I Di Santa Giulia erano a Roma da
due giorni, e il barone non aveva ancor detto una parola a sua moglie. Tenevano
due camere e un salotto all'Hôtel Bristol, avendo lasciato un mese
prima, per andare nel Veneto, il loro solito quartiere di via Quattro Fontane.
Il senatore aveva scelto l'Hôtel Bristol, in piazza Barberini, per non
dilungarsi troppo dal vecchio alloggio; benché di luglio, a certe ore del
giorno, piazza Barberini bruci. È vero che il senatore ne soffriva poco. Si
alzava dopo le due, usciva e non rientrava che all'alba. Elena non lo vedeva
neppure. Il primo giorno la cameriera dell'albergo le aveva detto che il signor
barone era uscito e avrebbe pranzato fuori. Il secondo giorno si trovò in
salotto quando suo marito passò accigliato e duro. Né lui né altri le disse
niente; lo udì tornare alle quattro del mattino. Era una cosa naturale, ora.
Meglio così per Elena; meglio non
vederlo, meglio sapere ch'era fuori; poco le importava il dove, se al Senato,
se al club, o in qualche casa equivoca dove si giuocasse più forte e più
segretamente che al club. Le avevan sussurrato, tempo addietro, di un luogo
simile nei pressi di piazza Barberini. Era forse là che suo marito passava le
notti. Le era venuto questo pensiero la prima notte udendolo camminare nel
salotto. Non che ne fosse turbata; vi era indifferente.
Neppure di Cefalù si turbava;
attendeva con apatia il mare e la solitudine. Forse potevano diventarle amici;
ma si curava poco anche di questo.
Era dai primi giorni del suo
matrimonio ch'ella non provava uno scoramento così profondo. Il suo virtuoso
sacrificio, il suo proposito, fermato e in parte eseguito, di togliersi, per
quanto era in lei, dal cuore e dal cammino di Cortis, non le recava neppure
quella sicura coscienza dell'opera buona che esalta lo spirito. Sentiva invece
acutamente il male che doveva aver fatto a Cortis con il suo freddo biglietto;
si odiava, certi momenti, per essere stata troppo più dura che non convenisse,
per non avergli neppur fatto cenno della lettera ricevutane da Lugano. E subito
dopo si rimproverava queste ribellioni del cuore, queste debolezze della
volontà.
Appena arrivata a Roma scrisse un
biglietto sufficientemente affettuoso alla mamma. Alla lettera dello zio Lao
rispose il giorno dopo, ringraziando e non accettando il danaro offerto.
Scherzò sulla predica che il burbero signor zio le aveva fatta a suon di polka
per questo benedetto danaro, scherzò sulla prodigalità del predicatore. Parlò
poi del caldo di Roma dove non c'era più nessuno, disse che sospirava il mare e
che avrebbe preferita la Sicilia ai soliti bagni noiosi del continente. Chiuse
la lettera annunciando che stava per andare ai Cappuccini a prendere un po' di
fresco e a pregare per gli zii reumatizzati.
Si stupiva amaramente, scrivendo,
si sentiva umiliata di saper recitare così bene la commedia. Tutto oramai le
compariva commedia nella vita, tutto le compariva falso, facce, parole e opere
umane. E il sì dell'altare, non poteva considerarsi un sì da
commedia?
A quest'idea il suo sangue
insorgeva.
Mai, mai! Nessun sentimento,
neppure il religioso, parlava così forte in lei come la fiera lealtà. Non
credeva, del resto, nella propria religione; sua madre era sempre andata troppo
a messa, e suo zio troppo poco. Aveva solo una triste fede austera in Dio, una
fede che s'interdiceva, come impuro e indegno, ogni desiderio di premio, di
felicità personale, sia nella presente vita che nella ventura. E talora questa
stessa ultima luce pareva mancarle. Anche lì, ai Cappuccini, quando avrebbe
voluto pregar con fervore, chiedere aiuto a Dio contro se stessa, le tornava
viva nel cuore una sinistra impressione riportata in quella chiesa, anni
addietro. Un laico le aveva fatto vedere le orribili cappelle mortuarie senza
troppo commuoverla; poi, in chiesa, le aveva detto placidamente, con la sua
faccia marmorea: Sotto questa pietra è sepolto il cardinale Barberini,
fondatore del tempio. Qui, signora; veda la iscrizione: hic jacet pulvis,
cinis et nihil che vuol dire polvere, cenere e niente.
