Lo sapevo, io! disse sottovoce ad
Elena la contessa Tarquinia facendosi vento con molto dispetto, perché l'aula
era quasi vuota. Siamo venute un'ora troppo presto. Te l'avevo ben detto!
Bastava venire alle due, alle due e mezzo.
Molti ventagli battevano con voce
aspra e secca lo stesso punto nella tribuna destra della Presidenza. Altri
misuravano placidi e lenti il durar di una pazienza flemmatica, di una placida
soddisfazione; o il cammino di un pensiero su qualche via molto lontana da
Montecitorio. Un signore pratico insegnava ad alcune dame l'aula e le tribune,
le cose e le persone, parlando forte, cercando sul viso dei vicini
l'ammirazione e il rispetto dovuto alla sua esperienza. Ma le signore si
guardavano più volentieri fra loro, obliquamente. Solo quando un deputato
entrava nell'aula e il signore pratico ne diceva il nome, dei ventagli
tacevano, dei cappellini si porgevano avanti verso il gran vuoto. La contessa
Tarquinia, elegantissima, in marron e celeste molto chiaro, con due
braccialetti d'oro liscio larghi quattro dita, era tra le più guardate. Pareva
la sorella maggiore d'Elena. Questa, vestita di nero, senz'altri gioielli che
una croce di turchesi al collo, soffriva delle impazienze di sua madre, delle chiacchiere
inesauribili di quel signore, di trovarsi lì fra tante persone ignote e sugli
occhi di tante altre, con quello che aveva in cuore. Le sarebbe bastato di
vedere Cortis per togliersi da un tale disagio; ma Cortis non era ancora
entrato nell'aula. Pochi deputati scrivevano sui loro stalli, altri giravano
per i settori con le mani in tasca, altri discorrevano nell'emiciclo,
guardavano le tribune. Uno di questi, l'on. T., conoscente di casa Carrè, vide
la contessa Tarquinia, capitò subito nella tribuna, si offerse alla contessa
per quanto avrebbe potuto desiderare da lui in Roma. Ella gli rispondeva con
dei sorrisi luminosi, tutta rossa di piacere per quell'omaggio pubblico. T. non
aveva riconosciuto Elena sulle prime e se ne scusò alla meglio, disse che la
credeva in Sicilia.
È una fede antica in Lei e molto
robusta disse Elena col suo sorriso fine. M'ha sempre creduto in Sicilia anche
quando mi vedeva a Roma.
Colui diventò tutto rosso,
protestò, ma Elena lo interruppe subito, gli chiese cosa si rappresentasse quel
giorno alla Camera.
Eh! rispose T. Prima c'è
l'esposizione finanziaria. Non lo sapevano? È per questo che vede le tribune
così affollate. E poi, questo lo sapranno meglio di me, c'è il coup d'èclat
che vuol fare Cortis.
Oh! esclamò la contessa. Che
cosa? A noi non ha detto niente.
Allora non sarà vero. Sa che i
suoi elettori hanno mandato una protesta contro di lui? Si dice che intenda
rassegnar le sue dimissioni da deputato con un discorso... molto ardito, per lo
meno.
I vicini guardavano T., stavano
attenti. Qualcuno si voltava a ripeter sottovoce la notizia. Uno che non aveva
udito bene, sussurrò: Chi? Gli fu risposto sullo stesso tono: Cortis, quel
clericale. Elena udì, vibrò a chi l'aveva detto un'occhiata di freddo disprezzo.
La contessa Tarquinia n'era tutta sconsolata, non voleva credere, domandava a
T. come e quando e da chi fosse uscita questa voce. Sapeva della protesta, ma
sapeva pure che molti sottoscrittori n'erano già pentiti. T. rispose poche
frasi vaghe, si scusò di non potersi trattenere più oltre e tolse congedo.
Capace, sai! sussurrò la contessa
a sua figlia. Ha delle idee, certe volte! E non dir niente! Anche questa ci
voleva. Ti giurò che appena comincia a parlare, vado via.
Perché?
