo piacere?
Cortis non aveva intesa la
domanda, se la fece ripetere. La contessa si lagnò della sua freddezza, gli
rimproverò di non pensare che all'elezione.
Ma Daniele non capiva ancora
perché si dovrebbe correr dietro ai Di Santa Giulia. E poi, per tre giorni
ancora, quanti ne mancavano alla gran domenica, non avrebbe potuto muoversi.
Pranzarono insieme nel fresco
salotto di tramontana che guarda gli abeti del giardino e le scogliere nude di
monte Barco.
Anche star qui in questa
malinconia, sai! disse la contessa. Chi sa quando potrò tirar quell'altro in
città!
Poi né l'uno né l'altra parlarono
più sino alla fine del pranzo. Quando il domestico uscì per andar a prendere il
caffè, la contessa giunse le mani.
Almeno scrivile diss'ella.
Egli assentì appena del capo.
Le scrivo stasera disse
improvvisamente, come uscendo da un sogno.
La contessa lo ringraziò di
cuore. Non le veniva neppure in mente che fra Daniele e sua figlia vi potesse essere
una corrispondenza pericolosa. Aveva un tale concetto di tutt'e due, li vedeva
tanto diversi dal mondo frivolo e corrotto in cui ell'aveva conosciuto l'amore!
Quei due lì erano capaci, tutt'al più, di un sentimento aeriforme, affatto vano
e innocuo, quasi ridicolo agli occhi di lei.
Sgridala disse. Scrivile che
nessuna scenata di suo marito ci avrebbe fatto altrettanto dispiacere. Scrivile
che doveva invece parlar franco a suo zio e chiedergli questo sacrificio. Non
gli ha mai voluto dire una parola, benedetta lei! Scrivile glielo ho già
scritto io, questo, ma tu ripetiglielo che il danaro in un modo o nell'altro lo
avrà, e che lo dica subito a suo marito!
Il domestico rientrò con il caffè
e con una lettera di B. per Cortis, portata allora da un espresso. Diceva:
Una riga in furia dal banco del
circolo elettorale. Dopo il tuo discorso, discussione vivacissima. I tuoi
avversari ti accusano di clericalismo e assolutismo mascherato, o almeno di non
appartenere a nessun partito perché gli attuali non ti vanno e il tuo non
esiste ancora. La votazione diede 46 voti a tuo favore e 58 contro. Grande
confusione. Tutti voteranno secondo loro piacerà. I tuoi amici combatteranno a
oltranza, se non altro per l'onore. Notizie della montagna assicurano che una
tua visita vi avrebbe ottimi risultati.
B.
Elezioni? chiese la contessa
quando Cortis ebbe finito di leggere; e non attese la risposta.
Domani disse devi essere tutto
per me. O mio cognato si persuade di metter fuori questo danaro, o bisogna che
lo trovi io. In ogni modo tu devi aiutarmi.
Cortis rispose ch'era
impossibile. Doveva partire per la montagna l'indomani mattina all'alba e non
si teneva neppur sicuro di ritornare la sera. La contessa ebbe un bel
disperarsi. Egli fu freddo e inflessibile come il ghiaccio.
Potendo vincere, aveva il dovere
di battersi. Ogni sentimento, fosse anche l'amore, scompariva sempre in lui
senza lotta, davanti alla lucida e sicura visione di un dovere. Si alzò,
promise che scriverebbe ad Elena la sera stessa e partì per Villascura.
Nel passare davanti alla casina
vestita di rose dove era lo studio d'Elena, pensò a una sera di dodici anni
addietro, ch'Elena era venuta dal prato al suo studio con un fiore rosso nei
capelli, accesa in viso, dicendo: Oh, Daniele, come ho corso! e poi era corsa
via ancora, gittando una risatina al vento. Ora il prato era deserto, lo studio
chiuso, lei lontana. E lo amava, soffriva, era infelice. Cortis strappò una
delle rose che fiorivano davanti alla porta dello studio.
Ah, Elena diss'egli, ti domando a
Dio!
Dopo di che non ci pensò più, si
mise a discorrere con Pitantòi che portava dei gamberi alla contessa. Solo a
sera tarda tornò a quel pensiero.
Dopo avere scritto nel suo
studio, con Saturno ai piedi, una dozzina di biglietti, suonò per il domestico
e dispose che fossero recati alla posta. Quindi, congedatolo, prese un foglio
grande e si pose a scrivere velocemente:
Villascura, 30 giugno 1881.
Elena,
Credevo trovar te, la tua voce,
il tuo viso, il tuo cuore; ho trovato i tuoi ringraziamenti e saluti. Cosa
avevi scritto nel biglietto che la zia raccolse nel tuo tavolino? Cosa hai
creduto, Elena, di poter lacerare e cancellare? Io, che sto scrivendo in questa
grande stamberga vuota di Villascura, col cervello stanco e col cuore amaro, mi
sento malgrado i tuoi carissimi ringraziamenti e saluti, l'anima tua qui,
presso a me.
Era meglio che mia madre fosse
morta veramente. Non te ne dico altro. È ben difficile ch'io la riveda così
presto. Provvederò a lei come devo, ma da lontano. Sai cosa me ne resta nel
cuore? La memoria di mio padre, ancora più alta e serena.