Pulvis, cinis et nihil. Elena aveva guardato con stupore e paura
le parole incise sulla lapide sepolcrale, come se venissero su dal mondo dei
morti a dire il triste mistero dell'essere umano, pulvis et nihil, a
negare lo spirito; e l'uomo dalla faccia marmorea le era apparso il sacerdote
di una tragica religione della morte e del niente. A Roma ella era spesso
assalita da questi miasmi di scetticismo desolato; li sentiva nelle sparse
rovine di una fede morta, nel fasto invecchiato di un'altra fede inferma, nella
campagna che le cinge entrambe di silenzio e di solitudine.
La seconda sera dopo il suo
arrivo andò in carrozza da Loescher a pigliare le Mémoires d'Outre-tombe,
e vi fu veduta dal senatore Clenezzi di Bergamo, un vivace vecchietto che
l'avrebbe adorata ginocchioni per la sua bellezza, per il suo ingegno e perché
non gl'infliggeva mai, rara avis, né biglietti di concerti, né associazioni
a opere di autori deputati. Non sapeva che Elena fosse a Roma. Le baciò la mano
con una commozione insolita e non rifiniva di dire cara donna Elena, cara donna
Elena! tanto che il commesso di Loescher, ritto lì con il Chateaubriand in
mano, sorrideva. Elena gli disse, tornando alla sua carrozza, che credeva
fermarsi ancora qualche giorno prima di andare ai bagni e che sperava
rivederlo.
Alle Quattro Fontane? domandò il
senatore.
No, al Bristol.
A che ora non si trova Suo
marito?
Elena si mise a ridere.
Io non lo vedo mai diss'ella.
Venga quando vuole. Perché ha paura di trovar mio marito? Si sono bisticciati?
Non è questo rispose il
vecchietto.
Allora?
Quegli l'aiutò a salire in
carrozza.
Son proprio così vecchio?
diss'egli. Lei mi dà una coltellata, ma vengo egualmente, sa.
Va bene rispose Elena sorridendo.
Venga, e se c'è ancora qui qualcuno dei nostri amici, me lo porti. Sono sempre
sola; venga presto se vuol trovarmi.
Madonna, non sa niente! disse fra
sé il Clenezzi rientrando da Loescher mentre la carrozza scendeva verso piazza
Colonna.
Si recò l'indomani all'Hôtel
Bristol.
Elena gli fece un'accoglienza
quasi rumorosa, gli parlò di questo e di quello con una gaiezza febbrile che lo
imbarazzò non poco. Le rispondeva a monosillabi, si contorceva sulla sedia,
aveva l'aria di starci male e di non potersene alzare, tanto che Elena gli
disse: Cos'ha, Clenezzi? Pare une âme en peine. Dica su. Lei ha da fare
un discorso in Senato; no?
Madonna! esclamò il senatore
spaventato.
No, no, in Senato no.
Elena pensò un momento.
Ah diss'ella, abbassando la voce
al tono di una gelida indifferenza, è a me che vuol parlare. Qualche cosa in
cui c'entra mio marito?
L'imbarazzo di colui gli cadde a
un tratto, scoperse uno sguardo angoscioso, una faccia trepida.
Dunque lo sa? diss'egli.
Elena crollò il capo, alzando le
spalle e le sopracciglia, rispose con voce appena intelligibile:
Non so niente.
Clenezzi, stupefatto, restò lì a
bocca aperta, non sapendo se proseguire o fermarsi. Elena mosse le labbra a un
altro sussurro:
Dica.