Perché chi sa cosa succede, e
allora sto male. Oh Signore, sei di sasso tu? Eh, vado via, vado via. Di' la
verità che tu staresti qui?
Sicuro.
Va bene, e poi vengano a dirmi...
Era un dialogo di bisbigli e
l'ultima frase della contessa Tarquinia fu ancor meno di un bisbiglio; ma Elena
udì, si accese di sdegno in volto, indovinando un'accusa che sapeva di non aver
giustificato con alcun atto palese.
Cosa? diss'ella.
Niente.
Infatti nessuno aveva parlato
alla contessa Tarquinia di tenerezze sospette fra Cortis e sua figlia; ma una
pia X. glie n'avea scritto molto tempo addietro, a fin di bene. Elena non parlò
più. Il cuore le batteva forte di dolore, di sdegno, di disgusto, come se una
curiosità villana fosse venuta a guardarvi dentro di furto. E adesso avrebbe
quasi voluto andar via anche lei; le ripugnava di star lì, le pareva che quando
fosse entrato Cortis, quando avesse preso la parola le si dovessero vedere i
pensieri. Intanto il ventaglio della contessa Tarquinia batteva e ribatteva
l'aria, più fastidioso che mai.
Che noia! diss'ella.
Una signora vicina mormorò
timidamente:
M'avean detto che si cominciava
al tocco.
La contessa Tarquinia non
rispose. Non era il ritardo che le dava maggior noia.
Adesso comincieranno subito disse
il signore pratico. Vedono quel deputato che si mette a scrivere là in alto, in
cima al secondo settore? Quello è Minghetti. Oh! Ecco Depretis!
La contessa dimenticò un momento
le sue pene per guardare anche lei, come gli altri, il ministro che entrava da
destra col suo passo stanco.
Una signorina disse sottovoce:
Come è vecchio!
Guarda osservò la contessa
Tarquinia a sua figlia se non è tutto lo speziale di Passo di Rovese. Ah, ma
tutto!
Elena non le badava. Anch'ella
s'era scossa vedendo entrare il ministro; ne aveva ricevuto un colpo, sentendo
più vivamente il tardare di Cortis. Il cuore le batteva forte. Se fosse malato!
pensava. E lo vedeva a letto col volto acceso, con gli occhi lucenti di febbre.
Non c'è ancora il presidente,
disse qualcuno. Di solito è al suo posto mezz'ora prima. Allora un signore
entrato da pochi momenti osservò che l'aveva veduto uscire dalla Presidenza
insieme al deputato Cortis.
Ecco! sussurrò la contessa
Tarquinia. Hai udito? si saranno intesi per questo discorso. Non c'è dubbio!
Farini, Farini! disse il signore
pratico alle sue vicine. Guardino Farini.
L'onorevole presidente della
Camera entrò rapidamente e, scambiate poche parole con taluno dell'ufficio di
Presidenza, prese il suo posto. Elena aspettava palpitando che qualcun altro
entrasse dietro di lui.
Entrò l'onorevole ministro
Magliani, entrarono gli uscieri con i portafogli, li posarono sul banco del
Ministero. Seguirono, alla spicciolata, una trentina di deputati, il campanello
presidenziale ruppe con la sua vocina nervosa il rombo delle conversazioni, un
segretario cominciò a leggere tediosamente, ad alta voce, qualche cosa cui
nessuno badava. E Cortis non compariva. Ma Elena sapeva che non aveva conferito
col presidente, era più tranquilla.
Dov'è il posto di Cortis? le
chiese sua madre. Elena non lo sapeva. Il signore pratico si affrettò di
risponder lui con melata ufficiosità:
Là, signora, nel terzo settore,
vicino a quel deputato pallido colla barba nera. Eccolo il deputato Cortis.
Arriva adesso. Là, signora.
Elena guardava a destra e Cortis
entrava da sinistra a braccio d'un altro deputato. Attraversò lentamente
l'emiciclo e salì al suo posto senz'alzare il capo alla tribuna. Elena non lo
vedeva bene in viso, ma qualche cosa nel suo passo, nel suo atteggiamento le
faceva male al cuore.
