14. Eran degni di questo.
Elena non dormì quella notte.
Ebbe un breve sopore all'alba e sognò la sua cameretta gaia di Passo di Rovese,
il vento fresco, il verde e le rose; un sogno in cui si sdegnò, quasi, con se
stessa. Si alzò alle sei, andò a messa alla Minerva con il desiderio di
pregare, di trovare un po' di pace. Non poté. In chiesa più ancora che fuori si
sentiva muta di fede. E invidiò, sedendo stanca nel suo banco, tutti quei
devoti che avevano tante cose buone da poter domandare a Dio, che pregavano
fervorosamente, come se proprio lo vedessero là fermo sull'altar maggiore ad
ascoltarli. Ella invece non vedeva che la propria sua vita misera, inutile, e
non desiderava niente, non aveva niente da domandare a Dio senza peccato. Gli
chiederebbe forse di estinguerle la passione, il fuoco dell'anima? Oh no no, il
suo tormento le era troppo caro: ne viveva. Piuttosto chiedergli di farla
morire; ma che ne sarebbe di lei nell'altra vita? Che aveva mai fatto di bene,
in questa? Qualche opera di carità, freddamente. Anche la sua virtù di moglie
fedele, che merito religioso aveva? Nessuno. Era stata fedele, in parte per un
fiero sentimento umano d'onore, in parte per non nuocere a lui, per non essere
un inciampo sul suo cammino. Con quale frutto? Con questo solo; non commettere
il male. Cosa ne aveva ella fatto di tanta potenza d'amore e d'opere, che
sentiva nel cuore? L'aveva sepolta. No, non doveva chiedere la morte a Dio, ma
la vita; non l'amore, non la gioia, non la pace, ma solo la forza di fare il
bene per amor Suo, di soffrire con rassegnazione. Si esaltò in questo pensiero,
un subito fuoco amaro le arse nel cuore, e chiese a Dio questo; gli disse che
non gli domanderebbe mai di esser felice neppure nella esistenza futura, che
accettava e benediva la Sua volontà quand'anche fosse di farla soffrire
eternamente. Trovò riposo nella preghiera e un alito molle di quella pace cui
non voleva chiedere. Era spossatezza, forse, e naturale effetto di uno sforzo
così violento. La preghiera le venne morendo nello spirito stanco; quasi anche
il pensiero; restava solo un senso di quiete.
Le venne poi quest'idea, che non
valesse la pena di nascondere ancora il suo cuore a Cortis. Con tutto il suo
studio di farsi dimenticare da lui, d'offenderlo, non v'era riuscita, e
comprendeva bene d'essere indovinata da lui: l'una e l'altra cosa le davan
tanta dolcezza malgrado se stessa! E allora? Il simulare diventava un
sacrificio inutile. Povero Cortis, quale consolazione gli aveva dato ella mai?
Di chi era la colpa se gli toccava ora la pena di vivere con sua madre? Costei
le aveva scritto dei ringraziamenti pindarici, delle tenerezze nauseabonde con
certe sconvenienti allusioni alle persone male appaiate, che le avean tratto al
viso il suo sangue altero. La contessa Tarquinia non sapeva darsene pace;
descriveva sua cognata da giovane come la più falsa, la più egoista creatura
del mondo; una convivenza impossibile! Elena era piena di rimorsi benché avesse
chiesto a Cortis per colei il solo permesso di abitare Roma. Bisognava
domandargli perdono a mani giunte, vedere se non ci fosse più rimedio. La messa
era finita, la gente usciva. Elena s'inginocchiò un momento, non a pregare, ma
a pensare che se fosse lecito domandar simili cose a Dio, se un'anima poco
credente, poco degna come la sua potesse sperarne ascolto, gli chiederebbe di
provveder lui, di liberare Cortis. Uscendo di chiesa le venne in mente con un
lampo d'ironia che avrebbe dovuto ricordarsi anche di suo marito. In fatto la
lettera ricevuta a Cefalù le aveva messo un'agitazione più profonda, più
indefinibile ch'ella non volesse confessare a se stessa; ma ora, sapendo che la
dilazione del pagamento si era ottenuta dopo quella lettera, ignorando che suo
marito fosse stretto da altre necessità egualmente minacciose, non se ne curava
più tanto. Era andata segretamente, la sera innanzi, in via delle Muratte; il
barone era fuori; gli aveva lasciata una lettera.