Parve al senatore ch'ella fosse
indifferente. Protestò, rosso rosso, che non aveva nessuna voglia di entrare in
certi discorsi, che solo un sentimento di devozione ve l'avrebbe potuto
indurre, ma che se a donna Elena non gliene importava nulla, lui non voleva...
Clenezzi! diss'ella
interrompendolo con accento di dolente rimprovero; e gli stese la mano.
Queste bizze del suo vecchio
amico le erano familiari; egli aveva, a sessant'anni, il fuoco d'un ragazzo di
venti.
Mi scusi rispose questi, baciando
con certa ingordigia la bianca mano affilata. Ho torto. Son di Bergamo, son
nato sul Brembo, son furioso.
No, no interruppe Elena, ma
senta. Se avessi figli! Però mi dica. Tutto quello che posso per mio marito, lo
devo fare e lo farò.
Allora il senatore le domandò se
non avesse mai sospettato di qualche disordine negli affari di suo marito. Sì,
ell'avrebbe potuto sospettarne da molto tempo se si fosse curata di certi ceffi
che venivano a cercar di suo marito, di certe lettere che lo irritavano, del
tempestare che faceva per ogni piccola spesa domestica. Sapeva pure che
giuocava, n'era stata informata prima da lettere anonime pervenute a lei e a
suo zio; poi un'amica zelante gliel'aveva sussurrato a Roma. Nel maggio, prima
di andare a Passo di Rovese, suo marito l'aveva richiesta d'interporsi presso i
Carrè per fargli avere una certa somma.
Elena si fermò a questo punto. A
Clenezzi pareva impossibile che il barone non avesse lasciato trapelar niente a
sua moglie delle minacce che gli pendevano sul capo. Era proprio così. Donna
Elena non ne sapeva niente e le tornava in viso la gelida indifferenza di
prima. L'altro incominciò allora bruscamente a dire che poteva trattarsi
dell'onore e della libertà.
Elena si scosse.
Non credo! diss'ella.
Sapeva di avere un marito rude,
violento, vizioso. Non lo credeva capace di un delitto ignobile.
Ah, donna Elena! esclamò Clenezzi
con uno sguardo che diceva cento cose. E raccontò che, due mesi addietro,
l'avvocato Boglietti, mandatario di un istituto siciliano di credito, era
venuto alla Presidenza del Senato portando una gravissima accusa contro il
senatore Di Santa Giulia. Quell'istituto aveva incaricato lui, suo consigliere
d'amministrazione, di esigere un capitale dovuto da una casa bancaria di Roma e
di depositarlo presso il Ministero delle finanze per certa cauzione. Di Santa
Giulia aveva eseguito la prima parte dell'incarico, non la seconda. Il
Consiglio d'amministrazione, scoperta la cosa, aveva immediatamente chiesto
spiegazioni al suo incaricato. Qui c'era un punto buio. Pareva che Di Santa
Giulia avesse addotto un pretesto qualsiasi e persuaso con larghe promesse il
Consiglio, dove sedevano alcuni suoi aderenti, a non procedere oltre. Ma la
cosa s'era risaputa fuori e il Consiglio aveva pur dovuto agli ultimi di maggio
eccitare Di Santa Giulia alla restituzione del danaro e al risarcimento dei
danni entro il 18 giugno, con la minaccia di un procedimento penale per
appropriazione indebita. Il barone aveva chiesto allora una rateazione del
pagamento, proponendo di sborsare metà della somma il 30 settembre di
quest'anno e l'altra metà il 31 marzo 1882. Egli confidava che i suoi amici del
Consiglio gli farebbero approvare una convenzione su tale base. Invece
l'avvocato Boglietti aveva ricevuto l'incarico di tentare per l'ultima volta
una soluzione pacifica, chiedendo l'immediato pagamento di un terzo della somma
e consentendo che il rimanente debito fosse saldato in due volte, giusta la
proposta del barone. In mancanza del pagamento c'era l'ordine di denunciare il
senatore Di Santa Giulia all'autorità giudiziaria. L'avvocato aveva creduto
bene di rivolgersi tosto alla Presidenza del Senato, informandola di ogni cosa,
onde trovasse modo di evitare un così grande scandalo e di costringere il
barone all'adempimento del proprio dovere. Allora la Presidenza aveva
telegrafato, il 29 giugno, a Passo di Rovese, richiamando a Roma il senatore Di
Santa Giulia. Il primo luglio, alle quattro pom., poche ore prima che Elena e
Clenezzi s'incontrassero da Loescher, un membro dell'Ufficio di Presidenza
s'era fatto promettere dal barone che addiverrebbe al chiesto pagamento prima
del 7, o rassegnerebbe le dimissioni da senatore del Regno.