È giù, però, Daniele disse la contessa
Tarquinia. Pare un vecchio. No?
L'altra non rispose.
Qualcuno fece sss! perché il
presidente leggeva qualche cosa che richiamava l'attenzione della Camera. Nella
tribuna tutti tendevan l'orecchio.
Dimissioni disse uno, poi che il presidente
ebbe finito di leggere.
Di chi?
Il nome non si è capito, ma
Cortis non è certo. Zitto, zitto! Un deputato ha chiesto di parlare. Chi è? È
questo; no, è quest'altro. È C. che propone non sieno accettate le dimissioni e
si accordi all'onorevole P. un mese di congedo. Nelle tribune si mormora, si
dice: La solita commedia. S'alza un secondo deputato, poi un terzo, poi un
quarto. Tutti suonano la stessa musica. La proposta è messa ai voti, la Camera
approva. Allora Cortis si alza e dice con voce malferma quello che riferiscono
gli atti della Camera.
Cortis. Domando la parola.
Presidente. Su che?
Cortis. Per una dichiarazione. Siccome poi non
voglio riuscir molesto alla Camera che ha una legittima impazienza di udire
l'on. Magliani, prego l'onorevole presidente di volermi riservare la parola a
subito dopo l'esposizione finanziaria.
Presidente. Sta bene.
Durante lo scambio di queste
parole, Elena non aveva battuto palpebra.
Manco male disse sua madre
sentiremo Magliani e poi andremo via. Hai udito che voce aveva Daniele? Non sta
bene quel ragazzo.
Elena taceva sempre, guardando
Cortis con lo sguardo fisso, scuro, che diceva in lei un'acuta intensità di
passione. Egli era là con i gomiti sul banco, la testa fra le mani. Non
l'alzava mai ed Elena ne soffriva, s'irritava, in pari tempo, di soffrirne,
disprezzava questa sciocca fibra egoista del proprio cuore. Come non
sarebb'egli tutto nella meditazione del suo discorso, come dovrebbe pensare a
lei?
Intanto il ministro aveva
incominciato a parlare. Quasi tutti i deputati erano scesi ai banchi inferiori
per udirlo meglio. Dalla tribuna della presidenza si vedeva giù la sua testa
bianca volgersi ora a destra ora a sinistra, piegarsi nei radi momenti di
silenzio alle carte disposte sul banco, attingervi una cifra, rialzarsi; la
fluida parola riprendeva ad esporre le cose della finanza pubblica con la
grande abilità che altri ammira, altri deplora. Non v'erano mai nel dire
dell'on. ministro effetti oratorii; ma pure, ad ogni tratto, dei bisbigli
d'approvazione correvano nell'aula, padroneggiata non tanto dall'ingegno
dell'uomo, non tanto dalla perizia profonda di ogni minuto congegno del suo
dicastero, materia arcana ai più, quanto dalla fama de' suoi ardimenti e,
sovratutto, dallo splendore della sua straordinaria fortuna.
Sarà un divertimento anche questo
sussurrò la contessa Tarquinia dopo un po' di tempo. A me mi fa star giù il
fiato. E quando durerà!
Non lo so rispose Elena,
asciutta. Io già resto anche dopo.
Amen rispose l'altra.
Passavano le cifre, passavano i sottili
ragionamenti, ma ben poco ne giungeva alla tribuna della Presidenza. Ogni tanto
qualcuno s'alzava, scivolava di fianco, in punta di piedi, lungo i sedili.
Poche persone vi duravano a guardare il discorso del ministro e a udire i benissimo
della Camera. Invece le tribune politiche rigurgitavan di gente. Nella tribuna
dei senatori, Clenezzi guardava spesso le signore, cercava farsi riconoscere,
ma inutilmente. Ad un tratto il ministro tacque e sedette. Un rumore sorse dal
fondo dell'aula, come di un nuvolo di mosconi che si levassero ad un tempo dal
cibo.