Che fare di più?
Sulle scale dell'albergo incontrò
il senatore Clenezzi che ne scendeva e che, vedendola salire a quell'ora,
rimase lì di stucco, a mani giunte, senza nemmanco salutare.
Cara Lei diss'egli finalmente, ne
ha altre? Sa mica che sono appena appena le sei e mezzo?
Elena sorrise.
Che piacere ha d'incontrarmi!
diss'ella.
Il senatore si storse tutto,
sospirò come se inghiottisse delle proteste venutegli alla bocca e rispose
solo: Basta. Poi le parlò di uno stranissimo biglietto di Cortis, pervenutogli
in quel momento. Elena trasalì, gli si porse tutta con un atto di muta domanda.
Colui le diede il biglietto che diceva:
È arrivata in Roma stamattina,
improvvisamente, mia madre. Non so se mi sarà possibile venire alla Minerva verso
le dieci come avrei voluto. A mezzogiorno ho affari; poi c'è la Camera e devo
parlare. La prego di avvertire le signore. Se non potrò venire manderò più
tardi i biglietti per la seduta.
Mi dica un po' chiese il senatore
prima ancora che Elena avesse finito di leggere. Cos'è questa storia? Io ho
sempre inteso e da lui e da Lei e da tutti che il signor Cortis era solo, che
non aveva altri parenti se non loro. Capisco niente, io!
Elena non rispose; teneva sempre
gli occhi sul biglietto come riflettendo. Lo rese finalmente a Clenezzi.
Va bene diss'ella.
Clenezzi intese che ne sapeva più
di lui e che non le garbava di parlare. Si congedò, promettendo tornare verso
le dieci per mettersi a disposizione della contessa Tarquinia. Era già in fondo
alla scala, quando Elena ridiscese in fretta, lo raggiunse.
Vada da Cortis diss'ella, veda
mia zia e, quando viene, me ne dica qualche cosa.
Il senatore, sbalordito, aperse
la bocca per scusarsi, quando Elena risaliva già, correndo, la scala.
La contessa Tarquinia non si
svegliò che un paio d'ore più tardi. Quando seppe dell'arrivo di sua cognata,
dichiarò netto ad Elena che tutti erano padroni di perdonare fin che volevano,
che col cuore perdonava anche lei, ma che non l'avrebbe veduta sicuramente. Le
rincresceva per Daniele, ma su questo punto non poteva transigere. Se Elena
volesse ascoltar lei, si comporterebbe allo stesso modo.
Oh no! rispose Elena con un tale
fuoco sdegnoso, con un tale aggrottar del ciglio che sua madre si affrettò a
dirle: Eh, non La si offenda, per amor di Dio!; e poi, fatte molte professioni
di esagerata umiltà, di esagerato rispetto per il gran talento e per il
generoso cuore di sua figlia, che intanto fremeva, incominciò, quasi parlando a
se stessa, a ripeter l'iliade de' passati falli di sua cognata, senza tacere di
certi antichi guai che avevano avuti insieme.
Lo so interruppe Elena, ma vuoi
rendere ancora più amaro il sacrificio di Daniele, sapendo poi anche la parte
che v'ho preso io?
Padrona rispose la contessa Tarquinia,
padronissima! M'hai domandato consiglio? E Daniele mi ha mai detto niente?
Elena sdegnò replicare.
Clenezzi tornò alle nove e mezzo,
e fu ricevuto da Elena sola perché la contessa Tarquinia non aveva ancora
compiuta la propria toeletta. Era andato a casa Cortis, non disse con qual
pretesto; in fatto, per domandare notizie dell'affare di Santa Giulia.
E dunque? chiese Elena.
Ho visto anche la Sua signora zia
rispose il senatore con un inchino.
No, no, no rispose Elena
impaziente, battendo palma a palma. Non c'è affatto bisogno di complimenti.
Dica dica proprio com'è.
Proprio? rispose il senatore. Ho
da dirla? È uno spavento. Non ho mai visto una cosa compagna.
Dica.
Non parliamo del fisico. Lunga,
gialla, magra; non ha che pelle e ossa. Da noi si direbbe che è buona da
mandare a Palazzolo per farne dei bottoni. Ma è la toeletta, ma sono i modi, ma
è l'insieme! Cortis me l'ha presentata con una faccia e una voce da gelar le
parole fino in gola, e lei mi si è messa subito a chiacchierare, a chiacchierare
tanto che non ho potuto resistere cinque minuti e sono scappato.