Ora non c'era nessuna probabilità
che Di Santa Giulia potesse trovare il danaro necessario. Lo si diceva
invescato nei debiti fino ai capelli. Gli verrebbe in aiuto la famiglia di sua
moglie?
In questi casi s'affrettò a
conchiudere Clenezzi non ci sono che i parenti.
Credo incominciò Elena che la
roba mia sia sfumata; e pensa Lei che la mia famiglia non abbia mai fatto
niente?
Capisco; ma...
Elena pensò un poco.
La somma? diss'ella.
Dalle dodici alle quindici mila
lire. Se si trovano, suo marito non deve manco vederle. Bisogna consegnarle all'avvocato
Boglietti, prima di giovedì.
Ah, caro Clenezzi sospirò Elena,
se il danaro potesse tutto! Basta, poniamo che si trovi; io lo faccio avere a
Lei? Dopo ci pensa Lei? Se occorresse ritirarlo dalla Banca Nazionale, me lo fa
Lei questo piacere?
Il senatore, che per donna Elena
e pur di non metter fuori quattrini sarebbe andato sul fuoco, si pose, con
devozione commossa, agli ordini suoi. Guardò l'orologio. Quel giorno si doveva
presentare al Senato il progetto di riforma elettorale, e forse si sarebbe
discusso sulla composizione dell'Ufficio centrale. Gli premeva trovarsi per
tempo in Senato.
Speriamo diss'egli, alzandosi.
Cosa? rispose Elena con un
sorriso così amaro, con uno sguardo così triste che al povero senatore vennero
quasi le lagrime.
Che La mi scusi tanto! esclamò.
Io sono un povero vecchio, io sono un povero fatuo, ma se Lei fosse la mia
ragazza, Madonna Signore! La porto su al mio paese com'è vero Dio, e quel muso
che venisse a prenderla, in Brembo a pedate!
No, no diss'ella bruscamente, quasi
offesa. Lei non mi conosce.
E me? ribatté il senatore. Mi
conosce? Vorrei vedere.
Parve ch'Elena avesse paura di
discutere questo punto perché s'affrettò a replicare:
No, no, vada al Senato, vada al
Senato e toccò il bottone del campanello.
Rimase sola, ritta, in mezzo alla
camera, fissando con il suo solito sguardo vitreo la piazza, il Tritone della
fontana. Un cameriere aperse l'uscio e disse: Desidera? Ma ella non rispose.
Colui ripeté: La signora baronessa desidera?
Ah! fece Elena, lo guardò senza
raccapezzarsi, e soggiunse:
Niente.
Appena il cameriere si fu
ritirato, ella si ricordò d'averlo fatto venire e perché, corse all'uscio, gli
gittò dietro due parole, Una carrozza!, e tornò lentamente a contemplar la
fontana. Era dentro a lei una confusione di pensieri, un viavai d'immaginazioni
commiste a un sentimento nuovo, il ribrezzo del marito, lordo di danaro altrui.
E poi pareva che tutto questo tumulto si chetasse; come se le si fosse aperta
in fondo allo spirito una invisibile uscita. Restava un vuoto, un buio; e come
gli occhi guardavano inconsciamente la fontana, così tornavano inconsciamente
alla bocca poche parole lette mezz'ora prima nelle Mémoires d'Outre-tombe,
le parole della povera De Beaumont a Tivoli: Il faut laisser tomber les flots.
