Signor Boglietti! gridò l'usciere
entrando nel salotto di via della Missione, dove si va per parlare ai deputati.
C'era folla: chi scriveva, curvo sul banco degli uscieri, chi entrava peritoso,
chi usciva in fretta, una quantità di facce infastidite o trepide o vanitose
aspettavano in silenzio.
Nessuno rispose all'usciere;
tutte le facce si guardarono a vicenda.
L'onorevole Cortis! gridò colui,
più forte. Chi desidera l'onorevole Cortis? Allora uno che stava parlando
sottovoce con alcune signore nel secondo salotto, si scosse ed entrò nel
corridoio scuro, in fondo al quale Cortis lo aspettava.
Cosa c'e? disse questi, asciutto.
Passi.
E fece entrare il signor avvocato
in una sala dove un altro visitatore ossequioso si confessava al suo deputato.
Boglietti diede un'occhiata a quei due, esitò un istante. Cortis si strinse
nelle spalle.
Parli, parli diss'egli, sedendo
sul divano.
Ecco incominciò colui, piano. Io
sono proprio dolentissimo, signor deputato, di ciò che Le debbo dire, e, prima
di venire al punto, vorrei che Ella si persuadesse...
Cortis guardò l'orologio.
Venga pure al punto diss'egli
senza turbarsi.
Che vuole? rispose l'altro. Ho
pensato a questa proroga; mi sono domandato se proprio avevo facoltà
d'accordarla. Forse no, non l'avevo; tuttavia, passi! Per una questione così,
per una questione di quindici giorni avrei anche potuto arbitrare. Ma poi ho
avuto delle informazioni decisive.
Ebbene?
Intanto, so da persona che ha
parlato con il barone stesso, che ora le relazioni fra lui e la famiglia di sua
moglie sono pessime...
Colui tacque un momento, come
aspettando una parola di Cortis, che non venne.
E poi proseguì so pure che il barone
è stretto da parecchi altri impegni urgentissimi, gravissimi. Insomma, se si
fosse trattato d'un affare mio proprio, avrei forse lasciato correre; ma
così...
Ella ritira la sua promessa
interruppe Cortis, alzandosi.
Il signor avvocato si alzò pure, protestando
di non aver creduto dare una promessa formale, di essere accoratissimo. In quel
momento l'altro deputato, congedatosi dal suo interlocutore, disse a Cortis:
Non vieni? Si vota.
Vengo rispose questi. È forse
l'ultima volta.
Che, che! esclamò colui dal
corridoio, andandosene.
Vado subito riprese l'avvocato.
Ho dunque dovuto scrivere stamattina al barone di Santa Giulia, avvertendolo
che non c'è dilazione alla scadenza.
Ha già fatto anche questo, Lei?
disse Cortis guardandolo fiso, con la sua freddezza sarcastica. Venga da me
domattina alle nove.
Domani, sabato, 25 disse l'altro
pensando a capo chino e lisciandosi la barba. Alle nove non posso. Non posso
prima di mezzogiorno.
Allora, a mezzogiorno. In casa
mia. Sta bene?
Sì, signore.
Boglietti se ne andò e Cortis
guardò da capo l'orologio.
Erano le tre. Elena e la contessa
Tarquinia dovevano essere arrivate alla Minerva da un'ora. Cortis aveva pregato
il senatore Clenezzi di recarsi alla stazione in vece sua. Egli entrò nell'aula
a votare e dieci minuti dopo uscì da Montecitorio, s'avviò passo passo verso il
Pantheon.
Qualcuno che lo incontrò allora,
affermò poi di non averlo mai veduto così pallido. Sentiva Elena vicina e
sentiva insieme il confuso impero di altri pensieri, di necessità non ancora ben
conosciute ma che lo venivano premendo ogni giorno più. Il discorso, anzitutto,
il discorso che aveva deliberato pronunciare l'indomani prima di rassegnare le
proprie dimissioni; un discorso inteso a oltrepassar la Camera e a toccar gli
elettori futuri, sì che voleva raccolto tutto il nerbo del suo spirito. Poi
questo nuovo rabbuiarsi dell'affare Di Santa Giulia, la urgenza di provvedere,
il fosco poscritto della contessa Tarquinia. Aveva dato il convegno
all'avvocato per l'indomani senza avere un chiaro concetto di quello che
farebbe, con il solo istinto che convenisse toglier subito il barone da questo
incubo, anche obbligandosi direttamente in vece sua. I Carrè avrebbero
approvato in seguito. Come conciliare la cosa con le convenienze e con la
suscettibilità del barone non lo sapeva ancora, ma ci penserebbe nella notte.