Il senatore sostò un momento e
riprese, grave: Ma sa chi m'ha fatto impressione?
Elena impallidì.
Cortis diss'egli. Deve star male.
Se vedesse! Ha la fisonomia alterata. Ho paura che gli succeda qualche cosa.
Ella lo guardò, muta, con due
occhi così aperti, così fissi, così pieni di subito spavento, che il senatore
si affrettò ad attenuare, come poté meglio, l'effetto delle sue parole e della
faccia sepolcrale con cui le aveva proferite. In questa entrò la contessa
Tarquinia, elegantissima, e, data ai due una occhiata rapida, domandò a
Clenezzi se ci fossero notizie di suo genero. Clenezzi rispose un po'
storditamente che sì, che il barone Di Santa Giulia era aspettato da Cortis in
casa sua per mezzogiorno.
Da Cortis? Cosa c'era di nuovo?
Qui il senatore s'imbarazzò un poco. Rispose che si trattava di alcune ultime
intelligenze da prendere con l'avvocato, di alcune formalità relative al noto
accomodamento. Elena non parlò; alla contessa Tarquinia piacque accettare ogni
spiegazione che le mettesse il cuore in pace, almeno per quel giorno. Elena in
fin dei conti era partita da Cefalù con il permesso di suo marito; questi era
informato del giorno e dell'ora in cui ella doveva arrivare a Roma; lo si era
andato a cercare al Senato e a casa; gli si era scritto nei termini più
convenienti; che poteva egli richiedere di più?
La contessa domandò a Clenezzi se
avesse in pronto un bel programma per la giornata. Lei non esigeva che la messa
a San Pietro e il corso a villa Borghese. Il senatore propose una visita al
museo Tiberino, aperto da poco tempo. La contessa Tarquinia arricciò il naso.
Oh Dio, musei! Ne aveva veduti tanti! Cosa c'era di bello in questo museo
Tiberino? Clenezzi confessò umilmente che non v'era andato mai. La contessa vi
si rassegnò e stavano per uscire quando Clenezzi rammentò che Cortis gli aveva
detto di voler fare il possibile per venire alla Minerva tra le dieci e mezzo e
le undici. La contessa Tarquinia, atterrita dall'idea di vedersi forse comparir
davanti sua cognata, s'infuriò a dire che, nell'incertezza, non era il caso
d'aspettarlo e che si poteva lasciare al portiere un biglietto per lui. Lo
scrisse subito ella stessa, avvertendo Cortis che avrebbe potuto trovar lei e
sua figlia, intorno alle undici, al museo Tiberino.
A San Pietro, mentre la contessa
entrava nella cappella del coro, Elena trattenne Clenezzi con un cenno, gli
chiese impetuosamente:
Cosa c'è di mio marito? Cosa va a
fare da Cortis?
Ma niente rispose il senatore.
Quello che Le ho detto.
La contessa tornò indietro per
dir qualche cosa a sua figlia; il dialogo fu troncato.
Verso le undici, la carrozza
delle signore giungeva dal borgo San Spirito e quella di Cortis dal ponte di
ferro al museo Tiberino.
Sapete cosa faccio? disse la
contessa vedendo da lontano suo nipote. Vi dono il vostro museo, e ve lo dona
anche il senatore; non è vero? Lui mi accompagna a fare una commissione; e tu,
Elena, vai al museo con Daniele e poi ti fai accompagnare all'albergo. No?
Per me...! rispose il senatore
chinando il capo e alzando le mani spiegate. Elena non disse parola, non
arrossì né impallidì: solo l'ansar del seno tradiva la sua commozione. Prima
che scendesse di carrozza, sua madre le sussurrò rapidamente all'orecchio di
riferire a Cortis la sua ferma volontà di non ricevere la cognata. Elena scosse
risolutamente il capo.
Parlerai tu diss'ella.
La contessa Tarquinia morse
disperatamente il ventaglio che teneva in mano; poi, salutato appena suo
nipote, ordinò al cocchiere:
In via Condotti.
Cortis non capiva. Guardò Elena
come per chiederle una spiegazione.
Alla mamma non piacciono i musei
diss'ella con voce incerta e con un sorriso forzato della bocca, che mal
rispondeva al fuoco triste degli occhi. Se puoi mi accompagni tu.