Ma questo mortale silenzio
interiore non poteva durare in Elena. Appena il cameriere tornò ad avvertirla
che la carrozza era pronta, si scosse, non pensò più se non a fare quel che
doveva. Si fece portare in fretta al telegrafo e vi scrisse un telegramma per
lo zio Lao, accettando il danaro prima rifiutato, sollecitandone l'invio e
promettendo spiegazioni per lettera. Nel tornarsene all'albergo, amaramente
contenta di sé, pensava ai turbati commenti che del suo telegramma si farebbero
a villa Carrè, alle collere dello zio, ai lamenti della mamma. Le vennero in
mente, chi sa perché, anche le povere rose che guardavano nella sua cameretta
deserta. Dalla mamma aveva ricevuto, la mattina del giorno avanti, una lettera
piena d'affetto, di paure, di rimproveri. Cosa penserebbe adesso? Sull'angolo
dei Due Macelli e del Tritone credette veder suo marito prendere frettoloso una
viuzza a sinistra. Una breve vampa di collera le salì al viso. Sarà stata lì
vicino questa casa di giuoco? Ella fu per scendere e raggiungerlo. Prevalse il
disprezzo; lo lasciò andare. Rozzo, violento, vizioso, lo conosceva da un
pezzo; ma gli aveva sempre attribuito una certa grossolana onestà, una brutale
franchezza da barbaro; anche del cuore. Ora no: ora quel danaro altrui glielo
rendeva immondo. Lo lasciò andare.
All'albergo trovò la lettera di
Cortis. Lasciando a Passo di Rovese quell'arido biglietto per lui il suo
proposito era stato d'irritarlo, di far sì che non le avesse a scrivere, almeno
per un gran pezzo. Nella lontananza, nel silenzio c'era da sperare; non per sé
ma per lui. Trasalì, vedendosi fallito il disegno, di una gioia invincibile; e
non sapeva ella stessa, nell'aprir la lettera, se avesse paura o desiderio di
parole appassionate. La divorò, prima, da capo a fondo, correndo via sulle
poche espressioni d'affetto come se bruciassero; specialmente su queste: non vi
troverebbe una sola delle parole che posso aver detto a questa rosa moribonda,
la quale non le riporterà. Pensò che Cortis non avrebbe dovuto scrivere così;
e, giunta alla fine, tornò di slancio alla prima pagina dov'egli parlava di sua
madre, rilesse quelle poche righe sconsolate, ne ebbe un dolor profondo. Non
sentiva più, in quel momento, i dolori propri, né la dolcezza di sapersi amata.
Era tutta nel cuore di lui, soffriva con esso, sentiva quel disinganno, quella
solitudine amara, la sentiva tanto che n'ebbe paura ella stessa; le parve di
non appartenersi più, di essere diventata una parte di lui. E l'elezione?
Daniele ne parlava scherzando, ma c'era lì e in altri luoghi della lettera una
gaiezza nervosa che tradiva il turbamento dell'animo. Un impeto di sdegno
contro quegli stupidi elettori fe' tremar le mani e le labbra mute d'Elena.
Prima un impeto di sdegno, poi un impeto d'orgoglio; l'uomo ch'ella amava non
poteva piacere alla folla. Però non le veniva neppur l'ombra d'un dubbio
sull'avvenire. L'avvenire di Cortis non era certo in poche mani d'idioti. E
questo c'era di buono e di confortante nella lettera, che vi si sentiva una
energia morale più forte dell'amore, un animo grande che poteva soffrire per
l'abbandono di una donna, ma non accasciarsi, non declinare dalla sua via.
Così, così Elena lo amava! Quanto a sé, qualunque dolore, qualunque sorte le
toccasse, non ne doveva importar niente a lei stessa, né al mondo, né a Dio.