Per ultimo, lo turbava anche la venuta imminente di sua madre. Faceva questo
sacrificio per Elena, avrebbe fatto ben altro! Ma pure quella relativa
indifferenza, di cui le aveva scritto sinceramente, veniva meno in lui
all'appressarsi del vero.
Gli pareva poi che tante
preoccupazioni pesassero sopra una stanchezza nuova del corpo, un torpore
strano di che aveva accusato, in addietro, l'eccessivo lavoro, le ostinate
insonnie; ora ne accusava Elena che empiva Roma della sua presenza, che metteva
nell'aria un calor molle, spossante. In piazza Capranica un tale lo salutò per
nome e soggiunse: A stasera! Gli venne in mente che quella sera si sarebbe
tenuta in casa sua una riunione di amici politici, azionisti e collaboratori,
sicuri o sperati, del futuro giornale, per udire da lui, Cortis, lo schema del
suo discorso e discuterlo; poiché di lì doveva pigliar le mosse il giornale. A
stasera, aveva detto colui, e Cortis s'era sentito riafferrare al petto
dall'alta idea della sua mente, dall'austero dovere impostosi; s'era sentito
scoter via le molli fantasie, le fiacchezze del cuore, infonder nel corpo una
forza nervosa.
Entrò nell'albergo della Minerva
fra uno sciame di vecchie signore e di preti francesi. Il portiere, che stava
discorrendo con un bel cappuccino, vide Cortis e gli disse subito:
Arrivate. Il signor senatore
Clenezzi è uscito in questo punto e ha lasciato detto che se Lei veniva,
dovesse salir subito subito dalla signora contessa.
Cortis era conosciuto alla
Minerva. Aveva scelto egli stesso le camere per la contessa Tarquinia, al
secondo piano. Salitovi, la trovò sola, di pessimo umore, accesa in viso,
guasta la pertinace bellezza dal viaggio faticoso. Lo accolse male, sulle
prime, gli dichiarò che la politica lo aveva guasto nel corpo e nell'anima,
perché era lì magro, succhiato dalle streghe, un orrore; perché non gli era
rimasta neppur tanta amabilità da venir lui alla stazione invece di mandarvi
quel povero vecchio storpio di Clenezzi. Ma già la politica era un male
peggiore della gotta!
E poi soggiunse Vostra Signoria
si fa aspettare, per sua bontà, un secolo anche all'albergo. Sì, sì, un secolo,
un secolo, non serve che La dica di no.
Elena? chiese Cortis.
L'altra, piccata di quell'indifferenza,
non gli rispose, continuò il suo sfogo:
Non dico niente poi delle camere.
Si capisce, figlio caro, che non hai donne in casa.
Ne avrò, zia disse Cortis
tranquillamente.
La contessa Tarquinia
s'imbarazzò, si fece di scarlatto, tacque.
Dunque? ripigliò il primo. Elena?
Andiamo rispose la contessa
rabbonita, qua la mano e facciamo la pace. Elena benissimo, sono contentissima!
Pronunciando a voce molto alta
queste ultime parole, ella accennò all'uscio della camera vicina, poi si
coperse un momento il viso con le mani, le agitò in aria, alzò gli occhi al
soffitto.
Non capisco niente sussurrò poi
facendosi intendere più con il gesto che con la voce, non capisco niente!
Oh! fece Cortis, staccandosi da
lei.
Elena stava sulla soglia della sua
camera, pallida, sorridente, scomposti i capelli, gli occhi più grandi, la vita
più fine che mai. Pareva una giovinetta. Strinse la mano a Cortis, con uno
sguardo che non sorrideva più, con un leggero tremito della bocca. Poche parole
fredde, quasi di cerimonia, furono scambiate tra loro con voce sommessa,
vacillante. Seguì un silenzio di qualche momento. Elena guardò sua madre.
Benedetta! disse la contessa
Tarquinia. Perché non parli tu? Bene soggiunse sospirando dopo aver atteso
invano risposta, parlerò io. Caro Daniele, qui bisogna che facciamo subito
consulto. Capisci, già! Povero Daniele, hai fatto tanto a quest'ora e ti siamo
tanto grate! Ma proprio, poi; tanto grate: quel che è vero, è vero; ma di
cuore, poi. Non badare a Elena se non dice niente, perché alle volte è
insulsetta anche lei, poverina, come sua madre.