Figurati rispose Cortis. Prese i
biglietti e, offertole il braccio, entrò con lei nel giardino deserto, incolto,
che verdeggia sotto le solitudini di Sant'Onofrio.
I lontani rumori di Roma morivano
in quel silenzio profondo. Le grandi palme di fronte al museo con la loro
gravità orientale, gli abeti ritti e densi su per il Gianicolo con la loro
rigidezza nera, mettevano nella quiete una malinconia solenne.
Non ci sono stato mai neppur io
disse Cortis. Dev'essere interessante.
Anche la sua voce aveva un leggero
tremito. Elena lo seguiva, inerte. Alla porta del museo egli piegò a destra per
entrarvi; ma allora quel braccio inerte appoggiato al suo s'irrigidì a un
tratto, lo spinse diritto avanti.
Perdonami, perdonami singhiozzò
Elena con voce soffocata.
Cortis sentì riprendersi dalle
vertigini della sera precedente, ma stavolta le vinse con un impeto di volontà,
strinse forte il braccio d'Elena, e la trasse, camminando rapidamente, in un
viale erboso che si perdeva a sinistra, fra le macchie. Là dentro rallentò il
passo.
No, no, Elena diss'egli, tenero,
accarezzandole la mano, portandosela alle labbra. Cosa vuoi che abbia da
perdonarti, cara? Non ho niente, niente.
Ella soffocava il pianto nel
fazzoletto, un pianto convulso che le scoppiava dalle spalle.
No, no, Elena, no, cara le
ripeteva Cortis con una dolcezza che pareva raddoppiare l'emozione di lei. Ella
poteva solo dire a stento, quasi parlasse a se stessa:
Impossibile, impossibile!
Si chetò poco a poco, alzò il
viso a suo cugino.
Mi perdoni? diss'ella.
Ma Dio! rispose Cortis
fermandosi, prendendole ambedue le mani. Il tuo silenzio? La tua freddezza? Ma
se...
Elena ebbe paura che compiesse la
frase, lo interruppe.
Sì, sì diss'ella, tutto, sì,
anche quello; ma quello lo facevo per te, Daniele, perché tu mi potessi
dimenticare per sempre, per sempre!
Io posso tutto rispose Cortis,
cingendole la vita con un braccio; io posso amare e soffrire quanto nessun
altro al mondo e posso anche morire...
Ella gli strinse la mano
affannosamente, come se glielo portassero via.
... sì, sai, anche morire prima
di farti del male.
Oh diss'ella credi che non lo
sappia? Credi che ne abbia dubitato mai? Non è di questo che avevo paura; avevo
paura di essere una disgrazia per te.
Posso anche morire riprese Cortis
ma dimenticare no, Elena. E come saresti una disgrazia per me? Se vuoi parlare
dei miei doveri pubblici, lo sai, non c'è sentimento privato, per quanto forte,
che valga a...
Questo lo so interruppe Elena ma
io pensavo, te l'ho anche scritto, che hai bisogno di un amore intero,
diverso... Dal mio, voleva dire; ma la parola le morì sulle labbra.
Me l'hai scritto e ti ho
risposto.
Cortis la sentiva tremar tutta.
V'eran, lì di contro, una colonna mozza, dei vecchi gradini semicircolari
appoggiati al pendìo del colle, mezzo nascosti nell'erba. Cortis vi fece sedere
la sua compagna.
Oh Daniele! diss'ella. Quello che
mi devi perdonare sopra tutto è la lettera per tua madre. Sono stata così
leggera, così stupida! E adesso per causa mia...
Cortis non la lasciò finire.
No diss'egli, adesso niente per
causa tua. Adesso mia madre è a Roma con me perché io l'ho voluto liberamente.
Tu non c'entri. Vi era forse dell'egoismo nella mia ripugnanza a vivere con
lei. Prima mi dicevo: qualunque sacrificio, ma questo no. Ed era male. Gli
altri non sono sacrifici, poiché si fanno volentieri. Del resto, io non le ho
mica detto che la terrò meco per sempre. Le ho detto di venire per ora. È un
esperimento da tentare prima di lasciarla sola, affatto libera di sé. Insomma,
mi hai fatto del bene.
Elena gli afferrò una mano per
baciargliela.