Ci siamo disse la contessa
Tarquinia. Cosa fa Cortis? Cortis posava in quel momento sul banco le braccia
incrociate e sulle braccia la testa. Non era la sua volta. Un altro ministro si
alzò a presentare una relazione; poi l'onorevole Magliani, che aveva solo
chiesto di riposare per cinque minuti, ripigliò il suo discorso. Elena era
inquietissima. Vedeva che Cortis si sentiva male, temeva che non potesse
parlare come avrebbe saputo, e che avesse poi a soffrirne moralmente. Avrebbe
voluto vederlo alzarsi, andar via: le facevan rabbia quei deputati suoi vicini
di posto che non si movevano per domandargli se fosse malato, per consigliarlo
di andar via. Non aveva dunque amici, Cortis, in tutta la Camera? Si struggeva
di scender lei a condurlo fuori. Pensava se non vi fosse modo d'incaricarne T.
Si fece prestare un binocolo da una signora vicina onde scoprirlo, accennargli,
se possibile, di venire nella tribuna. Ma prima guardò Cortis. In quel momento
qualcuno gli batteva sulla spalla. Egli si scosse, alzò la testa. Ora Elena lo
poté veder bene in viso. Era molto acceso, forse per essere stato tanto tempo
col capo sul banco. Lo vide scambiar poche parole con chi l'aveva toccato e
crollar la testa in segno di diniego; poi guardar un momento verso la tribuna,
senza mostrar di conoscervi alcuno, e discender lentamente all'attitudine di
prima. E quell'altro non gli parlava più, non lo portava subito fuori della
Camera! T. era intento al discorso del ministro, non guardava mai la tribuna.
Elena fu per scendere all'ufficio di via della Missione e far chiamare Cortis.
Ma no: se stava meditando il suo discorso, non sarebbe una chiamata opportuna.
Potrebbe far venire T., invece! Intanto il ministro finì il suo discorso fra i bravo
e gli applausi. I deputati d'ogni parte s'affollavano intorno a lui. Anche
nelle tribune molta gente si moveva per uscire.
Cara te disse la contessa
Tarquinia, non si va proprio via, dunque?
Elena non rispose; forse non udì
neppure. Teneva la persona eretta, le mani sul parapetto della tribuna,
aspettando, senza quasi respirare, che il presidente desse le parole a Cortis.
Adesso l'aula si vuoterà disse il
signore pratico. Invece gli onorevoli deputati ripresero, quasi tutti, i loro
posti.
L'onorevole Cortis disse il
presidente ha la parola.
Gli occhi di Elena salirono
involontariamente all'orologio che aveva di fronte. Segnava le tre e
cinquantacinque.
Cortis, si alzò. Da ogni lato
della Camera, tranne dal centro, tutti guardarono a lui in diverse attitudini,
da quella di una viva curiosità a quella di una sprezzante noncuranza, di un
anticipato giudizio. Al centro, dove certe mediocrità boriose avevano sentito i
sarcasmi di lui, conversavano e ridevano malgrado le scampanellate del
presidente; perciò Elena, livida, si mordeva le labbra. Egli pareva aspettare
il silenzio, inchinando la persona sul banco cui appuntava le mani. Il
presidente suonò ancora il campanello e disse:
Parli pure, onorevole Cortis.
Nello stesso momento Cortis,
incominciò:
Io debbo pregare la Camera...
S'interruppe, cercando la parola. Si pose una mano alla fronte, poi ripigliò
con voce affievolita:
Lo stato della mia salute mi
costringe a domandare, anzitutto, l'indulgenza della Camera.
Fece ancora una pausa, forse uno sforzo
interno di richiamare al cimento il vigore dello spirito e del corpo. La sua
voce parve rianimarsi nel dire:
È probabile che la Camera
proroghi oggi le sue sedute ed io non posso differire un atto che stimo
doveroso verso i miei elettori, il mio paese e me stesso.
Prima di uscire da questo recinto
forse per sempre... Nel dire forse per sempre la voce parve mancargli,
la lingua intorpidirglisi. Pronunciò ancora poche parole inintelligibili e
sarebbe stramazzato sul banco se i colleghi non fossero accorsi a sorreggerlo.