Elena alzò in viso a Daniele
l'umido fuoco scuro degli occhi. Né lei, né lui fiatarono.
Tu sai, non è vero continuò la
contessa, di certi discorsi da matto, dico io, che mio genero ha fatto a
Cefalù. Va bene. Sai anche di una sua lettera, te ne ho scritto io da Roma; ma
non sai mica i termini. Ecco, dunque. Premettiamo che a casa Carrè non si
scrive mai, che mio cognato e io siamo scomunicati fin dall'estate scorsa, con
quella bella colpa, per parte mia! Basta, è meglio non parlarne di quella
faccenda là. Avviene adesso che io mi trovo finalmente in grado di andar a
vedere Elena; tu sai in che pena ero, che non l'auguro, un'angoscia simile,
neanche a un cane; dunque vado e, naturalmente, vado all'albergo, a quel famoso
albergo d'Italia... basta, fa niente. Vado all'albergo. Sfido, in casa degli
altri per forza, no, già! E poi Lao m'avrebbe accoppata. Fatto sta che quattro
giorni dopo il mio arrivo, proprio appena, si può dire, il tempo materiale per
lui di saperlo, capita questa lettera da Roma.
Per te, zia?
Per Elena.
La contessa incominciò a
declamare con il cipiglio e la cantilena di chi studiatamente ripete boriose
parole di persona spiacevole:
Il barone sapeva benissimo che la
sua cara suocera era a Cefalù e comprendeva perfettamente che non avesse osato
prendere stanza in casa sua. Questa era la più sincera confessione dell'indegno
procedere di casa Carrè (così, proprio così!). Di tale procedere si vedrebbero
presto conseguenze ben più gravi; ma Elena doveva star sicura ch'egli non si
abbasserebbe mai davanti ai Carrè, per paura di niente. Avrebbe presto la
compiacenza di mostrare a lei, a loro, a tutti quanti, quale fosse in lui il
sentimento del dovere e dell'onore; darebbe uno schiaffo in viso, ma non diceva
come, ai suoi cari parenti, e peggio d'uno schiaffo se c'era in essi un
briciolo di coscienza. Non voleva che Elena si pretendesse relegata a Cefalù.
Egli era generoso e la lasciava perfettamente libera di andare o stare a piacer
suo. Oramai non gli importava più di nulla al mondo. Presto la lascerebbe anche
più libera di così!
Capisci? concluse la contessa.
Per me dico che son tutte chiacchiere, ma quella là si è agitata moltissimo.
Allora ho creduto di rispondergli io su questo punto della mia confessione e
del suo abbassarsi davanti ai Carrè; e mi pare anche d'aver risposto benino,
pesando le parole con un giudizio, non faccio per dire, da santa. Gli ho poi
detto che, approfittando del suo permesso, mi proponevo di condurre Elena, per
qualche tempo, nel Veneto, ma che ci saremmo trattenute alcuni giorni a Roma
per stare un po' con lui. Qui aggiungevo delle parole affettuose sui suoi
dispiaceri, sulla nostra buona volontà di aiutarlo in tutti i modi possibili.
Elena poi aggiunse alla mia lettera un biglietto in cui gli diceva che veniva a
Roma con l'intento di essergli utile anche contro la sua volontà stessa,
occorrendo; e gl'indicava il giorno e l'ora del nostro arrivo, l'albergo dove
saremmo scese. Non risponde, ma passi; forse non c'era tempo, se vuoi. Si vien
qua, si spera di trovarlo alla stazione. Euh! nessuno. Ne domandiamo a
Clenezzi, e Clenezzi, rosso come un Bacco, c'impasticcia che l'ha veduto anche
stamattina, che sta benissimo, che sarà andato qua, che sarà andato là. Non c'è
stato il tempo di spiegarsi, ma si capisce che anche le nostre lettere non
hanno fatto niente. Adesso dimmi tu. Quest'affare della scadenza è ben
combinato?
Sì, sì, combinato rispose Cortis
in fretta, non volendo turbare inutilmente le signore: perché, se le cose non
erano in quel momento composte, certo dovevano comporsi l'indomani a
mezzogiorno.
E lui riprese la contessa lo ha
saputo della proroga?
Lo ha saputo.
E cosa ne ha detto?
Io non gli ho parlato mai, ma so
da Clenezzi che se ne mostrò contento e che lo ringraziò molto.