Oh! fece Cortis ritraendosi. Poi,
con un subito slancio, prese ambe le mani di lei, l'alzò, quasi di peso.
Sono io mormorò che posso...
Si chinò rapidamente, la baciò in
fronte. Ella tremava, tremava, non aveva più volontà né forza, quasi non
intendeva né vedeva più. Lo stesso Cortis non poté, per alcuni istanti,
soggiunger parola.
Basta diss'egli. Di questo
n'eravamo degni tutt'e due.
Sedettero l'uno presso all'altra
in silenzio.
Elena parlò per la prima.
Vai in chiesa, tu? diss'ella.
Preghi?
Cortis sorrise, le chiese il
perché di questa domanda.
Perché io vorrei pregare come una
volta, e non posso. Non ho fede, non ho fede, non ho fede!
Ella pronunziò in fretta con voce
accorata queste ultime parole, celandosi il viso fra le mani e crollando il
capo.
È una sventura diss'egli. Io vado
poco in chiesa; mi occupo più del mio paese che dell'anima mia; ma il mio cuore
sente Dio profondamente e spero ch'Egli non sia in collera con me.
Sai riprese Elena, vorrei dirti
tante cose dell'anima mia, tante cose strane! Ma adesso non trovo le parole. E
poi soggiunse alzandosi di botto ti ho fatto perdere anche troppo tempo. Tu
devi partire...
Giunse le mani con un movimento
improvviso e disse sottovoce:
Perché viene da te mio marito?
Come lo sai? esclamò Cortis,
brusco. Ah, Clenezzi! soggiunse subito. Non è niente. È per definire una buona
volta la faccenda del pagamento, metterla in carta. Se fosse qui tuo zio,
farebbe lui. Così faccio io e poi gli riferisco. Son cose semplicissime. Che
gran cose vuoi che sieno?
Si stizziva, quasi. Elena non
insistette.
E poi diss'ella tu stai poco
bene? Devi curarti, sai.
Cortis si strinse nelle spalle.
Io?
Elena non si perdette a
contraddirlo, mise in un oh sommesso tanta passione di preghiera, che
Cortis se ne sentì correr la dolcezza nel sangue e non rispose. Di fatto sapeva
di aver la febbre, la testa gli pesava più del piombo, ma tollerava il male con
la sua consueta energia, aiutato anche dall'orgasmo nervoso. Ora, poi, quel
primo aprirsi a lui dell'anima ch'egli amava, quel sentirsi un risponder così
pieno e profondo al sentimento suo, quell'aurora di una nuova vita lo
ristoravano.
Anche la quiete selvatica del
luogo lo venìa penetrando. Fiorellini bianchi e gialli oscillavano nell'aria
meridiana sui ruderi della vecchia gradinata, un usignolo cantava sul bacino
circolare ch'è in mezzo al giardino, né voce né passo umano turbavano il
silenzio caldo.
Cortis non sarebbe più venuto
via, ma era quasi mezzogiorno, bisognava muoversi. Presero un viale a caso, non
sapendo quale dei due guidasse l'altro. Fu nel passare presso alle grosse
radici sporgenti e agli strani candelabri di una fitolaca del Messico, smarrita
ella pure in mezzo al giardino, che Cortis si avvide di avere sbagliato strada
e ne avvertì Elena.
Oggi devo anche parlare alla
Camera diss'egli poi, e tu devi venire. Ti farò avere i biglietti all'albergo.
Elena si strinse al suo braccio.
Entrarono un momento nel museo, per convenienza e senza dirselo, provando acuto
piacere d'essersi tacitamente accordati nello stesso pensiero. Guardaron solo
un piccolo busto femminile, una povera testina piegata sull'omero, bianca, dai
lineamenti dolci, un po' affievoliti per tanti secoli, per tanti flutti corsivi
sopra. Pareva che l'antico artista l'avesse lavorata nel presentimento di una
sorte così amara, le avesse infuso un dolore rassegnato e profondo, che ora
nell'aria pura e quieta di quella sala diceva di aver troppo sofferto, di non
si poter consolare.
Durante il tragitto dal museo
all'albergo né Elena né Cortis proferirono parola. Solo nell'accomiatarsi
Cortis le disse:
Se tua madre non viene alla
Camera, tu vieni ugualmente?
Ella lo guardò con i suoi grandi
occhi appassionati, gli strinse forte la mano e rispose sottovoce:
Sì.
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