Una fugace visione la smentì, le
mostrò il laghetto cheto di villa Cortis e, seduto sulla riva, Daniele. Ella
gli sedeva a fianco, fuggita da Roma, da un marito indegno; le ombre dei
giardini, il lago e i loro cuori erano una pace sola fin dentro alle più
nascoste profondità. Cacciò con un subito aggrottar del ciglio la immagine. Non
sarebbe mai! Cortis non doveva amar lei. Ella non poteva offrirgli,
sacrificando sé, che un febbrile presente e un avvenire sinistro; anche solo
lasciandosi amare idealmente, gli contristava la vita. Egli era solo al mondo e
lo aspettavano, sulla via prescelta, fatiche, angoscie, ferite; come non
avrebbe una famiglia per suo riposo e conforto? Bisognava farsi dimenticare.
Pensò al piccolo prato presso gli abeti, dove era sceso Cortis, pensò al
colchico d'autunno, al vago fiore dal succo mortale che aveva voluto
ostinatamente per sé; sorrise e pianse.
Suo marito non ricomparve in
tutto il giorno. Elena avrebbe dovuto andare in via Urbana da certi amici che
le facevano il favore di custodire i suoi argenti di casa, ma non si sentì in
grado di veder gente, di mettersi una maschera gaia. Lesse e rilesse, nelle Mémoires,
tutti quei passi di cui le aveva parlato Cortis, ma sopra tutto le lettere di
madama di Caud; e tornava ogni tanto a quelle parole sull'urtar di passaggio,
senza volerlo, nel destino di un altro. Non pranzò. Alla sera, dolendole, per
il continuo leggere, il capo e gli occhi, sentendosi morire nell'afa delle sue
camere, si fece portare, in carrozza, fuori di porta Pia. L'ultimo tramonto
colorava di viola i monti della Sabina, l'aria era fresca, Elena non fece che
piangere; ma l'ora mesta, la solitudine, e, laggiù, verso ponte Nomentano, le
rovine sparse per la campagna avevano voci di consenso con lei, le rendevano il
pianto meno amaro. Nello scendere a ponte Nomentano il cocchiere mise i cavalli
al passo. Una vecchia domandò l'elemosina alla bella signora, l'ebbe, e
vedendole gli occhi lagrimosi, le disse:
Fija mia, Dio te ne darà pace.
Nello stesso momento Elena si
sentì correre un brivido nella persona, pensò alle febbri, a una pace possibile
e desiderabile, alle parole marmoree dei Cappuccini: pulvis, cinis et nihil.
Tornando verso Roma si vedeva davanti, un po' a destra, la luna falcata cader
sui cipressi di villa Albani, sentiva tratto tratto, lungo i giardini, un odore
acuto di magnolie. Vicino a porta Pia incontrò un cavaliere e un'amazzone,
giovani, belli sui loro cavalli focosi. A lei le voci della sera parlavano di
tristezza, ma quanto dolcemente non dovevano parlare agli altri d'amore!
Alle dieci della sera le giunse
un telegramma dallo zio Lao che incominciava promettendo il danaro fra tre
giorni per mezzo della Banca Nazionale, e seguiva: Nelle elezioni d'oggi Cortis
ebbe voti 342, X. 339. Eletto Cortis.
Elena si sentì un lampo di
piacere nel cuore, una vampa nel viso e nel cervello. Si portò la palme alla
fronte, bruciava; alle tempia, battevano.
Eletto Cortis! Egli aveva vinto,
aveva superato il primo gran passo, doveva esser felice. Sarebbe venuto a Roma,
vi avrebbe dimorato lunghi mesi, mentre vi poteva essere anche lei. No, no,
gran Dio, via questo pensiero! Lei andava a Cefalù per restarvi sempre, per non
rivederlo nemmanco, non esserne riveduta, sopra tutto, e tradirsi. Oh Signore,
e non mandargli neppur una parola! Cosa penserebbe mai di un silenzio simile?