Bene, e ora dimmi, caro te: cosa
abbiamo da fare? Lui si capisce che non intende lasciarsi vedere. Dobbiamo
scrivergli? Dobbiamo andarlo a cercare?
La contessa Tarquinia si pose ad
alitare affannosamente, mordendosi il labbro inferiore e battendo le palpebre,
come se quell'idea di andar lei a cercar suo genero, dopo toccatene tante
ingiurie, le movesse su dal cuore delle lagrime di rabbia.
Elena non aveva mai aperto bocca.
Seduta in faccia a sua madre, non pareva nemmeno aver fatto attenzione al lungo
discorso di lei, guardava nel vuoto con gli occhi spenti, immobili.
Che data disse Cortis dopo aver
pensato alquanto che data aveva la lettera?
Quale?
Quella di tuo genero, l'ultima.
La contessa non se ne ricordava;
guardò sua figlia.
Elena diss'ella, mi fai piacere?
Questa lettera?
L'hai tu, mamma rispose Elena
dolcemente. Un subito rossore le corse sul viso. Non avea pensato, nel
rispondere, che ora rimarrebbe probabilmente sola con lui.
Non mi pare rispose la contessa,
alzandosi, ma guarderò.
Appena colei fu entrata nella sua
camera, Elena stese la mano a Cortis, che l'afferrò con ambo le proprie. Gli
occhi le si velarono, le labbra dissero piano piano:
Perdonami.
Oh! diss'egli. Ma perché?...
Elena gli lesse in viso le parole
imminenti; era il perché delle sue freddezze, del suo lungo silenzio che egli
voleva sapere. Lo interruppe subito:
No, no, non è questo che devi
perdonarmi. È un'altra cosa. Bisogna che ti parli; in un altro momento!
Parve che l'uscio della contessa Tarquinia
si aprisse; Elena ritirò subito la mano. Non fu vero. I due si guardarono
ancora pochi secondi. Allora la contessa entrò con la lettera spiegata. Non
poteva vedere Elena in viso, ma vedeva Cortis. Si fermò di botto e gli disse:
Ti senti male?
No, zia.
La voce era ferma e forte.
Sedici marzo soggiunse la
contessa porgendogli la lettera.
Aspetta rispose Cortis. Io credo
di avere scritto ad Elena il 14, e a lui fu parlato della dilazione almeno tre
giorni dopo, perché Clenezzi non lo poté vedere prima del 17. Dunque non ne
sapeva niente quando scrisse quella lettera lì. Poi si sarà ammansato. Lo sa
che siete alla Minerva?
Sì, gli fu scritto.
Allora, se oggi non si lascia
vedere, Elena potrà cercar di lui domani. Intanto gli dovrebbe mandare un
biglietto.
Così dicendo Cortis si voltò a
sua cugina, che rispose sottovoce senza scomporsi:
Vado al Senato fra un'ora, con
Clenezzi.
Benedetta! esclamò la contessa.
Tu te la intendi con la gente così alla sorda e alla muta, e non parli neanche
dopo! E noi si sta qui a consultare!
Hai ragione, mamma. Ho creduto
che l'avessi inteso. Sono una gran distratta.
Cortis partì pochi minuti dopo,
malgrado sua zia volesse trattenerlo sino al ritorno di Clenezzi, per altre
intelligenze da pigliare insieme. Ella finì con dirgli che per questa volta lo
lasciava andare, ma che, se voleva il perdono de' suoi peccati, doveva porsi
dall'indomani mattina in poi a sua disposizione, e non si accettavano scuse
politiche. Va bene tutto, diceva la contessa, ma passare da Roma dopo tanto tempo
e non veder niente, questo no! L'indomani, sabato, non era giorno di villa
Borghese? Almeno un corso!
Cortis, pieno il cuore di quella
mano toltagli bruscamente, di quello sguardo scambiato poi, scese ad attendere
il senatore Clenezzi in piazza della Minerva. Voleva prevenirlo, impedire che
accompagnasse Elena al Senato. Non conveniva ch'ella vedesse il barone ora;
prima lo voleva vedere lui, Cortis; lo voleva rassicurare su questa proroga
disdetta dall'avvocato Boglietti. Clenezzi arrivò da via della Palombella
zoppicando e borbottando tra sé. Quando vide Cortis da lontano affrettò il
passo, cacciò fuori tanto d'occhi, si mise a fargli segni, lo assalì fremendo e
sbuffando, con una serie di ma non sa? ma non sa?, e appiccicatoglisi al
braccio, gli raccontò che Di Santa Giulia era venuto da lui, furioso, con una
lettera dell'avvocato in cui si disdicevano gli accordi presi. Lui, stupefatto,
aveva risposto di non saperne nulla. L'altro, quel mascalzone, gli aveva
replicato male. Allora Clenezzi s'era sentito ribollire il suo buon sangue
bergamasco e gliele aveva suonate chiare, al bestione. Le mani e il mento gli
tremavano ancora di collera; metteva dei rantoli da vecchio mastino irritato.