Si udì un grido dalla tribuna della Presidenza, ma nessuno vi pose mente.
Uscieri e deputati accorrevano al banco di Cortis, che fu portato
immediatamente fuori dell'aula.
Elena, sulle prime, non aveva
capito, s'era chinata avanti per coglier le parole che le sfuggivano. Poi,
vedendo i vicini soccorrerlo, vedendolo abbandonarsi fra le loro braccia, balzò
in piedi, gittò un grido soffocato guardando là, dove tutti ora guardavano da
tutte le tribune, spenzolandosi in fuori, salendo sui sedili, mettendo ai
parapetti una corona di prone facce avide. Quando Cortis fu levato di peso da
due suoi colleghi e portato via, ella, in un lampo, senza che altri né lei
stessa potesse dir come, si sciolse da sua madre che, tutta tremebonda, le
aveva posto addosso le mani convulse, balzò fuori dalla tribuna.
L'usciere di servizio, vista
venir di furia una signora pallida e stravolta, pensò di trattenerla,
domandarle che volesse; ma ella lo respinse con un gesto imperioso della
sinistra, passò oltre, uscì nel corridoio cui mettono le tribune di quel lato
della Camera. Il corridoio era vuoto, silenzioso. Si fermò un momento, non
sapendo raccapezzarsi da qual parte prendere. Allora un signore uscito dietro a
lei la raggiunse.
Signorina diss'egli, non si
spaventi, non sarà niente; venga dalla sua signora mamma che è un po'
disturbata anche lei.
La parola signorina che in quel
momento poteva significar tanto, avrebbe trafitto Elena se tutta l'anima e
tutti i sensi di lei non fossero stati altrove. Le parve udire un suono di
passi e di voci a sinistra; corse via da quella parte, senza rispondere, si
trovò in capo alla scalone che mette alle stanze della Presidenza.
Saliva una frotta di gente. T. e
un altro, vedendo Elena, si fecero avanti, la trassero da parte per non
lasciarle vedere Cortis ch'era portato su, dietro a loro.
Non è niente, baronessa disse T.
Uno svenimento, una cosa da nulla, passerà subito.
Niente, niente ripeteva l'altro,
sia tranquilla.
Dov'è? Voglio vederlo disse Elena
convulsa. Ci sono medici? Voglio assisterlo. È mio cugino!
Ma sì, ma sì insistevano gli
altri, lo vedrà, lo assisterà. C'è il ministro B., c'è G. Adesso non ha bisogno
che di quiete, si calmi.
Due o tre altri deputati si
aggiunsero a loro, fecero siepe intorno a Elena mentre il triste convoglio
passava rapidamente, entrava nelle stanze della presidenza.
Elena se n'avvide, non parlò,
fece l'atto di slanciarsi avanti verso la porta; fu trattenuta. Si ricompose
subito, pregò T. di recarsi da sua madre, nella tribuna; pregò gli altri, con dolcezza,
quasi sorridendo, di lasciarla entrare dal malato, parlare con i medici. Per
lei, disse, l'incertezza era peggiore di qualunque dolorosa realtà. Allora fu
lasciata passare rispettosamente. Qualcuno che saliva lo scalone e non la
poteva vedere, disse forte: L'han portato là? Cattivo augurio; è la camera del
povero...
E nominò un giovane lombardo,
pieno d'ingegno e d'ardore, colpito anche lui al suo posto di deputato e morto
nella camera dove avevano portato Cortis. Elena udì, si fermò un momento, mettendosi
la mano sul cuore, poi entrò in un'anticamera oscura piena di gente che parlava
sottovoce. Qualcuno dava degli ordini da una camera a sinistra, ancora più
oscura; tra questa e quella era un continuo andare e venire d'uscieri. Poca
luce entrava per un altro uscio spalancato, da una stanza chiara, elegante.
Elena piegò a sinistra verso quel signore che dava gli ordini. Egli le disse
bruscamente:
È moglie Lei? È sorella?
No.
Bene, scusi; adesso non si entra.
Ma voglio sapere... replicò Elena
fremendo.