Certo che ne indovinerebbe la causa vera; non sarebbe peggio? Ci voleva una
riga, una parola; e allora bisognava rispondere alle sue molto freddamente,
molto duramente, per allontanarlo! Si pose a scrivere questa risposta dura e
fredda colla febbre nel corpo e nell'anima:
Roma, 2 luglio 1881.
Caro cugino,
Mi annunciano la tua elezione.
Sono sinceramente lieta di vederti sulla via maestra per un cammino che
desidero onorevole e felice.
Ebbi pure la tua lettera, e
quello che scrivi di Lugano mi fece gran pena. Affretto con i miei voti il
momento...
Qui due lagrime le caddero sul
foglio, ma ella tirò avanti a scrivere stringendo le labbra convulse:
... in cui una donna pura e
fedele ti consolerà, scalderà il tuo focolare deserto.
Io penso e ho sempre pensato a te
con amicizia, ma non vi può essere nel mio cuore e non posso ammettere in te un
sentimento diverso. Sono quindi costretta a dirti che alcune frasi del tuo
biglietto da Lugano e della lettera d'oggi mi spiacciono, mi offendono. Spero
non sarà molto difficile mutare d'animo e di linguaggio; altrimenti preferirei
non avermi a trovar teco.
Elena cessò di scrivere. Era
stato troppo grande lo sforzo di cercar queste parole dure; la fantasia,
stimolata dalla passione e dalla febbre, gliene diceva di troppo diverse. Non
sapeva come continuare. E mentre cercava una via cogli occhi fermi sul foglio
bianco, mentre passava di pensiero in pensiero, la sua mano inconscia scrisse
lentamente d'inverno, d'estate, da presso e...
Si scosse, vide e lacerò il
foglio. Soffriva, era mortalmente stanca, ma il pensiero di trovarsi ancora lì,
all'indomani, quella lettera sul tavolino, le metteva paura. Prese un altro foglio
e ricopiò il primo fino alla parola teco.
Mi permetterai continuò di essere
assai breve. Trattenendomi a Roma pochi giorni, debbo camminar molto e alla
sera mi trovo stanchissima. Ti prego di dire alla mamma e allo zio che sto
benissimo e mi diverto. Roma mi affascina sempre!
Addio e mille felicitazioni
ancora dalla tua
aff.ma cugina
ELENA DI S.G.
Chiuse la lettera e la mandò
subito alla posta. Appena partito il cameriere sentì rimorso di non avere
nemmeno scritto a Cortis che le rincresceva dargli quest'afflizione; ma poi
disse a se stessa ch'egli, con il suo carattere, si sarebbe irritato e non
afflitto di quella lettera. Meglio così! Perché certo l'amore di Cortis non
somigliava alla inestinguibile passione sua. Egli ora andrebbe in collera, non
le scriverebbe più; era facile, durante quel silenzio sdegnoso, uscirgli poco a
poco dal cuore. Ma, e se venisse a Roma subito? Se lo dovesse vedere?
Elena passò la notte in una
veglia affannosa, tribolata da continui fantasmi. Si addormentò all'alba e si
vide, in sogno, sulla riva del laghetto di Villascura, sola, con un volume di
Shakespeare fra le mani, fissi gli occhi nell'acqua immobile, fisse nel cuore
le parole malinconiche di Porzia nel Mercante di Venezia: Il mio piccolo
corpo è stanco di questo gran mondo.
Alle sei si bussò forte al suo
uscio, e perché ella non rispose subito, qualcuno aperse a scosse, a urti, a
colpi, entrò in camera, tempestando:
Santo diavolo, è Gaeta qui?
Elena alzò il capo dal guanciale,
vide suo marito che spalancava a furia le finestre.
Che fornace! sbuffò lui,
accostandosi al letto. Come va?
Elena gli rispose sdegnosamente.
Era un bel modo di entrare quello? Il barone aveva il pelo arruffato, la
cravatta in disordine, gli occhi lucenti. Vi era in quel suo mugghiare una bonarietà
di bestione allegro.