Bel muso, però, anche quel signor Boglietti! Cos'era questo dire e disdire? Un
gran buffone, per lo meno. E adesso, come fare a condur la baronessa in Senato?
Cosa dirle?
Cortis lo acquietò. Bastava dire
a Elena che suo marito non era più al palazzo Madama e che oramai per quel
giorno sarebbe inutile andarne in traccia. Quanto all'affare Boglietti, se ne
occuperebbe lui, Cortis; aggiusterebbe tutto lui.
Caro il mio signor Cortis!
esclamò il senatore a mani giunte. Se Le sono mai obbligato! E adesso soggiunse
bisognerà salire da queste signore.
Ma poi disse Cortis, sorridendo,
oggi, venerdì, non è giorno di Trastevere? Non è giorno di... di... di...?
Ah! ah! rispose il senatore,
sfogandosi amaramente prima nel suo dialetto e traducendosi poi: I è andàc in
malùra à quèi, sono andati alla malora anche quelli!
Cortis, rimasto solo, riafferrò
l'immagine di Elena, la dolce parola perdonami e insieme l'atto, la voce, lo
sguardo con cui era venuta. Altre immagini lo assalivano, non lo lasciavano
fermarsi in un pensiero; il colloquio desiderato da lei, la lettera del marito,
le parole presto la lascierebbe più libera di così. Paurose parole! Si vide nel
cuore qualche cosa che gli avrebbe fatto ribrezzo se non avesse saputo che ogni
miglior cuore umano è come una casa aperta, monda e ornata; furfanti che non vi
saranno ospiti mai, possono, senza colpa del padrone, affacciarvisi, mettervi
piede un momento. Si accorse, così pensando, di essersi inconsapevolmente
avviato a piazza Venezia. Punto quasi da un rimorso, tornò indietro, si recò al
palazzo Madama, e, saputovi che il senatore Di Santa Giulia abitava in via
delle Muratte, vi andò difilato.
Rassicurarlo, dirgli che al
pagamento del 31 marzo sarebbe provveduto, fargli credere che il benefizio
venisse dal Governo, apponendovi la condizione di uscire volontariamente dal
Senato; non vi era altra via da tentare. Di Santa Giulia vantava grandi
benemerenze presso la Sinistra; forse crederebbe. Non v'era altra via.
Il senatore era fuori. Cortis gli
scrisse sopra un biglietto di visita, invitandolo a recarsi da lui l'indomani,
sabato, a mezzogiorno per affari urgentissimi. Chiese poi alla fantesca che gli
aveva aperto se il senatore avrebbe sicuramente rincasato prima dell'indomani.
Colei credeva che sì; ma il signor senatore era diventato tanto strano! Faceva
con lei tali discorsi che proprio non ci sarebbe da stupire se un giorno o
l'altro succedesse una disgrazia. Doveva avere di gran fastidi, povero signore!
La donna, una chiacchierina toscana, avrebbe continuato Dio sa quanto su questo
tono, se Cortis le avesse dato retta. Ma a Cortis premeva ora tornare a casa.
Passando da una farmacia, entrò a farsi dar qualche cosa per dormire, buttò sul
banco la ricetta d'un suo collega, dicendo di desiderare una dose più forte.
Soffriva da alcun tempo insonnie penose. Sprezzatore, nella sua robustezza fisica,
d'ogni bisogno del corpo, sprezzatore e ignaro insieme d'ogni arte medica, non
pigliava medicine mai se non per qualche sofferenza che gl'impedisse lo studio
o l'azione; e allora si curava brutalmente, combattendo il solo fenomeno con
gli specifici più violenti. A casa si ordinò un caffè fortissimo, salvo a
prendere il cloralio la notte prima di andare a letto; poi si chiuse a lavorare
nel suo studio, dove dieci o dodici sedie erano già preparate agli amici attesi
per le nove di sera.
|