Cosa? Quello che nessuno sa?
Potrà entrare più tardi. Aspetti là.
Le accennò la stanza chiara,
rientrò presso il malato con un usciere che arrivava allora portando qualche
cosa, e chiuse l'uscio dietro a sé.
Allora il deputato che le aveva
parlato prima insieme a T., si accostò ad Elena, le disse che pareva trattarsi
di una minaccia di congestione cerebrale, non certo leggerissima, ma neppure
molto grave. Avevano adagiato l'infermo in una poltrona e stavano preparandogli
il letto. La persuase che per ora non potrebbe far niente: l'opera sua
diventerebbe certo utile più tardi. Entrò con lei nella stanza chiara, la fece
sedere sopra un divano a fianco della porta. Là non si vedeva l'andirivieni
dell'anticamera.
Lei non si sentirà bene
diss'egli. Avrà bisogno di qualche cosa.
Elena scosse il capo, sussurrò un
grazie quasi inintelligibile, guardando la lucerna che ardeva, benché
non fossero ancora le cinque, sul tavolino davanti a lei.
Le sedute finiscono tardi e qui
si accendono sempre le lucerne per tempo osservò colui tanto per dir qualche
cosa.
Ella non rispose. Dopo qualche
tempo lo pregò di non incomodarsi a star lì con lei che poteva benissimo
rimaner sola. In quel punto entrò T. La contessa Tarquinia era nel corridoio ad
aspettare sua figlia. Elena scattò su dal divano, raggiunse la contessa che
dava il braccio al senatore Clenezzi e pareva reggersi appena.
Oh Dio, Elena diss'ella, mi
abbandonai in questo stato! Andiamo a casa, ti supplico. Io non ho più fiato,
non ho più gambe: non posso far niente, non posso star qui!
Coraggio, mamma rispose Elena.
Ora non vengo. Verrò più tardi, potendo; quando si vedrà che piega prendono le
cose. E poi tornerò, naturalmente. Io sono forte, posso assisterlo benissimo.
Oh Signore, e adesso non vieni?
Ma no, adesso prego il senatore
di prendere una carrozza, e di condurti all'albergo.
Si figuri, si figuri! ripeteva il
senatore colla sua onesta faccia grave, piena di dolore. Dispongano. Io
accompagno la contessa a casa, poi verrò a prender Lei, se crede.
Non occorre s'affrettò a
risponder Elena. Io non Le posso dire adesso, proprio con precisione, quando
verrò.
M'immagino mormorò il senatore,
accostando il viso a quello di lei che a momenti capiterà qui la signora
arrivata stamattina.
Elena trasalì.
Non lo so, non so niente
diss'ella. Io torno qui certo, a ogni modo.
Elena, Elena gemette sua madre,
pensa che non hai mica salute da buttar via neanche tu.
Elena aggrottò le ciglia, si
strinse nelle spalle, sdegnosamente.
Adesso vado diss'ella, e guizzò
via, scomparve nell'anticamera. Un momento dopo, scivolava dietro un usciere
nella camera dell'ammalato.
Ne uscì due ore più tardi,
pallidissima sempre, ma tranquilla, s'intrattenne con alcuni onorevoli membri
dell'ufficio di Presidenza, che le offersero, con la massima cortesia, quanto
mai ella potesse desiderare, la persuasero che si farebbe ogni cosa possibile
per Cortis, del quale parlavano con vivissima stima e simpatia. Espressero poi
la loro ferma convinzione che il male potesse già considerarsi vinto con la
cacciata di sangue ch'era stata fatta immediatamente. Elena chiese solo di
mandare un telegramma, che diresse al conte Lao, in questi termini:
Daniele malato piuttosto
gravemente. Ho bisogno di te, subito.
Mandò poi un biglietto al
senatore Clenezzi per avvertirlo che non avrebbe potuto muoversi se non per
un'assoluta necessità di sua madre, e rientrò da Cortis, presso il quale c'era
ora un'altra persona: una signora lunga e magra che usciva ogni tanto a gemere
e singhiozzare.
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