Sei in collera? diss'egli. Son
tre giorni che non ci vediamo. E allungò una mano sul letto, le prese un piede.
Elena trasalì, ritirò il piede.
Lasciami stare diss'ella.
Bel modo anche questo! esclamò il
barone. Caro marito, si dice, come stai bono d'essermi venuto a trovare dopo
quel tiro che t'ho giuocato!
Elena non degnò rispondere.
Colui trascinò una poltrona
accanto al letto, vi si sdraiò a gambe aperte, sbadigliando.
Sto bono diss'egli. Quanto sto
bono!
Perché ho questa voce soggiunse,
perché ho questa facciaccia di diavolo cefalutano, perché ci ho addosso il
fuoco dell'isola, voialtri pupi del settentrione mi avete per un
Sata-liviti, per un Dionigi, che so! Guarda, tu che sei
l'angelo del paradiso, che non si è degni di toccarti un dito, tu mi hai
ingannato, tu ti sei provata di togliermi la vita, pupattola mia!
La vita? interruppe Elena.
La vita, la vita! Quelle quindici
mila lire erano l'onore per me, e ti prego di credere che quantunque io sia uno
scelleratissimo tiranno, se avessi a perdere l'onore, gliela getterei dietro
sul momento la vita! Là, tu hai fatto il possibile perch'io non avessi il
danaro, capisci? Ho dovuto dare tre notti al diavolo per averlo. E ora sto qui
bono come un agnello.
Si alzò in piedi, le si accostò
con un sorriso:
E ti voglio bene, cuoruccio mio.
Ella lo respinse con un gesto.
Hai paura di Cefalù? Allora non
ci si va. A quegli altri no, ma a te ti perdono. Chi sa dove si va. Affogo nel danaro,
capisci? Ma bisogna voler bene a suo marito, signorina mia.
Una goccia di vino non l'aveva
presa; ma la fortuna del giuoco, le lunghe veglie e, per così dire, l'amore,
gli mettevano un chiarore d'ebbrezza negli occhi.
Hai giuocato? disse Elena.
Tre notti. Ho guadagnato
ventiseimila e cinquecento lire. Andrei volentieri ad Aix adesso che sono in
vena.
No, no. E l'avvocato Boglietti?
Non ci vai subito?
Accidenti a lui! imprecò il
barone. Cosa ne sai tu? È stato qui quel birbante? Mascalzone! Sì che ci andrò
e lo pagherò e gli darò anche la rata di settembre, e non so se ci si divertirà
molto. Ah è stato qui il cane? Gli rompo il ceffo, stavolta!
No disse Elena, non ci è stato.
Oh allora, come lo sai?
Non importa.
E io non te lo domanderò. Mi
sento di latte e miele stamattina. Di' la verità, io sono un buon diavolaccio,
un nuvolone che tuona e non dà mai grandine. Mi piace un poco di giuocare;
niente altro. Non ti posso dire i buoni pensieri che mi vengono; sarei persin
capace, forse, di salutar tua madre e tuo zio se m'incontrassi con loro.
Bisogna volermi bene, bella mia.
Si chinò rapido su lei per un
bacio, ch'ella ebbe, voltandosi, sui capelli.
Va via disse, chiudi le imposte,
lasciami quieta!
Cosa c'è? fremette suo marito
impaziente.
Ho la febbre.
Egli credette che mentisse, ebbe
un lampo d'ira negli occhi e le afferrò il polso.
Si venne mutando in viso, e finì
con gittar sul letto quella bianca mano inerte, dicendo:
Lo fai per dispetto? Oggi avevo
anche invitato gente a pranzo.
Va bene. È febbre romana. Stasera
non l'avrò.
Febbre romana? esclamò il barone
aggrottando le sopracciglia. Faccio venire un medico.
Non occorre. So io cosa ci vuole
subito subito.
Cosa?
Elena girò il viso verso di lui.
Sicilia diss'ella.
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