Sono venuto via da Lugano a
precipizio per la mia elezione che va a rotoli. Me ne rincresce per i miei
poveri amici che ne soffriranno nel fegato, quelli che ne hanno. Venni difilato
da Lugano a... Alla stazione mi fischiarono, ma poi feci un discorso politico
al circolo elettorale e offersi più tardi, al caffè, un indefinito numero di
schiaffi; credo proprio non essere in debito verso quegli eccellenti miei
fratelli.
Il discorso, molto cattolico ma
sempre dal punto di vista dello Stato, mi andò così e così. Sai che non sono
ancora oratore (lo sarò!) e poi mi avevano appena detto ch'eri andata via. E
poi l'atmosfera era carica di fluido idiota. Invece la offerta degli schiaffi,
meno cattolica, andò benissimo, e non sarò neppure indotto in tentazione di
aggiungervi una sciabolata. Del resto, io ho inteso dare una lezione o un
esempio, come vuoi, per amor del prossimo: e credo aver bene operato con il
senno e con la mano.
Finalmente l'amico Schiro,
inviatomi da tua madre, mi portò a villa Carrè bestemmiando il sole
onnipotente; e io intanto ho pensato con violenza a una signora fredda come il
ghiaccio. Ci siamo fermati un momento di qua dalle Rocchette, presso gli abeti
che sai; di là ho fatto un viaggio sentimentale sino a un certo praticello dove
quella signora colse una volta, se si ricorda, il colchico d'autunno di cui la
richiesi e ch'ella si nascose in seno, opponendomi i suoi silenzi marmorei. A
villa Carrè trovai mia zia molto afflitta e tuo zio adorabilmente idrofobo. Non
ho potuto dargli che una stretta di mano e una pillola di chinino e non abbiamo
parlato di te, benché egli avesse male al capo e io al cuore per cagion tua.
Invece me ne ha parlato molto tua madre.
Cos'hai fatto, Elena? Io non
pretendo averlo perfettamente inteso dalla zia Tarquinia, che poi non lo ha
inteso ella stessa; ma per quanto me ne ha detto, si tratta di un intrigo
sottile e audace, ordito da te per la quiete di casa Carrè. Per la quiete d'un
giorno e la continua tortura di poi. Tua madre trema per te, farebbe qualunque
sacrificio per dissipare una collera che si rovescierà su te sola. Quanto a me,
ti conosco meglio di tua madre e non ho paura. È un altro sentimento che freme
nel mio cuore; è uno sdegno che non dirò. A ogni modo, rassicura questa povera
donna verso la quale sei forse, qualche volta, ingiusta.
Dio mio, Elena, perché non ti ho
trovata qui? Perché ti sei fatta scrupolo di lasciarmi una parola migliore?
Ho colto stasera una rosa presso
alla porta del tuo studio. La sua delicata bellezza, recisa e posata qui sopra
un barbaro volume di Hansard, muore con una gravità mesta che ricorda te in
certi momenti. Pensai, guardando il tuo studio, al tempo passato e a quello che
avrebbe potuto essere. Noi vivremmo fra le rose, Elena. È mai questa la sorte
di anime come le nostre? Noi siamo temprati per la guerra e la tempesta, siamo
armi in una mano ignota che non posa mai e non ci lascia posare, e come ci
stringe!
Domani mattina vado a portare il
mio vangelo sui monti. Predicherò a... e a... So che a te, altera creatura,
questo non piace; ma non è uomo politico né patriota chi non sa deporre a tempo
e luogo queste deboli fierezze. Io sono altero quanto te, e se il mondo sapesse
il cuore che ho quando sollecito i voti degli elettori assai mi loderebbe.
Quand'anche poi gli elettori mi lasciassero, come oggi è probabile, a
Villascura, non ne sarei accorato. Calcolo di avere ancora nei nervi
trentacinque anni di vita politica; dovessi perderne due alla porta della Camera,
non sarebbe una rovina. Però non dissimulerò a te, come la dissimulo agli occhi
del mondo, una certa agitazione, uno spirito d'inquietudine, che, fino a
domenica, mi lascerà probabilmente dormir poco.
Sai che la sera prima della mia
partenza mi hai detto: Scrivimi Questa è la seconda volta che lo faccio, e se
la santa inquisizione vedesse le mie lettere, non vi troverebbe che riprendere;
non vi troverebbe una sola delle parole che posso aver dette a questa rosa
moribonda, la quale non le ripeterà. Dunque rispondi! Se non lo fai presto e a
lungo, verrò a chiederti delle spiegazioni dovunque tu sia.
Adesso vado a cercare un po' di
fresco nel laghetto dei giardini. Sono le undici e mezzo, non c'è luna; sarà difficile
distinguervi un pesce da un candidato; ma sta tranquilla, gli uomini politici
non affondano mai.
Addio, Elena. Se domenica la mi
va male, mi seppellisco nei giardini per un mese con Shakespeare e te.
DANIELE.
Uscì con Saturno e si cacciò nelle
ombre folte del viale dei carpini che mette al lago: un ovale specchio d'acqua
cinto di piante nere e adombrato dalla imminente montagna del Passo Grande.
Pochi minuti dopo, Saturno, proteso sull'orlo della riva, dimenava lentamente,
con un rantolo sordo, la coda, e scrosci sonori scoppiavano in mezzo alle buie
acque immobili, da lontano.
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